Suonata a distesa è il racconto di una giornata passata da Scotellaro a Portici assieme ad un compagno di studi tricaricese alla facoltà di Agraria, nel mese di febbraio 1951.

     Se non ricordo male (cosa possibilissima giacché sono passati più di sessant’anni) questo racconto fu pubblicato in forma più breve (o in una prima stesura, poi riscritta a Portici dall’8 al 16 febbraio 1951) sul «Mattino d’Italia», diretto da Ugo Amedeo Angiolillo, che aveva come collaboratori personalità prestigiose come Gino Doria, singolare figura di storico, che ne era il vice direttore, e Francesco Compagna e Michele Prisco. La collaborazione organica di Scotellaro probabilmente non si concretizzò per la chiusura del quotidiano, uscito soccombente nei confronti dello storico quotidiano di Napoli «Il Mattino» in una causa per concorrenza sleale, in quanto il tribunale sentenziò, anche se si trattava di una vecchia testata, che il titolo del giornale costituisse atto idoneo a ingenerare confusione tra i lettori. Sul Mattino d’Italia Scotellaro pubblicò qualche articolo in terza pagina (lo spazio che, storicamente, i quotidiani italiani hanno dedicato alla cultura).

     Scotellaro raggiunge Portici da Napoli, dove aveva dormito in un albergo vicino alla stazione centrale di piazza Garibaldi. Non aveva dormito quasi tutta la notte, perché la stanza tremava scossa dal traffico della strada. Via Stella Polare, che aveva inizio dall’albergo, era stata interamente distrutta dieci anni prima in uno dei primi bombardamenti di Napoli e portava ancora i segni della furia delle bombe.

     Parrebbe che da via Stella Polare sia andato a piedi a Portici. «Tutto il giorno trascorso ho camminato da Stella Polare di Napoli a Portici, lungo la strada più suonante del mondo,  dove la miseria canta a distesa: i carretti dei cavoli, i deboli  fanali di luce celeste; i traini ammantati di sacchi vuoti; i tram che galoppano e sventrano i bassi: giornali, donne e uomini, bambini ai marciapiedi; i pezzi di biancheria e i quarti  delle beccherie, la sedia con le caramelle e l’uomo che si frega  le mani e chiama, i cesti con le cipolle e la rec1ame «Gente  currite, currite».

Passa per i Granili, edificio dalla mastodontiche proporzioni realizzato lungo la linea costiera, oggetto del libro di Anna Maria Ortese «Il mare non bagna Napoli». In esso ogni aspetto era assai notevole.

     Scotellaro scrive: « … c’era folla a scavare nel letto d’un palazzo distrutto, cercava ferro vecchio da vendere, non si sarebbe detto, pareva la stessa folla di un cimitero la festa dei morti,  indaffarata e china. E una tra le casette, cavate nei muri ancora in piedi, pareva una mascalcia, invece c’era scritto sopra  «Barbiere».

Si vede un po’ di mare lordo sotto le gru, tra gli ultimi varchi del porto. Ma poi non c’è più niente da vedere, si cammina tra due pilastri uguali di case che non finiscono più. Non finiscono a Croce del Lagno, dove comincia Portici, e  comincia perché così è scritto».

     Il compagno di studi si chiamava Nicola e aveva la faccia butterata dal vaiuolo. Nicola è un personaggio di fantasia. Nessun tricaricese era studente della facoltà di agraria di Portici. Il nome e la descrizione della faccia parrebbe corrisponde a quella del fratello Nicola.

     Qui mi fermo. Il racconto non è riassumibile, se non a rischio di deformazioni più gravi di quanto i riassunti apportano ai testi originari.

     Esso va letto con attenzione e, a mio parere, senza volere cercare un messaggio. Scotellaro non è più sindaco da circa sei mesi, ha lasciato Tricarico e va alla ricerca di un nuovo senso da dare alla sua vita. A Napoli si guarda attorno, vede le vie martoriate dalla guerra, legge nelle pietre la storia di una città che ha conosciuto anche secolari miserie e prende nota. E’ il suo punto di partenza. Non era un estraneo che si introduce nella miseria senza compassione e con violazione di domicilio e di intimità.  

 

Suonata a distesa 

 

Febbraio di quest’anno. Un oblò è la lampada accesa sul  mio capo, di fronte è l’armadio con lo specchio e l’oblò dentro che cammina come proprio a fior d’acqua perché tutta la stanza dell’albergo si muove al terremoto della strada e quindi  sbatte violento lo specchio dell’armadio. Non ho dormito.

