I RACCONTI DI ROCCO SCOTELLARO – Salvatore
Il nome (forse più immaginario che reale) di un suo compagno, Salvatore, dà il titolo a questo racconto, ultimo dei racconti di Scotellaro. Salvatore è più grande di Rocco, non necessariamente di età – erano tutti più grandi di statura e di muscoli i compagni di Rocco, che dei compagni più grandi e grossi era capo indiscusso. Non sapeva fare a botte – scrive in questo stesso racconto – me era specialista dei lucchetti e delle serrature. E sembra darcene la prova quando, raccontando che si sentì sicuro toccando il catenaccio deIla porta di una cantina, si tolse la cinghia e cominciò a manovrare con l’ardiglione nella tacca deI catenaccio, adopera un vocabolo, ardiglione appunto, d’incerto etimo greco o provenziale sconosciuto al linguaggio corrente, per dire che adoperò il ferruzzo appuntato nella fibbia della cinghia. In questo racconto, al contrario, Salvatore sembra condurre il gioco – un gioco da bulli, un’incursione nella Saracena, dove Salvatore si doveva appostare, e Rocco doveva coprirlo, per toccare una ragazza che aveva già le menne. Rocco non era un bullo, egli era un ilare folletto, il capitano che guidava i giochi di strada dei ragazzi del vicinato, il più bravo a sganciare da una spirale di ferro una farfalla ritagliata da un pezzo di latta, che andava a colpire una rondine, ferendola o uccidendola (si legga la poesia Storiella del vicinato). Qui si fa coinvolgere da Salvatore in una comica avventura da puttaniere in erba e in una sfida in terra nemica, con un ruolo subalterno, dove gli tocca di stare a guardare.
Eravamo stranieri, io e Salvatore, nella Saracena, perciò ci chiamarono dietro «Michelasciutti, imprenaove» che erano i nomignoli in voga e noi ci stemmo zitti e quelli aspettavano che ci voltassimo.
Straniero significava nemico. Era l’ethos del tempo: grassanesi contro tricaricesi; accetturesi contro sanmauresi, ecc.; saracenari e ravatanari contro chiazzaiulii, ecc. Entrare in un altro quartiere era una provocazione, una dichiarazione di guerra. Il rischio più grosso lo correvano i “chiazzaiuli” i ragazzi più odiati e derisi in tutti gli altri quartieri, specialmente nella Rabata e nella Saracena, dove ai “chiazzaiuli” era rigorosamente proibito entrare. Rocco e Salvatore, due “chiazzaiuli, si recano nella Saracena come fauni alla rincorsa di ragazze. Rocco non tarda ad accorgersi che il gioco si fa pericoloso e vorrebbe andare via. Viene buttato a terra e pestato, senza poter respirare. Una donna tenta di sollevarlo e, allora, Rocco ha il suo comico momento erotico.
Fui pestato, Oramai non mi difendevo, cercavo un buco in terra per respirare.- L’affogate, – disse una voce di donna – fatela finita.
Fu lei che mi toccò, la padrona di casa, e io nel rimettermi in ginocchio le alzavo la veste col capo, sicché mi sentii un altra sua botta sul collo:
– Eh, eh! Che sei una gallina? Alzati.
Vidi le scarpe sue e le calze e le mutande bianche, lunghe come i pantaloni degli uomini e, con tutta l’aria che ora avevo per respirare, mi sentivo morto e volevo stare un altro poco disteso con la bocca a terra, la gonna mi girava attorno e la voce diceva:
– A chi sei figlio? Dove stai di casa?
Dovette piegarsi su me e io voltai da dove la gonna si aprì per rivedere le due gambe di mutande, che rassomigliavano a quelle delle bambole.
Situazioni comiche, nascondigli, ricerca dell’eros o di una emozione qualsiasi: questo, ancora, è Salvatore, che, come gli altri scritti di Scotellaro, forse aveva bisogno di maturazione, forse Rocco ci avrebbe lavorato ancora, ma si legge con piacere e interesse.
Salvatore
Salvatore teneva i peli sotto le ascelle dove si sente il solletico, li ebbe prima di tutti noi, e la spiegazione più semplice fu che lui era spesso bastonato dalla mamma con il nervo di bue e che, dopo la scuola, andava sulla rotabile a spingere la carriola per aiuto al padre cantoniere, e quindi era più forte, e più duro era il muscolo al braccio destro che irrigidiva per prova davanti a noi.
Sotto la torre, un giorno mi disse che non voleva tornare a casa, a costo del nervo di bue; perché voleva farmi vedere una cosa.
