Una contraddizione. I racconti di Rocco Scotellaro hanno avuto critiche pesanti, alle quali ho avuto modo di accennare un paio di volte. Ad esse ho opposto il mio favorevole giudizio di lettore, essendo peraltro consapevole di poter essere influenzato dal sentimento di amicizia col poeta e di non essere culturalmente attrezzato come critico letterario. Mi piace ciò che piace.

     In merito al racconto «La capera», qui pubblicato, un critico – lo stesso al quale ho alluso nelle precedenti occasioni – rileva che in esso Scotellaro riporta la lettera che la mamma, su sua richiesra, gli ha scritto riguardo alle «capere» e commenta: «E’ ovvio che questa presunta autenticità e fedeltà è tutt’altro che poesia (come invece sembra credere lo scrittore».

     Senza alcuna pretesa di dimostrare alcunché, la pubblicazione di questo racconto su «Botteghe Oscure» (Quaderno XI del promo semestre del 1952), la più prestigiosa ed esclusiva rivista letteraria di quell’epoca, suscita una domanda. Alla quale, personalmente, non so rispondere, ma resta il fatto che una risposta va cercata e data e mette quanto meno in crisi il giudizio liquidatorio del critico sopra citato. Qualcosa vorrà dire se una severa selezione filtrava gli scrittori e i poeti ammessi a pubblicare le loro opere sulla prestigiosa rivista e se nel suddetto XI Quaderno (che non è il solo sul quale furono pubblicati racconti e poesie di Rocco Scotellaro) oltre a grandi poeti e scrittori di altre Nazioni, secondo lo stile della rivista, tra cui Friedrich Holderlin, considerato uno dei maggiori esponenti della poesia mondiale,  per stare alle opere in lingua italiana, col racconto di Scotellaro,  furono pubblicati racconti e poesie di Ignazio Silone, Giorgio Vigolo, Fausto Pirandello, Mario Tobino, Umberto Bellintani, Piero Bigongiari, Alice Ceresa, Leonardo Sinisgalli, Franco Fortini, Giandomenico Giagni, Angelo Romanò,  Gino Bacchetti.

   

     La capera può essere diviso in due parti. La prima parte, meno conosciuta, benchè qualcuno abbia definito smilzo tutto il racconto (Antonio Coppola in Itinerari di Scotellaro, Edizioni Biblioteca Informativa, Roma, 1979, p. 101) a me pare ricca di articolati eventi di vita quotidiana e più interessante della stessa seconda parte, che consiste nella risposta che la madre dello scrittore scrive al figlio per fornirgli le informazioni richieste sulle capere.

     Nella seconda parte, la madre informa il figlio che le capere erano pagate in natura (generalmente grano) o in lire e, per il pagamento in natura, la quantità era espressa in mezzetti o stoppelli. Ricordo queste unità di misura e ignoro se sono ancora in uso (ma ne dubito) o se sappia cosa sono. Si tratta di misurazioni calcolate sulla falsariga delle misurazioni di superficie, per indicare l’estensione dei fondi, che, per i liquidi (vino) e i solidi (grano, olive) venivano calcolati mediante appositi recipienti di legno o di ferro. Le misure di base, che variavano a seconda dei luoghi, erano il tomolo, il mezzetto e lo stoppello. Il tomolo equivaleva a 8 stoppelli e il mezzetto a mezzo tomolo.

 

La capera

 

Francesca, mia madre, poteva essere la terza o la quarta del suo giro: la capera veniva in casa i giorni pari e la domenica. Mia madre si sedeva, d’estate davanti la finestra, d’inverno davanti al focolare, e mia sorella scopava la casa prima  di sedersi anche lei.

La capera aveva qualche centinaio di abbonamenti, o si prendeva soldi o grano; oggi che può prendere? non più di due,  trecento lire per ogni cliente. Ma non è ben sicuro: i barbieri, considerate le spese che hanno, guadagnano forse di meno.  Ad ogni modo ho voluto scrivere a mia madre pregandola di mandarmi a dire tutto quello che sa intorno alle capere, che pettinano lei e le altre donne in paese. Precisamente quante ce n’erano ai suoi tempi, per intenderci, venti, trent’anni fa. Come fossero arrivate a quel mestiere, se per guadagnare o se abbandonate dai mariti emigrati. Ne conoscevo una che non sapeva più notizie del marito in Argentina. Quanto prendevano, in grano o soldi, prima e quanto ora? Quante clienti aveva ognuna? Quanto tempo durava la pettinatura?

