Il fascismo è caduto, la guerra è finita e Pietro, il confinato autore dell’imperativo categorico mussoliniano “Credere Obbedire Combattere”, con la firma del duce perfettamente imitata, scritto sulla facciata del palazzo ducale che sporge sulla piazza, torna a Tricarico per partecipare, con un comizio, alla campagna elettorale per l’elezione dell’Assemblea Costituente e la scelta istituzionale tra Monarchia e Repubblica. Pietro ora è «il capo del sindacato italiano». In un precedente post ho ricordato la parte privata di quel ritorno e ora lascerò raccontare alla penna di Trufelli la parte pubblica. Le storie di Quando i galli si davano voce sono frutto di invenzione letteraria, ma in poesia ciò che è inventato è vero. Gustave Flaubert scriveva il 14 agosto 1853 alla poetessa Louise Colet, la quale sosteneva di essere stata l’ispiratrice del famoso romanzo «Madame Bovary»: «Tutto ciò che s’inventa è vero, puoi starne certa. La poesia è tanto precisa quanto la geometria». Avverto quindi l’obbligo di chiarire che non mi contraddico con la seguente affermazione fatta a conclusione del post, in cui si trattava della crisi di Michele per il suicidio di Ernesto, suo amico e compagno di sventura: «Raccontando tali storie in questo blog, io compio l’operazione non propriamente corretta né di critica letteraria né di ricerca storica, di togliere al paese, ai fatti e alle persone il velo della libera ispirazione dello scrittore e mostrare la realtà». Non mi contraddico perché non è vero che l’inventato è falso e il reale è vero, ma inventato e reale sono entrambi veri, se per reale si intenda non un fatto fossilizzato nella sua immobile oggettività, ma un fatto vivo nel racconto e nella soggettiva percezione. L’invenzione del ritorno di Pietro per partecipare a una campagna elettorale politica vive col ritorno reale di un confinato, che aveva scontato la pena a Tricarico, dove per sopravvivere faceva non il muratore ma lo stagnaro e dopo la caduta del fascismo e della guerra aveva percorso ai massimi livelli una brillante carriera amministrativa, parlamentare e sindacale. Se si scrutano a fondo le due storie, si percepisce con nettezza una sola verità. La storia inventata la lascio raccontare alla penna di Mario Trufelli, quella reale io l’ho già raccontata tempo fa su questo blog e la ripeterò in questo stesso post, per unire le due storie, e la loro unica verità, e per non sottoporre il cortese lettore alla noia di cercare il lontano post

     All’inizio del racconto di Trufelli incontriamo un personaggio, il cavaliere ufficiale Agostino Dell’Acqua, che i lettori attenti del libro conoscono, ma io non ho avuto modo di presentare. Il cavaliere eccetera era stato il podestà «padrone di quasi tutte le terre, comprese le masserie nella contrada “Le fiumare”».  che sostituì come podestà il nipote del prof. Martino. Salì al municipio, accompagnato dal maresciallo della milizia, in camicia nera abito scuro bombetta e bastoncino di mogano con impugnatura d’argento. Ora, con la fine del regime, covava con rabbia e inconsce paure la sua nostalgia.

 Al Cavaliere Ufficiale Agostino Dell’Acqua l’attivismo, il chiasso, il clima acceso della campagna elettorale per la Costituente erano decisamente sgraditi. All’amico commerciante, col quale s’incontrava la mattina davanti al caffè, l’ex podestà si rivolse con la voce alterata di chi non  si è rassegnato alla perdita del comando:«Tutta questa agitazione sui muri, sui giornali, lungo le  strade, nei discorsi è insopportabile. L’accoglienza calorosa a Nittì va bene, ma oggi si preparano banda e bandiere per uno che è stato confinato politico, quel Gori, lo ricordi? È stato qui tre anni, ha lucidato le case di mezzo paese. Lo abbiamo mantenuto, quel fottuto comunista». Il commerciante, per nulla sorpreso:

«Ma lo sai che quel fottuto comunista oggi è il capo del più importante sindacato italiano dei lavoratori? Lo vanno strillando da tutte le parti i propagandisti del partito».  Finì appena la frase che dalla sezione del Piccì – già casa del fascio che pochi giorni dopo la caduta di Mussolini  aveva cambiato destinazione non senza incidenti da parte di qualche nostalgico – arrivò l’annuncio attraverso  l’altoparlante che “il compagno Pietro Gori” sarebbe arrivato il giorno dopo in paese direttamente da Bologna  alle undici precise e avrebbe parlato ai cittadini e ai tanti amici mai dimenticati.