– Guarda – mi disse – io tengo una guagliona abbasso alla Saracena, che tiene già le menne, andiamola a trovare.
Camminammo per la piazza e scendemmo alla Saracena.
– Si chiama Lucia, sta sulla scala fino a tardi. Capita che esce a prendere il lievito o qualche servizio da una vicina, e io la voglio portare in un portone, perché la devo toccare. Ecco, non ti far vedere che guardi, non ti voltare adesso, qui è la casa.
Gli altri ragazzi giocavano a mazza in fossa e ci videro.
Eravamo stranieri, io e Salvatore, nella Saracena, perciò ci chiamarono dietro «Michelasciutti, imprenaove» che erano i nomignoli in voga e noi ci stemmo zitti e quelli aspettavano che ci voltassimo.
Intanto per guardare alla finestra di Lucia, dovemmo tornare indietro, facendo finta di niente, e poi di nuovo avanti e indietro. Lucia si vide come un lampo al vetro della finestra, Salvatore mi stava trascinando prendendomi il braccio perché corressero subito i miei occhi, che corsero, ma alla finestra c’era il fumo del focolare e quando ripassammo si vedeva già luccicare la fiamma perché faceva notte nella casa di Lucia più presto che nella strada, dove i caporioni ora ci venivano incontro a urtarci col gomito, prendendo la rincorsa, mentre gli altri ci ridevano, seduti per terra.
Dissi a Salvatore:
– Andiamocene, che qui succede la guerra. Ma lui rispose: – Non te ne incaricare.
Mentre diceva così, un saracenaro mi fece cadere la coppola con un colpo da dietro e io per riprenderla e Salvatore per guardare alla scala e alla finestra di Lucia, voltandosi, non vedemmo 1’autore che si era nascosto.
– Alle mamme vostre! – fece Salvatore a quelli che ridevano per terra.
– Alle vostre – ci risposero da dietro.
– Alla tua – e Salvatore si lanciò sul primo che si trovò alle spaIle, e tutt’e due rotolarono per terra.
lo ci pensai un poco e, visti accorrere gli altri alla lotta intorno a Salvatore, mi avvicinai a un bambino che era più piccolo di me e che gridava di piacere tenendosi un piede in mano:
– A quella zoccolona di tua madre!
Gli tirai un calcio sulle mani ,e poi gli andai sopra, ma perché spinto da palme e pugni sul dorso, dando una capata alla porta che si apri. Fui pestato, Oramai non mi difendevo, cercavo un buco in terra per respirare.
– L’affogate, – disse una voce di donna – fatela finita.
Fu lei che mi toccò, la padrona di casa, e io nel rimettermi in ginocchio le alzavo la veste col capo, sicché mi sentii un altra sua botta sul collo:
– Eh, eh! Che sei una gallina? Alzati.
Vidi le scarpe sue e le calze e le mutande bianche, lunghe come i pantaloni degli uomini e, con tutta l’aria che ora avevo per respirare, mi sentivo morto e volevo stare un altro poco disteso con la bocca a terra, la gonna mi girava attorno e la voce diceva:
– A chi sei figlio? Dove stai di casa?
Dovette piegarsi su me e io voltai da dove la gonna si aprì per rivedere le due gambe di mutande, che rassomigliavano a quelle delle bambole.
Salvatore veniva alla porta proprio mentre la donna mi alzava per vedermi negli occhi, che aprii e così vidi lui e la faccia della vecchia che mi teneva e i suoi grossi orecchini penzolanti. Salvatore teneva sulla spalla la mano di un uomo che disse:
– Ora andatevene, non vi fanno più niente, dritti alle case vostre.
Arrivammo sotto la chiesa, dalla cima della strada scendevano i muli carichi e i contadini. La prima parola che mi disse Salvatore fu questa:
– Vedi quello che porta la zappa al collo? E’ il padre di Lucia. Ora quella esce per scaricare la legna dal mulo, va alla stalla che si trova più in là della casa. Tu come ti senti? Noi giriamo da sopra e, vico dentro vico, arriviamo a un punto dove possiamo vederla; quei fetenti giocano nella strada di sotto, andiamo.
E andammo.
Lui sapeva bene i posti. Non c’era luce nella strettoia ripida, che aveva due tre porte, nessuna illuminata, una nera di fumo incrostato, che la toccai per sostenermi, doveva essere un vecchio forno, ora abitato, perché si sentivano voci di gente. In fondo, sulla strada, c’era una pezza della luce pubblica più lontana: potevamo così vedere chi passava e correre qualcuno dei saracenari, che certamente, se giocavano a briganti e carabinieri, venivano anch’essi neI nostro nascondiglio.
