Nello studiolo dell’usciere giudiziario, zona franca dei canonici si discuteva dei fatti della guerra, che s’era messa ad andare male sin dall’inizio . del resto l’Italia vi era stata trascinata del tutto impreparata -, dalla disastrosa campagna sul fronte greco, al bombardamento inglese del porto di Taranto nelle notte dell’11 – 12 novembre 1940, che mise fuori combattimento la maggior parte della flotta da guerra italiana. Il prof. Martino, con la vivacità della sua cultura e della sua ironia,  riferisce a don Armando nelle lettere che gli invia al “confino” del seminario di Salerno, dove era stato mandato, perché nittiano, a insegnare latino e greco. Gli accesi dibattiti dei canonici continueranno negli anni successivi, fino a valutare la posizione da tenere nel referendum monarchia/repubblica. Durante un “conclave” dei canonici, l’irruzione di due contadini della Saracena, quasi a chiedere consigli e conforto dopo uno scontro col podestà, è il primo segnale di una rivolta contadina, di cui riferirà questo post. La lettera del prof. Martino, che parla della rivolta, porta la data del ventisei ottobre 1940 e fissa l’inizio della rivolta stessa alla sera del dodici, anticipando di circa un anno e mezzo l’evento reale: essa, infatti, esplose nel mese di marzo del 1942.

     Di quella rivolta si registra una rimozione, che è stata un aspetto di una labilità della memoria più generale: essa non ha trovato il suo storico, ci stava lavorando Rocco Scotellaro, come risulta da diversi frammenti dell’Uva puttanella, ma la sua morte interruppe il lavoro già iniziato. Nessun contributo reca a una ricostruzione dell’avvenimento, ma, tutto all’opposto, genera confusione coinvolgendo un generale falso giudizio sulle rivolte contadine lucane negli ultimi anni del fascismo, il libro di Anne Cornelisen «Torregreca – Un picolo mondo nell’Italia meridionale-». Alla rivolta di Tricarico fa un accenno approssimativo Carlo Levi in uno scritto inedito del 1954, allorquando, chiedendosi che cosa fosse accaduto in Lucania nei dieci anni «di guerra, campi di sterminio, viaggi e scoperte e stragi», risponde che «appena si sapeva, senza attenzione, dei fatti di Tricarico del ’42-’43, di quelli di Irsina, delle giornate di Matera, di Melfi, Avigliano ecc.; e poi della strage di Ferrandina, di Irsina, di Pisticci; e poi delle numerose occupazioni delle terre». Personalmente ho vivo il ricordo anche di una rivolta a San Mauro Forte nella primavera del ’40, che Levi non cita. Di essa ha poi scritto Leonardo Sacco in «Provincia di confino», traendo il racconto dai documenti del processo, che si concluse nel 1948 in un clima politico di segno radicalmente rovesciato.  In un post dell’11 febbraio 2011 ho riferito delle rivolte contadine in Lucania nei mesi che precedettero il coinvolgimento dell’Italia nel secondo conflitto mondiale e negli anni della guerra, e ad esso rinvio. Il racconto che si legge in Quando i galli si davano voce dice la verità in senso flaubertiano sulla rivolta di Tricarico e, di seguito, la riporto testualmente, omettendo l’accennata lettera del prof. Martino, di cui occorre ricordare che essa, oltre alla data in cui la rivolta (sempre flaubertianamente) esplose, aggiunge la voce uscita, a quanto risultava al professore, dal circolo dei “signori”, che a istigare i contadini fossero stati certi ambienti nittiani all’interno dei quali si distingueva un prete. La voce che a istigare la rivolta furono ambienti nittiani, capeggiati da don Peppe Uricchio, realmente circolò e la riferisce anche Rocco Scotellaro. Si trattava di voce senza alcun fondamento, perché il circolo nittiano attorno a don Peppe, che non era un rivoluzionario, s’era dissolto e confluito nel partito fascista con don Nicola Ferri in testa. Non sono mai riuscito a capire come mai questa voce forse nata, forse si trattò di una manovra contro don Peppe, che non parve aver prodotto palesi conseguenze.  