«Sicuramente tra quegli amici non ci siamo noi»: ruminò  il cavaliere sorseggiando il caffè e masticando il sigaro. E  giù una scarica di parole rabbiose.

A muso duro il commerciante:

“Ma ti vuoi convincere, così come mi sono convinto io, che il fascismo è ormai morto e sepolto?».

Aveva alzato la voce e qualcuno lì vicino capì che il cavaliere ufficiale, eccetera eccetera, stava perdendo boria e  strafottenza.

Alle undici, accolto da applausi fragorosi e dalla banda  municipale che suonava a ripetizione Bandiera rossa, Pietro Gori apparve sul palco allestito davanti alla sezione  comunista. Alto, abito grigio e cravatta rossa, avvolse in  uno sguardo ogni cosa come a voler ritrovare un percorso assai ben noto.

La banda superava le acclamazioni della folla col clangore dei piatti, dei colpi di tamburo, degli squilli di tromba. Pietro guardò in alto lungo la facciata del palazzo degli uffici che definiva come un lungo fondale il singolare  palcoscenico della piazza; ebbe come un sussulto.

Al segretario del partito che gli stava a fianco:

“Ma quella sciagurata scritta sta ancora là?» e non nascose lo stupore. La scritta “Noi tireremo diritto – credere obbedire combattere – Mussolini», che il confinato Pietro Gori era stato costretto a scrivere a lettere cubitali e  con la vernice nera, stava ancora lì come un insulto.  “Cominciamo il comizio, l’ora autorizzata passa presto;  dopo vedrai tu stesso cosa ne faremo» gli rispose il segretario. E col pugno chiuso, agitando il braccio in segno di saluto, presentò il compagno Gori, coraggioso partigiano  combattente per la libertà tra le montagne dell’Emilia-  Romagna, oggi segretario del più grande sindacato dei lavoratori italiani.

Le bandiere rosse squillavano sulle teste della gente quando Pietro cominciò a parlare con tono affettuoso.  «Carissimi amici, sono tornato in questo paese, che per qualche tempo è stato anche il mio, come l’emigrato che torna a casa dopo una lunga assenza».

La gente esultò,

«Arrivai tenuto a bada dai carabinieri, oggi mi accompagna la banda che suona l’inno dei lavoratori e della libertà».

Le parole dell’uomo, prima che del politico, risuonarono  con la sottile emozione dei ricordi.

«C’era freddo quella sera di gennaio, ma mi confortò il  calore di tanti di voi; fui accolto con amore nelle vostre  case, cui venivo a ridare luce con la tuta d’imbianchino.  Voglio ricordare i compagni che con me vissero i tempi  del confino nella inenarrabile attesa del dopo, attesa che  purtroppo s’interruppe drammaticamente per Samuele  ed Ernesto, vittime sacrificali di quel terribile periodo  della nostra storia recente che ora riposano, finalmente  pacificati, nel cimitero del paese».

Teneri gli applausi, lunghi e generosi. Samuele ed Ernesto riaffiorarono nel ricordo tra la pietà di molti e lo scrupolo di qualcuno, sotto il sole di quella domenica di  maggio con le rondini in allegria.

Le parole di Pietro si accesero di altra passione e tono della voce quando chiamò con un ampio gesto delle mani i  “compagni e le compagne» che gli facevano festa.

«Il fascismo è memoria, dolorosa e tragica. Il post fascismo è il futuro: la lotta contro il padronato, la conquista  delle terre, il ruolo insostituibile del sindacato». Pietro  Gori aveva ritrovato il fervore del capopopolo. Gli sventolavano davanti agli occhi le bandiere rosse, anche quelle dei compagni socialisti uniti nella battaglia elettorale.  Ne approfittò per una divagazione.

«Il programma dei nostri partiti si può leggere nelle nostre bandiere. Se l’ulivo è il simbolo della pace, per noi la falce è l’espressione del lavoro dei campi, il duro lavoro  dei contadini, e il martello offre l’idea del lavoro industriale, anche dell’artigiano, del fabbro che piega e modella il ferro rovente. Nella bandiera dei compagni socialisti c’è, in più, il libro, il lavoro intellettuale e, sul fondo,  il sole rosso simbolo della speranza».

Si agitavano a diecine le bandiere, un mantello rosso che  si muoveva a onda sulla folla. E dalla folla si levò la voce  forte di un uomo, una voce accordata come la nota  profonda di un organo che intonò, solitaria, l’Internazionale, l’inno delle forze socialiste. «Su fratelli, su compagni, su venite in fitta schiera, sulla libera frontiera spunta il sol dell’avvenir … », Un clarinetto già dalle prime battute ne catturò l’intonazione e cominciò a suonare il motivo. Lo seguirono tutti gli altri componenti della banda  e un coro, soprattutto di anziani, sfidò il vocio della gente che intanto commentava incuriosita l’apparizione di  due lunghe scale di legno che sembrava volassero nell’aria e che alla fine vennero appoggiate, a pochi metri l’una dall’altra, sulla facciata del palazzo degli uffici.