L’ultima porta verso la strada era la stalla del padre di Lucia, che avremmo vista a quella luce.
– Zitto, zitto – disse Salvatore.
Stavamo al disotto deI piano della strettoia, addossati alla porta di una cantina. Mi sentii sicuro toccando il catenaccio deIla porta: mi tolsi la cinghia e cominciai a manovrare con l’ardiglione nella tacca deI catenaccio. Non sapevo fare a botte, ma ero specialista dei lucchetti e serrature, Salvatore un altro poco cadeva riverso in cantina, perché il battente dalla parte sua si aprì sotto le mie mani.
– Adesso ci vorrebbe che ci portano a San Francesco, in galera, se ci scoprono, – disse.
Scoppiò, mentre si dava un’occhiata in giro alla cantina, il rumore del mulo abbasso alla strettoia e Salvatore corse ad affacciarsi:
– Non c’è, non c’è, che facciamo?
– Niente – gli risposi – ce ne dobbiamo andare.
Ma lui dovette, sconsolato, appoggiarsi alla parete: – Che umido, senti.
Passò un poco e riprese:
– Tu aspettami qua, io scendo alla strada e mi faccio un giro; se la trovo, la porto qua, che è un posto che mi fa.
Lui uscì, io socchiusi il battente. Veniva un bell’odore di vino e di mele appese e di cotogne, c’erano sarmenti per terra che si sentivano sotto i piedi, ma, dopo un poco che rimasi fermo per non fare rumori, i sarmenti e certi legni in fondo alla cantina c’era qualcuno a smuoverli e i rumori, prima dolci come parole, si fecero più forti e non erano solo per oggetti toccati, anche qualche bottiglia squillò; ci furono cinguettii che non erano fischi all’orecchio, erano i topi che riprendevano i loro giuochi e le macerie, e sarebbero arrivati in collo a me. Mi difendevo pestando i sarmenti per farli tacere. A un tratto non bastavano più i sarmenti, che i topi potevano anche credere mossi da uno di loro e forse per questo sarebbero venuti a cercarmi. Allora detti un calcio alla parete, rumore non ce ne fu, per quanto mi dolse la punta del piede. Correvo alla porta quando una luce filtrò dall’alto. Feci in tempo a uscire e chiudere la porta, serrai anche piano iJ catenaccio agli occhielli.
La luce scendeva per una scaletta di legno in tutta la cantina, io potevo vedere la scena dal cancelletto di ferro sopra la porta, e vidi due piedi e una sottana: una ragazza reggeva in mano la lucerna, nell’altra un orciuolo. Era una bambina della mia altezza, aveva il petto come Lucia, che metà risaltava, metà faceva ombra.
Mi voltai ai passi che venivano dalla strettoia, era Salvatore che correva e mi tirò e non volle vedere, perché disse:
– Sono seguitato, scappiamo.
Affannosamente rifacemmo i vichi, Salvatore avanti e io dietro. Quando ci fu il piano della rotabile, dopo la chiesa, ed eravamo sicuri, ci pareva di correre come le due motociclette della milizia stradale. Ora si poteva rifiatare, Salvatore volle parlare prima lui:
_ Il padre di Lucia era sceso a sedere sulla scala e fumava il sigaro. I saracenari mi hanno visto e hanno rifatto lo stuolo. Allora mi è venuto in mente di parlare al padre di Lucia, potevo dire dove sta Tizio o Caio e invece gli ho domandato un fiammifero e lui ha detto sì e mi ha tirato un calcio. Me ne sono scappato. Lucia starà facendo i maccheroni.
Era un’ora di notte:
_ Andiamocene a casa – gli dissi – e dimmi come è fatta, a chi rassomiglia.
_ Non me lo domandare, mi viene il tremito. Facciamo cosl, andiamo sotto la torre e parliamo e di là scendiamo a casa.
Così facemmo. Salvatore mi prese sottobraccio, disse che Lucia era dell’altezza mia:
_ Porta già il corpetto come le mamme nostre.
E io pensai e gli dissi che l’avevo vista, ma lui scartò che Lucia fosse scesa a prendere il vino in cantina, continuando a dire:
– Se la vedi, se la vedi!
Lo sentivo tremare, mi affrettò il passo verso la latrina, che era una casetta con la luce di rame sulla strada della torre.
-Tu non capisci, devi aspettare un altro anno o due.
Si sedette su una pietra, era stanco e bastonato:
– Tu avviati, io adesso penso a Lucia.
(1952)
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