«La discussione diventava animata, ma in quel momento si sentì bussare con forza alla porta; Vincenzo e Rocco, due contadini della Saracena, il rione più antico del  paese, trafelati e un po’ rochi col cappello in mano entrarono senza attendere risposta. Non ebbero manco il  tempo di spiegarsi che intervenne don Paolo:

«E voi che ci fate qui, con quelle facce?»

«Abbiamo avuto una piccola discussione col podestà»  disse Vincenzo, rispettoso davanti al suo parroco.

«E avete quasi perso la voce? Chiamala discussione!». 

«Ma quello è un po’ sordo, se non gridi non capisce» aggiunse Rocco.

«E cosa avrebbe dovuto capire?»

«Che noi non possiamo togliere il pane dalla bocca ai nostri figli».

«Spiegati meglio».

E Vincenzo, più risoluto:

«Stanno per uscire le tessere per la macinazione, così ci ha  detto, e noi saremo tenuti a denunciare tutto il raccolto del grano che serve a malapena a mantenere le nostre famiglie».

«E allora?»

«Allora gli abbiamo risposto che potrebbe succedere la guerra. E lui ci ha gridato che ci farebbe arrestare».

«E voi vi siete messi a gridare più di lui e avete perso la  voce. Ma vi siete resi conto che quello è il podestà?».

Se ne resero conto quando due carabinieri, chiedendo  scusa per il disturbo, li invitarono ad andare in caserma. Il turbamento fu corale. Don Paolo si alzò per chiedere spiegazione al graduato che lo anticipò:

«Solo qualche chiarimento».

Due ore dopo, uscendo un po’ confusi – si sentivano addosso l’umiliazione di essere stati trattenuti in caserma  per “misura di sicurezza” – Rocco e Vincenzo trovarono  ad attenderli le mogli in compagnia dell’usciere giudiziario che stava mettendo un po’ di ordine nel minuscolo spazio che si compiaceva di chiamare ufficio.

«Mi stavo preoccupando, come vi ha trattato il maresciallo?»

Vincenzo: «Ci ha soltanto ammoniti con l’obbligo che dobbiamo  chiedere pubblicamente scusa al podestà. Volevamo dare le nostre spiegazioni ma lui non ci ha fatto parlare. Un carabiniere ha scritto un verbale, poche righe e ce lo ha fatto firmare.

Dunque vi ha ammoniti. Non sottovalutatela l’ammonizione, vi resta sui documenti personali. A ogni modo, domani stesso andrete dal podestà in municipio e gli farete le vostre scuse. Mi raccomando !»

E chiuse bottega.

A malincuore Rocco e Vincenzo con le mogli si avviarono verso casa.

Alle otto della sera, c’era ancora l’ora legale, gruppi di giovani indugiavano a chiacchierare davanti al caffè della piazza. Nell’alone proiettato dai ritagli di luce s’infilava a sorpresa uno stormo di pipistrelli, non tanti come a luglio e agosto, ma ugualmente irrequieti. Uno, dopo giri imprevedibili, concluse i suoi volteggi contro un palo della luce. Cadde stecchito a terra mentre il vocio di tutto il gruppo si perdeva in lontananza.

«Così deve finire quell’uccello di malaugurio che so io!».  Sentenziò nel suo efficace e rude linguaggio popolare la moglie di Rocco.

Non ci furono commenti, ma tutt’insieme pensarono al podestà.

Alle undici del giorno dopo – l’orario fissato dal podestà  per ricevere una volta alla settimana il pubblico – Rocco e Vincenzo salirono le scale del municipio.

«Gli dobbiamo parlare, è una cosa urgente» dissero al segretario che li chiamò per nome (ricordava l’episodio del  giorno prima). Senza fare commenti bussò alla porta del  suo “capo”. Nessuna risposta.

Spiegò: «Si può entrare solo se dà due volte il segnale».