Pietro era rimasto sul palco e avvolse con lo sguardo la  scena di tante persone in agitazione sotto le scale di legno; salivano con solennità e un secchio nella mano due  giovani che sull’ultimo scalino mostrarono vistosi pennelli in uso tra i muratori.

«Adesso cancelleranno tutto, alla tua presenza. Vuoi dare  il via? I ragazzi non aspettano altro» disse il segretario,  soddisfatto per aver suscitato la sorpresa visibile del compagno.

Il silenzio di Pietro durò un attimo:

«Cancellino tutto, e bene, ma lascino a me Mussolini»,  L’altro, spiritoso:

«Ma quello l’hanno fucilato un anno fa».

Gori, paziente:

«Non scherzare, quel nome spetta a me farlo sparire. Ora  possono cominciare».

Sollevò il braccio con la mano aperta, l’abbassò con decisione e i due improvvisati imbianchini iniziarono l’opera.  Uno, da sinistra, affrontò la prima parola, il pronome, quel  “noi”, che scomparve quasi subito sotto un doppio strato  di calce viva. L’altro, daJla destra, partl dalla parola “combattere” che venne liquidata con pennellate frenetiche.  Pietro scese dal palco, salutò tanta gente; aveva lasciato  un buon ricordo. Particolarmente affettuoso l’incontro con don Armando e il professor Martino. Pietro li trovò più imbiancati, ma nel complesso immutati.

«Stanno cancellando il tuo capolavoro» celiò il canonico.  E Pietro:

«Il capolavoro è la firma, ricorda? Ma come hanno fatto tanti grandi artisti io la cancellerò con le mie stesse mani».

Sorrisero.

[Ometto il racconto, che qui segue, della vista di Pietro alla pensione Caterina, riferito in un precedente post)

Non ci fu tempo per altre confidenze. La banda aveva intonato Rosamunda, molte persone con lo sguardo all’insù  seguivano le acrobazie dei due giovani in cima alle scale  impegnati a cancellare le parole deliranti del duce. Sulla  facciata del palazzo degli uffici finalmente tornava a dominare il candore della calce.

Pietro salutò Caterina, si presentò sotto la seconda scala,  sorrise al giovane che gli stava porgendo il pennello, lo guardò, era incerto.

«Ma tu … »

Non finì la domanda, il giovane lo anticipò:  «Sono Ninì, il figlio di Pisani».

Pietro, isolando nei ricordi:

«Certo, il figlio del signor Carmine. Quando morì mia madre tu mi portasti una cravatta nera. Certe cose non si  dimenticano».

Si strinsero la mano. Pietro prese il pennello gocciolante  di calce, cominciò a salire tra il vociare della piazza e dei  compagni che gli stavano intorno. Ninì aveva poggiato le  mani sulla scala in un gesto di protezione, la banda aveva smesso di suonare. Pietro si fermò sul penultimo piolo, rivide di fronte a sé come in una visione quella firma  che sette anni prima il decoratore-pittore aveva imitato  alla perfezione, confessando agli amici che sull’antifascista aveva prevalso l’orgoglio dell’artista. Ebbe un ritorno  doloroso di memoria, uno scatto d’ira e con una pennellata perentoria cancellò Mussolini.

La banda attaccò Bandiera rossa, Pietro si girò verso la folla che applaudiva. Dall’alto, severo salutò col pugno chiuso e scese dalla scala come un eroe.

Cinque minuti dopo la mezzanotte il presidente del  quarto seggio elettorale – gli altri avevano già concluso lo  scrutinio – lesse l’ultima preferenza sull’ultima scheda:  «Repubblica».

Scoppiarono applausi che il presidente tentò di scoraggiare, ma i carabinieri di servizio al seggio fecero finta di  non sentire. Soltanto un rappresentante di lista del partito monarchico, rosso in viso, si avvicinò a Ninì: gli rovesciò parole a diluvio che nessuno capì e si ebbe in risposta un lungo sospiro del “signor maestro”.

Con i conti fatti sul momento dall’impiegato municipale all’anagrafe, nel paese la Repubblica aveva vinto con oltre il sessanta per cento dei suffragi.