Quando finalmente la luce del nuovo giorno è venuta nella  stanza come un terzo lenzuolo che tutto fasciava, me e le pareti, allora mi sono addormentato, abbattuto e vinto come in un fosso, le ferite ai piedi non dolevano più.

Tutto il giorno trascorso ho camminato da Stella Polare di Napoli a Portici, lungo la strada più suonante del mondo,  dove la miseria canta a distesa: i carretti dei cavoli, i deboli  fanali di luce celeste; i traini ammantati di sacchi vuoti; i tram che galoppano e sventrano i bassi: giornali, donne e uomini, bambini ai marciapiedi; i pezzi di biancheria e i quarti  delle beccherie, la sedia con le caramelle e l’uomo che si frega  le mani e chiama, i cesti con le cipolle e la rec1ame «Gente  currite, currite».

Sono entrato da Nicola, mi aveva fatto chiamare sapendomi a Napoli. Il giovane che è venuto mi ha detto:

– Sono collega di Nicola all’università Agraria di Portici, Nicola non si sente bene e vuole per un poco la sua compagnia e, se riparte per il paese, vuole affidarle un incarico,  viene?

Nicola, ricordo la sua faccia butterata, fu l’ultimo ad avere il vaiuolo, mentre la mamma, già ammalata, lo allattava. Ragazzo, uomo sfortunato, ma testardo, ricordo le sue grida  quando studiava. Batteva il pugno sul tavolo, allo stesso punto come avesse afferrato qualcosa che non sarebbe più scappata via, e gridava vittoriosamente le date di storia, i versi latini  e greci. L’estate voleva guadagnare, ricordo le sue proteste  alle autorità perché lo mandassero a controllare le trebbie delle aziende al tempo del raccolto. Bicicletta e cappello di  paglia, si mangiava trenta chilometri di strada al giorno, a fine campagna era contento per il guadagno e perché le piaghe  del vaiuolo s’erano ristrette al sole. Nicola, questo toro, rientrato dalla prigionia, si mise a viaggiare, non c’era altro mestiere per lui o vocazione, bisognava vendere e comprare. Ha  smesso da un paio d’anni, per riprendere gli studi e tornare  tra i banchi, nelle camere di pensione, con i libri annotati, a gridare, a battere i pugni, a tenere con i capelli la materia  fino al giorno degli esami.

L’inferno che ha fatto la strada per Portici con i suoi  fossi, con le famiglie cacciate fuori dalle case a ingrossare  il più vociante proletariato, mi preparava a rivedere Nicola.  Per i Granili c’era folla a scavare nel letto d’un palazzo distrutto, cercava ferro vecchio da vendere, non si sarebbe detto, pareva la stessa folla di un cimitero la festa dei morti,  indaffarata e china. E una tra le casette, cavate nei muri ancora in piedi, pareva una mascalcia, invece c’era scritto sopra  «Barbiere».

Si vede un po’ di mare lordo sotto le gru, tra gli ultimi varchi del porto. Ma poi non c’è più niente da vedere, si cammina tra due pilastri uguali di case che non finiscono più. Non finiscono a Croce del Lagno, dove comincia Portici, e  comincia perché così è scritto.

L’autobus si è arrestato bruscamente in un atrio che non è una piazza, o era la piazza d’armi del palazzo reale di Portici,  Il cielo si chiude sopra come un coperchio: dove sta Nicola?

Devo passare la seconda buca aperta al palazzo e ritrovare la corrente del Corso, agitata già dal passaggio dell’autobus.  Qui Portici finisce e comincia Resina, lo dice la scritta sul palo, alla curva d’un marciapiedi, tra una casa e l’altra. Secondo le informazioni, per trovare la stanza di Nicola, devo passare al marciapiedi opposto.

La stanza del mio amico aveva su un angolo della volta dipinto un ventaglio dal margine sovraccaricato di fiori, e volanti, perse in due punti, erano due farfalle.

– Cosa guardi? Sono qua. – E’ stata la voce di Nicola. Stupidito ancora della strada e poi delle scale, solo quanti gatti tra i piedi, credendo di entrare in un salottino di attesa, non ho cercato il volto di Nicola. Ancora non lo scorgevo, con tutta la sua voce, perché, abbassato lo sguardo dalla volta,  mi sono visto in uno specchio, alto forse quattro metri, e  opposto c’era un altro, della stessa enorme grandezza, dunque ero in mezzo alla galleria infinita di specchi. Sotto, un lungo divano coperto da un lenzuolo; più in qua, in mezzo, che lo  toccavo con le ginocchia, il letto di Nicola, che ha riso salutandomi:

– Sono un principe malato. 