 «Cioè?» chiese Rocco.

«Due colpi battuti sulla scrivania col pomello del bastone».

Una stravaganza. Un minuto dopo, il segnale così inconsueto autorizzava l’apertura della porta dello studio. Rocco e Vincenzo, con le coppole in mano, si presentarono  al podestà che, in perfetto trionfo di nero dal vestito alla  camicia, li fermò sull’uscio.

«Mi è stato riferito che siete venuti per le scuse. Sono accettate. Va bene così. .. per ora. Potete andare» disse senza alcuna indulgenza e con tono della voce che non lasciava dubbi.

I due contadini con gesto volutamente irriverente si rimisero le coppole e in uno scatto di fierezza girarono le spalle e andarono via senza salutare.

«Un gesto così lo possono avere soltanto dei sovversivi!»  commentò cupo in volto il podestà mentre il segretario  gli porgeva carte da firmare.

«Sono le richieste di sussidio, sono aumentate in questi ultimi mesi».

Avrebbe voluto aggiungere che c’è tanta gente che vive in  difficoltà, ma fu sconsigliato dalla severità del podestà  che si sporse in avanti con le mani aperte sulla scrivania  e a voce alta:

«Questi cafoni tu non li conosci come li conosco io. Non  hanno nessun rispetto della legge. Sono testardi come i  loro muli».

«Il podestà ci vuole affamare, ci toglie pure il pane!» gridava una donna dalla strada, davanti al municipio col  portone sprangato.

Donne e donne di tutte le età le davano voce. E tanti ragazzi che rimasero là a guardare e a sentire le maledizioni contro il “padrone” del municipio, il vendicativo che  quella bella mattina (c’erano sprazzi di sole) aveva dato  l’ordine di tenere chiusi i mulini. Era stata imposta l’umiliazione della tessera del grano per poter controllare  la  quantità che veniva sfarinata. Una molestia anche per i  mugnai che avrebbero dovuto registrare e segnalare ogni cosa al municipio. I! malumore si fece rabbia quando dalla campagna arrivò il grosso degli uomini.

I! podestà, col sigaro in bocca (fumava come una ciminiera) il borsalino in testa e il bastone, verso sera fece  aprire il portone e si presentò alla folla. Ascoltò soltanto  un paio di donne, ricevette le prime proteste, ma non  diede risposte convincenti. Si fecero avanti gli uomini. 

«Sfamateli voi i nostri figli!» gli disse Pancrazio della Rabatana, il quartiere contadino più popoloso

«Sono quattro, sono tutti piccoli, e per fortuna nessuno  è pronto per il duce» aggiunse suscitando il sorriso amarognolo dei compagni.

I! podestà perse la calma:

«Se non andate via subito, vi faccio arrestare!» 

Era rosso in faccia.

«Dieci giorni fa avete minacciato così anche mio marito»  gli gridò sotto gli occhi la moglie di Rocco.

I! padrone del municipio andò via facendosi largo tra la  folla, che non gli diede nessun disturbo.

I! portone di quel vecchio convento abbandonato cento  anni prima era rimasto aperto, l’ultima guardia si era ritirata in buon ordine. Nunzio, un carbonaio grande e  grosso (lo chiamavano “il comò”), con le braccia per aria  diede il segnale dell’attacco e a testa bassa entrò per primo. Tanti dopo di lui dilagarono negli uffici, finalmente senza padroni. Aprirono i primi armadi che trovarono, in  uno c’era il carteggio dei certificati con i nomi di tutti, l’anagrafe dalla nascita alla morte, dai secoli passati fino agli ultimi giorni.

I! carbonaio non vedeva l’ora di mettere tutto sottosopra,  di dare fuoco ai tavoli degli impiegati, alla stanza del podestà con le due grandi fotografie del re e del duce. Restò fermo, con un giornale a far da torcia in una mano e una scatola di fiammiferi nell’altra. Avrebbe voluto bruciare il mondo. Ma fu fermato da Vincenzo che nel disordine generale lo convinse a non toccare nulla, ché le  leggi del fascismo non perdonavano.

