Michele cade in una profonda crisi. Tra poco riporterò il testo originario che ne parla, qui mi limito a farne un breve cenno, a mo’ d’introduzione. .

Michele fugge senza meta, per quattro giorni non si sa nulla di lui, per quanto sia ricercato. Due guardie forestali lo trovano a dieci chilometri dal paese, e, nel pomeriggio, lo accompagnarono in caserma. Dopo quattro giorni vissuti da fuggiasco – dividendo il cibo con pastori ignari di chi fosse e dormendo in una stalla o all’aria aperta – Michele era tutto disfatto, appariva quasi un altro.

Col maresciallo si giustificò con la solitudine dopo il suicidio di Ernesto, il forte desiderio del mare «amato e desiderato», lui che era di Barletta e faceva il pescatore; la nostalgia della famiglia che non vedeva da mesi per i permessi negati. «Senza motivo, maresciallo!». Dopo, scoppiò in un gran pianto che non lasciò indifferente il comandante, che era una brava persona, e si sentì in dovere di informare Michele che, purtroppo, la sua fuga era già stata comunicata alle autorità competenti «per le decisioni del caso».

Michele restò in caserma guardato come un prigioniero; tre giorni dopo venne trasferito, di notte, in un paesino a oltre mille metri sul livello del mare.

«Che novità è questa!» esclamò il maresciallo quando gli comunicarono che Michele Miraglia, il confinato di Barletta, era scomparso.

«Quando è stato fatto l’ultimo controllo in quella casa?» Il brigadiere, mostrando il mattinale con il giorno e l’ora della visita:

«Comandante, volete dire quella stanzetta che una volta era deposito di paglia? Quattro giorni fa, il sedici agosto che qui si festeggia san Rocco. Miraglia alle venti si era ritirato. Ricordo che si stava preparando un’insalata». Michele si era allontanato proprio quella sera, subito dopo la visita dei carabinieri, quando la gente del vicinato era andata in piazza per assistere ai festeggiamenti con banda e fuochi d’artificio.

«E come vi siete accorti che dopo giorni non era più al suo posto?»

Il brigadiere:«Una vicina di casa, una benefattrice che ogni tanto va a mettere un po’ d’ordine in quel buco di stanza dove manca tutto. Ad ogni modo sono già cominciate le ricerche». «A ogni modo un’inchiesta non c’è la toglie nessuno» sospirò il maresciallo.

Per primo si era messo in giro l’appuntato che con Bulò al guinzaglio si era spinto fino ai casolari più estremi del paese, e finanche alla latrina pubblica frequentata da contadini ambulanti vecchi pensionati mentecatti, ma anche da Michele ed Ernesto che nella misera stanza non avevano il più indispensabile servizio igienico, a parte un filo d’acqua corrente.

Tra una diecina di cessi alla turca, senza l’ombra di un divisorio, si mortificava il pudore di chi ancora l’aveva. Lo fece capire al carabiniere schifato lo spazzino che con la pompa, tenendosi a distanza, lanciava violenti spruzzi d’acqua “sui rifiuti umani”. E intanto fischiava con l’aria di chi finge di non vedere.

Lo spazzino confermò all’appuntato che da diversi giorni Michele, il pescatore, non si era fatto vedere.

«Venivano lui e il suo amico, pace all’anima sua, la mattina tardi quando qui non c’è più nessuno. Sapevano che quella era l’ora della pulizia e ne approfittavano. Quelli che vengono quasi tutti i giorni là dentro si fanno compagnia, chiacchierano come fanno in cantina. I due confinati entravano a turno, prima uno poi l’altro. Si rispettavano». Nel tardo pomeriggio due guardie forestali accompagnarono Michele in caserma. Lo avevano trovato nel bosco a dieci chilometri dal paese: dormiva disteso nel cavo di un vecchio tronco e il suo corpo minuto e indifeso, con calzoni e camicia grigia qua e là lacerata, quasi vi si confondeva. Dopo quattro giorni vissuti da fuggiasco – dividendo il cibo con pastori ignari di chi fosse e dormendo in una stalla o all’aria aperta – Michele era tutto disfatto, appariva quasi un altro.

«Dove pensavate di andare con questo vostro gesto insensato, senza sapere nulla delle zone oltre i confini dell’abitato?» gli chiese il maresciallo.

Raccolse solo brandelli di giustificazioni: la solitudine dopo il suicidio di Ernesto; il forte desiderio del mare «amato e desiderato»; la nostalgia della famiglia che non vedeva da mesi per i permessi negati.

«Senza motivo, maresciallo!»

E giù un gran pianto che non lasciò indifferente il comandante, il quale si sentì in dovere di informarlo che, purtroppo, la sua disubbidienza al regolamento era già stata comunicata alle autorità competenti «per le decisioni del caso».

Il pescatore di Barletta restò in caserma guardato come un prigioniero; tre giorni dopo venne trasferito, di notte, (per dispetto?) in un paesino a oltre mille metri sul livello del mare. (pagg. 93 – 95)

Dopo la morte di Ernesto e il trasferimento di Michele, nel paese restano sei confinati: tre alloggiati alla pensione Caterina e tre al convento. Tutti sei, nel volgere di alcuni mesi, lasceranno il paese.