Poi ha detto ancora:

– Devi fingerti mio parente e dirmi che mia madre è  ammalata e mi vuole. Non lo crederesti, sono in trappola, devo uscirne. La padrona di casa è gelosa anche dei miei amici. Non esco senza il permesso, che mi dà soltanto se viene  l’altro suo amante resinese. Che faccio? cerchi i miei libri? Sono allineati in quel canterano, chiusi a chiave. Il primo  mese che non pagai, mi procurò il lavoro. Dunque starei bene:  la donna e il lavoro, a due passi dall’Università. Come sta  mia madre? Le ho mandato a dire che ho fatto un esame,  ho preso 23. Ti meravigli del numero, è un voto assurdo,  ma si usa. Poverina lei, mia madre, chi può aiutarla? Le mando dei soldi, che ho. Lei mi scrive: «E quando ti laurei che  possiamo stare insieme? Io ti faccio la cucina e tutto e poi  ti sposi e spendi meno e sei meno solo». Se adesso vuoi sapere che faccio: dietro questo casone dove abito si chiama Cuparella …

Nel mentre, è venuto l’amante resinese, Nicola si è vestito  in fretta e siamo usciti. La donna, padrona di casa, è sgusciata alla porta, l’abbiamo sentita per le scale:

– Tornate con buoni affari!

– Sarebbe il fratello della mia fidanzata – casi Nicola mi ha presentato all’uomo. E poi, volto a me:

– Di qua è la Cuparella.

Anche il nostro paese potrebbe chiamar casi il suo rione  saraceno. Il mare è giù, sotto le case, ma qui pare che sia  lontano mille miglia.

Ho visto il rione saraceno del mio paese, i sassi di Matera, il «ghiascio» di Gravina in Puglia. Si passa ovunque per un  arco, dentro l’arco c’è un orinatoio, e l’aria di questo circola  per le stradette.

– Vendono a leccate la ricotta, vedi, nelle foglie dei cavoli.

Quelli lavano stracci, li sciorinano sulle funi, da porta  a porta.

Quello che vuole? E’ l’esattore della luce.

I bambini e le donne stanno dietro una vetrina, raccolti intorno al Ietto. Il letto allaga la casa. – E lì?

Siamo dall’aria dell’orinatoio, dal silenzio delle donne, dei bambini, usciti al baccano, d’un tratto. Friggitoria all’angolo, sotto una tenda: una fanciulla spezza un mazzo di spaghetti, la mamma rotola col mestolo una caldaia di reggimento.

– E’ la salita di Pugliano, la mia università!

«Le vesti a una lira pigliate!» gridano. Montagne di vesti  sfatte, sottovesti rattrappite, calzoni, giubbe, cappotti:

– Ci vorrebbe un lavatoio e delle donne, – ho detto  a Nicola.

Ma le nostre parole non corrispondevano più in quel baccano. Borse da donna, pellicce, vere, lunghe pellicce ordinate  per terra, intiere con le maniche in croce. Sulle montagne  di roba la gente in gruppi; in sù, in giù una fiera di colori  e gli uomini e le donne, formiche, che vanno da una montagna  all’altra, toccano, prendono uno, dieci pezzi e li rilasciano  e passano altrove. Le donne scelgono i loro corredi nell’abbondanza. Altrove: fette di baccalà, residui, ferramenta, ruote gommate delle carrozzelle per bambini. E per tutta la salita il grido fermo dei venditori: – Scartate! Scartate!

Nicola è entrato in un crocchio, quando un carrettino  è salito con due balle di merce nuova. L’ho aspettato un’ora  o due. Ho chiesto che facevano nella casa dove poi tutto il crocchio è andato, mi hanno risposto:

– Conciano la merce con la naftalina.

– Non hanno altro mestiere questi venditori?

– Erano operai una volta.

Che po’t’evo chiedere più a quelli e anche a Nicola? Stanco, ho preso il tram che si vedevano le scintille violazzurre  del filo. La stessa suonata a distesa della strada è entrata  nella mia camera d’albergo.  

 

Rocco Scotellaro (Portici, 8-16 febbraio 1951) 

 

 

 

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