«Devono crepare tutti loro di fame!» inveì la moglie di Rocco. Una moglie così appassionata poteva averla solo un rivoluzionario, le fosse costato anche il carcere,  «Andiamo in piazza!»

In piazza c’era il circolo dei signori e, accanto, la sede del  fascio. La folla, un fiume in piena, era traboccante di collera; tutti, con le mani alzate, chiedevano giustizia. I! corteo avanzava come in una grande festa di paese, ma senza bandiere e senza cristi in croce.

Tante donne e tanti ragazzi, e gli uomini dietro, a difesa.  Davanti al circolo – quel venerdì del dodici ottobre la serata era tenera e piacevole – stavano seduti i professionisti i proprietari di terre e in mezzo il podestà che raccontava tagliando l’aria col bastone.

Di fronte all’improvvisa comparsa di tanta gente che dava l’idea di marciare contro il nemico, i signori si chiusero dentro il loro santuario con le porte a vetri colorati.  Bastò una pietra lanciata da un ragazzo che un’intera vetrata andò in frantumi. Nella luce dei fanali i frammenti  si moltiplicarono, un caleidoscopio dal blu al giallo, dal  rosso al verde all’ocra; si moltiplicarono anche le pietre che vennero lanciate. Più di una colpì la sede del fascio.  I signori e i capi fascisti fuggirono attraverso un cancelletto che si apriva sul viale dietro al circolo; alcuni si rifugiarono nella caserma dei carabinieri che si trovava non molto lontano. Lì incontrarono i confinati, che a seguito della rivolta spontaneamente si erano consegnati al rito del carcere preventivo.

«Per non creare un problema in più ai carabinieri, che sono già tanto in difficoltà per tutto quello che sta accadendo fuori» spiegò Remigio l’anarchico, “l’implacabile  veggente della libertà”.

Scese la notte e i più ostinati si misero a cercare il podestà: ma quello chissà dove si era nascosto. Si rassegnarono e comunque restarono in piazza tra vetri infranti e  qualche sedia con i piedi spezzati e un tavolo da gioco buttato a dispetto sotto il monumento. Alcuni carabinieri sorvegliavano a distanza, mentre il maresciallo, appoggiato a un palo della luce, scriveva con fare concitato sopra un taccuino. Vincenzo, che dieci giorni prima era stato ammonito su denuncia del podestà, vedendolo restò  indifferente e commentò con tono canzonatorio: 

«Prendete i nostri nomi? A parte il mio, seppure ve lo ricordate, voi state qui da poco tempo e non ci conoscete».  Il comandante reagì gelido alla provocazione:

«Ormai siete tutti schedati».

Andò via che era quasi l’alba, accompagnato dal brigadiere che si portava dietro Bulò. In quel giorno il cane era  passato inosservato; il suo abbaiare, pur alto e molesto, si  sperdeva nel tumulto generale.

Il mattino dopo due camion si fermarono in piazza. Dagli automezzi militari scesero decine di carabinieri. In genere, la vita cominciava ad animarsi intorno alle sei, ma gli abitudinari si erano presentati al consueto appuntamento con oltre un’ora di ritardo. Lo notò il fruttivendolo il quale stava dando una mano agli spazzini per togliere di mezzo i segni e i resti della rabbia popolare.

«È stato uno scempio- disse il farmacista indicando il circolo con la vetrata a colori a suo giudizio profanata. 

«È stato un grande atto di coraggio» rispose duro il falegname.

Gli altri fecero finta di non aver sentito, guardavano i carabinieri armati di fucili che se ne andavano a gruppi verso la caserma.

«Ma sono tanti, ce la faranno a stare tutti quanti là dentro?». chiese il proprietario del caffè.

Non ebbe risposte.

Le risposte arrivarono nella notte successiva con i pianti e gli urli delle donne che avevano assistito all’arresto in massa dei loro uomini. I carabinieri li scortavano, manette ai polsi, e li caricavano sui cellulari diretti al carcere giudiziario nel capoluogo di provincia.