Il primo ad ottenere la libertà fu Luigi. Con decisione improvvisa e inaspettata, di cui si poteva supporre una qualche ragione, certamente non dettata da un impulso di generosità, come succedeva sempre in questi casi e vedremo anche nel caso di Luigi, gli fu concesso uno sconto di pena. Don Armando, Ninì e suo padre, Carmine Pisani, aspettavano alla stazione il treno, che li avrebbe condotti a Salerno: don Armando era stato mandato a insegnare latino e greco in quel seminario superiore, Ninì, accompagnato dal padre, si recava in quell’allora ridente capoluogo per frequentare le magistrali. Tutti tre avevano raggiunto la stazione con una balilla a noleggio. Poco dopo giunse la corriera.

E dall’ ombra di un oleandro, a sorpresa, sbucò Luigi, il milanese, il più giovane dei confinati. Era arrivato in quel momento con la corriera postale.

«Oh, Signore!» esclamò don Armando. Luigi gli andò incontro con aria raggiante. «Non mi dire che ti hanno prosciolto».

«Proprio così, prosciolto, libero finalmente, e con tre mesi di abbuono. Si può dire così?».

Don Armando, senza farsi sentire, disse al padre di Ninì: «Ho paura che i tre mesi di abbuono li sconterà molto presto con la chiamata alle armi». Caterina e Anna avevano preparato per Luigi il cestino da viaggio e gli avevano dato l’incarico di salutare don Armando.

Ma in modo particolare la salutano Pietro, l’imbianchino più ricercato del paese, e Francesca, la professoressa solitaria che apprezza la simpatia della gente, ma non la commiserazione. Dice che è avvilente, una specie di condanna. Vive le sue giornate quasi sempre chiusa. Legge e scrive di continuo».

«Starà scrivendo il diario del confino» disse il canonico nel silenzio sospeso della stazione, mentre la locomotiva del merci aveva finito di palpitare con i pochi passeggeri ostaggi dell’attesa. Qualche minuto dopo alla svolta apparve il treno. Un poco inclinato scivolava lungo la fila degli oleandri. Si fermò con grande stridore di freni. Chi non parte assiste alla scena dei saluti e degli addii. E sembrò proprio un addio l’abbraccio di Luigi a don Armando, a Carmine Pisani, e a Ninì che seguì il giovane con lo sguardo fino a quando non lo vide scomparire nel ventre della carrozza di terza classe, l’ultima del convoglio.

 Don Armando è stato mandato a insegnare latino e greco al seminario di Salerno, per punizione pensano lui e il prof. Martino, dato il rapporto d’amicizia che tuttora lega don Armando all’ex presidente del consiglio in esilio Francesco Saverio Nitti. Al professore mancano l’amico canonico, la sua amicizia e il confronto con la sua cultura, le sue idee e l’intolleranza per il fascismo, e cerca di colmare il vuoto scrivendogli lunghe lettere con le quale lo informa degli accadimenti del paese, commentandoli con ironia e colte citazioni. Lo informa, quindi, anche delle partenze di Luigi e di Francesca, avvenute dopo la partenza del canonico per Salerno. Alla chiusura dell’anno scolastico, per il periodo della vacanza, don Armando torna al paese, all’esercizio delle sue funzioni di membro del capitolo della cattedrale e a celebrare la messa al cimitero, dove gli capita di apprendere delle partenze che avvengono in quel periodo.

Il primo a lasciare il paese fu Pietro. Il suo fu un trasferimento coatto. Lo comunica il professore a don Armando con una lettera del 26 ottobre 1939, anniversario della marcia su Roma.. Qualche ruffiano, nel pettegolume paesano, aveva messo in giro la voce che tra Pietro e Anna, nella pensione Caterina, era nato un rapporto sentimentale. Il regolamento dei confinati disponeva che bisognava vigilare affinché non nascessero relazioni troppo strette e, quindi, Pietro fu trasferito, probabilmente alle Tremiti, così improvvisamente da non aver potuto lasciare neppure un saluto.

Pietro tornerà al paese circa sette anni dopo, durante le elezioni per l’assemblea costituente. Era ora un esponente di primo piano della rinata democrazia e tornò per tenere un comizio per il suo partito. Si recò alla pensione Caterina a salutare le persone che gli avevano voluto bene. – Anna, dov’è Anna? – chiese a Caterina. La quale gli riferì che Anna si era sposata già da quattro anni, stava in un paese della Puglia e aveva una bambina, bella come la mamma. Sollecitato da Caterina, che se lo poteva permettere perché alla pensione lo aveva trattato come uno di famiglia, Pietro confidò che non si era sposato e che per Anna aveva sentito qualcosa di più di una simpatia. Fu davvero un brutto momento per Pietro, quando, per degli stupidi pettegolezzi, venne mandato alle Tremiti. Ma non c’era stato nulla, o quasi nulla, Anna aveva altri pensieri, o altri ricordi. E Caterina confermò che Anna era rimasta col ricordo di Samuele, del quale si era innamorata. Solo lei sapeva quanto Anna avesse sofferto.