Allora Ninì si fece sentire: «È un trionfo!». Ed ebbe un  solo unico scopo, portare la notizia a don Armando che lo stava aspettando nella sua casa. 

     Il confinato che realmente tornò a Tricarico fu Renato Bitossi. Fiorentino, fu l’ultimo confinato politico a Tricarico, dove si trovava il 25 luglio del 1943 alla caduta del fascismo. Egli era operaio meccanico e a Tricarico mise su una botteguccia da stagnaro che gli assicurava modesti guadagni. Fu raggiunto dalla moglie, Dina Nozzoli, militante antifascista e comunista anche lei, che col marito aveva subito l’esilio, il carcere e il confino. A Tricarico fece la sarta, nel suo lavoro era brava ed aveva gusto, per cui se ne sentì la mancanza quando i coniugi Bitossi lasciarono Tricarico. Renato Bitossi era una forte tempra di militante antifascista. Nel 1928, a 29 anni, fu condannato dal Tribunale speciale a 8 anni e 7 mesi di carcere. Scontò la pena ad Imperia, Fossano e Civitavecchia. Scontata la pena riprese l’attività antifascista e subì un nuovo arresto a Bologna, dove si era trasferito. Riuscì ad evitare una nuova condanna del Tribunale speciale, ma non l’avvio al confino, prima a Ponza, poi a Pisticci e, da Pisticci, a Tricarico. 

     Portava la testa reclinata a sinistra, quasi appoggiata alla spalla, forse eredità di una grave ferita subita in uno scontro violento con squadristi fascisti all’indomani della fondazione a Livorno del partito comunista, alla quale aveva partecipato. D’estate indossava una paglietta fiorentina. 

     Bitossi tornò a Tricarico a sostenere la campagna elettorale del partito comunista, per le elezioni politiche del 7 giugno 1953, con un comizio dalla cappella di San Pancrazio. Era senatore e segretario generale aggiunto della CGIL. Al suo soggiorno da confinato a Tricarico fece un sobrio accenno, senza alcuna emozione. La scritta «Credere Obbedire Combattere – Mussolini» dominava alla sua destra sulla facciata del palazzo ducale, avendo resistito ai vari tentativi di cancellatura. Ma ci aveva pensato la storia. A quella campagna elettorale partecipavo anch’io come segretario della sezione tricaricese della Democrazia Cristiana e ascoltai il discorso di Bitossi con attenzione e rispetto, ma con lo spirito critico di un avversario. 

     Bitossi amava passeggiare a lungo in piazza: con le mani intrecciate dietro la schiena, la testa con la paglietta reclinata a sinistra percorreva le linee e i riquadri di pietre bianche levigate che ornavano la pavimentazione con ciottoli di fiume della piazza. Sulla piazza mi concedo una digressione. La pavimentazione fu rifatta sotto la prima amministrazione Scotellaro. Mattoncini di porfido scuro, senza alcun ornamento, salvo una larga fascia di pietra viva bianca ai quattro lati, sostituirono i ciottoli di fiume, facendo assumere alla piazza un cupo aspetto anonimo. Qualcuno ricordò che appena un paio d’anni prima era stata montata una protesta per la pavimentazione della piazzetta del Vescovado, che era in terra battuta, e fu composta una sguaiata canzoncina che diceva: «a noi manca il pane e il lavoro e fanno la piazzetta agli assassini». La piazza (intendo la piazza grande) ha ora una nuova pavimentazione, mostrando di voler richiamare i motivi della pavimentazione originaria, la quale invero non ha nulla a che vedere con l’attuale finto selciato post-moderno. 

     Gli eventi che seguirono al crollo del regime fascista videro i coniugi Bitossi impegnati nella Resistenza. Renato venne chiamato a Firenze, dove il CLN lo aveva già designato vicesindaco della città liberata. Seguirono la nomina a segretario della CdL del capoluogo toscano, a membro della segreteria nazionale della CGIL, a presidente della Federazione sindacale mondiale, a segretario generale aggiunto della CGIL (vice di Di Vittorio). Membro della Costituente, Bitossi fu senatore di diritto nella prima legislatura, come già detto, e fu rieletto nelle successive tre legislature, finché la morte lo colse repentinamente a 70 anni, il 5 ottobre 1969. Renato Bitossi non era più senatore, giacché la IV legislatura si era conclusa l’anno precedente. Il 15 ottobre il Senato commemorò la sua figura con un appassionato discorso del sen. Umberto Terracini, suo compagno di partito, e interventi non di prammatica del presidente del Senato Amintore Fanfani e, a nome del governo, del sen. Silvio Gava, ministro di grazia e giustizia, entrambi democratici cristiani.

    

 

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