Il paese sprofondò in una specie di zona del silenzio.

I carabinieri pattugliavano le strade, a coppia e a gruppi,  giravano per le contrade più estreme col piglio di chi va spiando anche gli umori della gente.

Molte persone avrebbero voluto rimuovere le scene della  rivolta, il saccheggio, gli urli per gli arresti, le imprecazioni; e poiché preferivano non parlarne si isolavano.  Soltanto da un gruppetto di anziani contadini, come appollaiati sulle panchine della piazza, uscivano parole ad alta voce ma di nessun conto, almeno per l’appuntato –  aveva due strisce rosse sulle maniche della divisa – che si  era avvicinato con la curiosità del segugio.

Si avvertiva aria da coprifuoco.

Esprimevano rabbia solo le donne dei carcerati che fermavano i carabinieri, chiedendo notizie chi dei mariti e chi dei figli; i militari, sorpresi per quelle richieste, davano risposte generiche. Il maresciallo tentò qualche spiegazione: le disposizioni avute erano perentorie, bisogna riportare l’ordine nel paese e farlo rispettare, comunque.  «Vedrete che saranno rimessi in libertà subito dopo l’istruttoria. La legge ha tempi lunghi, dovete avere un po’ di pazienza», aggiunse tutto d’un fiato per togliersi di mezzo quella piccola folla con tanti bambini che lo guardavano stupefatti.

Nel paese si tornò a respirare e a parlare più o meno in libertà due giorni dopo, quando la compagnia dei carabinieri tolse il disturbo.

[Ometto due lettere del prof. Martino: quella a cui ho prima accennato e una seconda che porta la data del 14 novembre]

Vincenzo Rocco Michele Nunzio, protagonisti con altri dieci compagni finiti come loro in prigione per la rivolta del pane, dopo lunghe ore di viaggio scesero come trasognati dalla corriera che tutte le sere tornava in paese dal  capoluogo di provincia.

Abbracci con mogli figli e qualche amico. Un po’ di commozione e tanto silenzio. I reduci dal carcere mandamentale avevano poca voglia di parlare, in quel momento e in piazza, guardati a distanza dai carabinieri.

Solo Vincenzo recuperò la parola: «Siamo almeno liberi, questo è l’importante». Le mani che prendevano il fagotto di tela con gli indumenti personali gli tremarono per  l’emozione.

Poi, tutti a casa, nella Rabatana e nella Saracena, gli antichi rioni contadini, a raccontare ognuno l’esperienza del carcere durata quasi tre mesi.

E Rocco: «I cancelli mi sono rimasti nella testa, quando sbattevano tutte le sere e tutte le mattine e tutti i giorni  che Dio ha creato. Avevi l’impressione che ti toglievano  l’aria».

Vincenzo parlò della visita di don Alfonso: «Ce lo trovammo un giorno nel parlatorio, aveva avuto un permesso speciale dal giudice. Ci portò sigarette e frutta secca, solo quello poteva portare. Lo vedemmo tutti insieme  con il capo delle guardie sempre presente, che tuttavia fece continuare la visita del nostro parroco, oltre la mezz’ora prevista. Ci informò che due bravi avvocati avevano preso a cuore la nostra situazione».

Nunzio ricordò soprattutto il cibo: «Là dentro ci davano solo fetenzie, col freddo che c’era e con la fame». La moglie si chiuse nel silenzio e non disse che i tempi duri li stavano vivendo anche loro in famiglia.

Il giorno dopo, al maresciallo che gli comunicava l’uscita  dal carcere dei “fracassoni”, il podestà gridando: «Non c’è  più legge. Se non in galera, almeno al confino dovevano mandarli. Per sempre».

E il maresciallo, che conosceva la legge: «Sono usciti in libertà provvisoria, con l’obbligo della firma in caserma.  Restano comunque in attesa di giudizio».

 

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