Scarnano i pidocchi, li schiacciano e chissà perché io le  ricordo tutte con l’acquolina in bocca mentre serrano le unghie dei pollici, mettono l’aceto nei capelli, ne fanno le treccie, e infine il «tuppo»; poi, come i medici, vanno a lavarsi  le mani.

Mia madre mi risponde che è tutto vero ciò che le chiedo:  poverette, campano ancora sulle vecchie, benché le ragazze  con i capelli corti non hanno in paese il parrucchiere, che  ogni tanto, da cinque sei anni a questa parte, viene con i suoi ferri, fa un mese di lavoro e chissà quando ritorna.  Avevo sperato che mi dicesse di quella col marito in Argentina,  ma, senza ingannarmi e senza nemmeno spiegare i particolari nella lettera, mia madre ha fatto l’indifferente e la sociologa, come si vedrà, e basta. Allora, senza il suo pregevole· aiuto,  cerco io di ricordare anche questo.

Francesca, lei era fresca sposata, i suoi capelli erano fini e però legati l’uno all’altro che a toccarle il tuppo sulla nuca  e il rigonfio ciuffo della fronte diceva la capera che sembrava  prendere la cera in mano. E non è che se ne veniva uno almeno al pettine. Bisognava tirarlo apposta e qualche volta la capera lo fece per il gusto di vederlo luccicare: o al sole della finestra  o alla fiamma del focolare luccicava lo stesso. Il colore era  contrastante, chi diceva quello delle barbe del granturco, e  appunto non un filo uguale all’altro, e chi parlava del miele  colato. Un uomo con la cassetta, che entrò in casa mentre lei era seduta a pettinarsi e chiese oro vecchio da vendere e mia madre rispose che non ne aveva, disse che prendeva i suoi capelli e li pesava a grammi. Mio padre corse dalla  bottega e lo sbattette, lui e la cassetta, per terra, gli anelli  andarono in bocca alle galline e poi il maresciallo dei carabinieri li voleva da mio padre. Allora mio padre era geloso,  mai sia per chi ci capitava per una semplice parola. Tanto  è vero che fece gli occhi cattivi financo al marito della cugina, che era, in fin dei conti, suo nipote. Il quale, poveretto, accorgendosi di quegli occhi e non potendo sfogarsi dalla rabbia, si morsicò la polpa dell’indice e la sputò per terra. Aveva  detto «Zia Francesca, attenta, ti cade la pettinessa» e allungata la mano sul tuppo.

Il grande ritratto a colori fa vedere mia madre di quei  tempi, fresca sposata. Poi vennero i primi figli e il vaiuolo  nel ’20 e lo prese, e nel ’23 nascemmo vivi io e altri trecentotrenta bambini in tutto il paese.          .

Mia sorella più grande mi ergeva sulle punte delle sue dita e mi baciava tra le gambette facendo «pisci, pisci», e  una memorabile sera di Natale le orinai sugli occhi.

Ma lasciamo andare di me che c’entro per quel che vidi a tre, a quattro anni: mio padre lanciare i piatti per aria, fumanti com’erano, le forchette, la schianada di pane, solo il vino, l’orciuolo non toccò; mia madre era la porta chiusa della stanza, era tutta la stanza buia che parlava: aveva chiuso bene dietro, per difendersi, e ora gridava come un capretto  «Puttaniere, ubriacone, malavita», a mio padre. Io ero seduto accanto a lui e gli vedevo la faccia larga agitarsi come  acqua nel bacile e vino schiumoso.

Andò alla porta, l’abbatté col ginocchio e con la mano aperta, mise il ginocchio sul ventre di mia madre:  – Ti affogo – disse.

Arrivavano i vicini di casa in folla:

– Che succede? Calmatevi. Quando mai, proprio voi. Dall’ultimo gradino mio padre disse:

– Non è niente, favorite.

Entrarono i contadini, le vecchie e le giovani, mio padre  offriva da bere; quelli, per prendere il bicchiere, scartavano  i piatti rotti:

– Capita sempre — disse uno – beviamo, alla salute.

Le donne s’insinuarono nella stanza, mia madre era in un angolo e non la videro:

– E’ andata dalla zia – veniva avanti a dire mia sorella.