Sappiamo già che la durata del confino comminato a Francesca stava per concludersi. Lo aveva rivelato lei stessa aprendosi alla confidenza nel corso dell’ultimo pranzo gioioso consumato in dodici, confinati e frati, insieme come apostoli, attorno al fratino del 1600, mentre stavano per ricevere l’ordine di separarsi. Il prof. Fedele Martino informa della liberazione di Francesca, per fine pena, nel corpo di una lettera del 25 marzo 1940. Francesca gli aveva lasciato i suoi saluti e aveva promesso che si sarebbe fatta viva quando tutto sarebbe finito. Con quel “quanto tutto sarà finito” – osserva ironicamente il prof. Martino – Francesca non alludeva alla fine del mondo. Evidente l’allusione, carica di speranza, della fine del fascismo.

Inaspettata giunse anche la liberazione di Lorenzo, falegname ebanista di Todi, e di Mattia, spedizioniere di Savona. Don Armando celebrava messa al camposanto in suffragio dei poveri morti nei primi giorni di guerra e nota, con sorpresa, che, con padre Aurelio, partecipavano alla celebrazione eucaristica Lorenzo e Mattia. Vedendoli oltre la cintura urbana, e perciò liberi, pensò che fossero stati prosciolti ma, di sicuro, con l’obbligo di leva. Chiese perché non ci fosse anche Remigio. Padre Aurelio rispose con piglio polemico che gli anarchici sono considerati inaffidabili soprattutto in un paese in guerra.

Il turno di Remigio non tardò a giungere, per fine pena. Don Armando era andato a dir messa al cimitero nell’ultima cappella, «che si affacciava estenuata per gli anni e l’abbandono sulla valle dove scorreva il fiume».

Accanto all’altare trovò Remigio, il confinato anarchico, che stava predisponendo gli arredi sacri.

«Proprio tu, qui?», chiese come incredulo.

E lui, sorridendo: «Ho imparato a servire la messa alla scuola di padre Aurelio, in convento non c’era molto da fare. A parte l’orto».

«Scusa, Remigio, ma tu credi in Dio?», chiese il canonico, quasi a sfidarlo mentre cominciava a indossare i paramenti che quello gli porgeva con una precisa sequenza di gesti.

Remigio abbassò appena il capo e preferì rispondere che aveva finito di scontare gli anni del confino. «Partirò domani, sono qui per salutarla. Va via l’ultimo confinato del paese», aggiunse. Suonò il campanello che annunciava l’inizio della messa.

A conclusione del rito, i due si abbracciarono. Il canonico seguì con lo sguardo Remigio che si allontanava, Davanti al cancello del cimitero si era fermato vicino a una donna avvolta in uno scialle nero e con un bambino in braccio che chiedeva l’elemosina. A don Armando non sfuggì il gesto dell’uomo, che tirò fuori dalla tasca della giacca la preziosa tessera del pane e la consegnò alla donna. Le disse qualcosa e subito dopo scomparve tra la gente.

Arrivano altri confinati. Altra gente, nulla a che vedere con quelli che erano partiti o stavano per andare via. E’ sempre il prof. Martino che lo comunica a don Armando con la stessa lettera con la quale l’aveva informato della partenza di Francesca. Ne arrivano altri due, se non tre. Non si capisce. Due siciliani prendono alloggio nella pensione Caterina e hanno trovato nella piazza il luogo privilegiato per le loro interminabili passeggiate, pioggia e nebbia permettendo. Secondo don Paolo – riferisce sempre il prof. Martino – sono confinati anomali. Lapidario: «Se non sono politici sono fatti di mafia». Dei due, il più anziano è quello che parla meno. È un uomo grasso e tranquillo. L’altro, che gli sta vicino come un cane da guardia, lo chiama “don Carmelo”.

Si apre un altro capitolo della storia del paese «terra di confino». E’ un capitolo che riguarda fatti e persone reali, di cui scriverò in un prossimo post o in più d’uno. Ora voglio rilasciare una dichiarazione, ripetendo cose già dette. Quando i galli si davano voce è un libro di fantasia, che racconta storie frutto di libera ispirazione a un paese e a fatti e persone reali. Raccontando tali storie in questo blog, io compio l’operazione non propriamente corretta né di critica letteraria né di ricerca storica, di togliere al paese, ai fatti e alle persone il velo della libera ispirazione dello scrittore e mostrare la realtà. La quale cerco nella mia memoria, popolata dei cari fantasmi dei primi anni della vita, in cui si formano le nostre più profonde visioni del mondo e ci indicano la strada dell’approdo. Don Carmelo, che nella realtà non si chiamava don Carmelo, e a Tricarico fu confinato, non è un «caro» fantasma, è il fantasma inquietante di una persona reale.

 

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