Se ne andarono tutti, non si può dire contenti o scontenti,  lanciando a mio padre timorosi sguardi e saluti. Fui portato a letto, ma mi svegliai. Non so quanto poté durare, ma veniva  da quell’angolo dove la vidi, come una veste appesa, mia madre: si sbatteva il capo alla parete e si strappava i capelli.

La mattina appresso, dovevo lavarmi, dovevo fare i bisogni, nessuno veniva a prenderrni dal letto, né mia sorella, né mia madre. Passò il tempo della pulizia, sentii la polvere in gola e il rumore delle sedie e del tavolo pesante.

Viene o non viene la capera?

Venne e sentii chiedere: «Francesca» a mia sorella che rispose:

– Oggi non se la fa, la testa.

– Come, è occupata? E’ in campagna? Sta ammalata?

 – Nemmeno io me la faccio più con voi, non venite più qui – riprese mia sorella, che sentii parlare a lungo sottovoce.

Allora vidi mia madre levarsi tra il suo letto grande e la parete, spettinata, come la sera prima; aveva dormito per terra, ma i suoi occhi erano buoni e mi guardavano e si capiva che stava ascoltando attentamente il discorso di mia sorella  alla capera.

Infatti mia sorella entrò e disse:

– E’ una buona donna però, l’ho pagata. Se l’è avuta male, un altro poco piangeva.

– Quella puttana! – disse mia madre e quindi venne  a prendermi, mi fece fare i bisogni, mi lavò, mi mise sulla  sedia accanto al fuoco, aveva i capelli sciolti. Ora tutti in silenzio, io stavo a guardare le fiamme, mia sorella a tirare il pettine della fronte di mia madre oltre la spalliera e si piegava per terra. La capera invece allungava i capelli in aria.  Mio padre incerava lo spago con lo stesso gesto.

Quella capera non venne più, ne venne un’altra. Quando si nominava la prima, c’era la stessa scena della sera dei piatti.

Ma mia madre ha dimenticato o ha finto. Ecco quel che  pensa delle capere e ciò che me ne ha scritto:

«Riguardo vuoi sapere per le capere nei tempi di 30 anni  fa e più, tutt’e le donne si facevano pettinare perché portavano il tuppo con le treccie e non se le potevano fare da sole, e  c’erano più di 50 capere, ognuna teneva chi 40, chi 50 chi 30 clienti, cioè persone: se in una casa c’erano due o tre persone che si facevano pettinare, ogni persona in un anno dava o grano o denari. Se. una se la faceva ogni giorno, dava un  mezzetto di grano, sono quattro stoppelli, l’anno. Se poi se la facevano due volte la settimana, davano un quarto, cioè  due stoppelli, se la facevano un giorno sì un giorno no, davano tre stoppelli e lo davano colmo che era il peso giusto: ogni  stoppello era sei chili di grano. Così, pure adesso pagano lo  stesso, vuoI dire che ora va più caro il grano, ma sono più poche che ora si pettinano, diverse fanno da sole. Adesso,  devono essere troppe, una ventina di capere. Poi quelle che  pagano a moneta, secondo come va il grano, danno mille lire quelle che danno due stoppelli di grano. Poi si dà il regalo a Natale e a Pasqua, prima davano una lira, ma L. 20, 30  e pure 50. Per fare la testa adesso stanno poco: secondo le treccie, stanno cinque minuti. Prima stavano di più, c’erano  pidocchi e poi ogni tanto le facevano con l’aceto e olio tiravano i lenni che facevano lìinsetto. Ora no, che si anno messo il diddittì, non si vedono più pidocchi. Vuoi sapere per quale  motivo facevano le capere. Ripeto, primo non se la sapevano  pettinare e ognuna cercava farsela fare, e quelle che avevano  più bisogno facevano questo mestiere, certe lasciavano vedove con i figli e pensavano a guadagnare, certe erano abbandonate dai mariti, andavano in America, non le scrivevano più, certe non potevano arrivare con i lavori del marito e si davano  da fare le mogli, e certe la facevano pure per guadagnare,  quel grano che avevano lo davano a mutuo per fare negozio, e qualcuno si faceva anche la proprietà. Prima però, ma adesso sono poche a farsi pettinare. Non altro saluti».

 (Gennaio 1952)

 

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