Introduzione alla lettura del racconto di Rocco Scotellaro UNO SI DISTRAE AL BIVIO
Uno si distrae al bivio è il titolo di un libretto pubblicato dalle Edizioni “Basilicata” nel 1974, che contiene nove racconti di Rocco Scotellaro e i Frammenti e Appunti dai Quaderni dell’Uva puttanella.
Il primo racconto – il più lungo e interessante, che Scotellaro chiamava romanzo – ha dato il titolo al libro; gli altri otto racconti sono stati pubblicati su questo blog nella Categoria «Racconti di Rocco Scotellaro».
Ora pubblico il primo dei nove racconti – Uno si distrae al bivio, appunto – in una apposita Categoria col titolo del racconto stesso. Esso consta di tre parti: tre momenti fondamentali della vita, L’Io si sdoppia nel personaggio narrante e in Ramorra, in cui sempre l’alter ego si trova davanti a un bivio e si distrae nel senso che non sa quale strada prendere. Il primo bivio è di fronte alla presa di coscienza di sé, di ciò che si vuol essere. Inizia con l’apparizione di Giorgi Ramorra, l’alter ego «a fior di specchio» per chiedere «la prova di aver veramente vissuto. Ramorra chiede un romanzo in cui si parli di lui: un adolescente tormentato dalla coscienza dell’incapacità di autodeterminarsi, scegliendo, tra le innumerevoli possibilità di vita, il proprio modo di essere.
Il secondo bivio pone di fronte all’amore. «Ramorra ha chiesto molte volte al cuore di essere sincero e il cuore gli ha riposto che le belle donne dovrebbero essere impiccate».
Agli affanni amorosi subentra il problema della costruzione di un vita. Ed è il terzo bivio.
Lo sdoppiamento dell’Io si ripercuote, a livello di prospettiva narrativa, in un discorso che non procede linearmente, ma a sbalzi e ritorni, il racconto si attorciglia su se stesso, quando sembra che possa durare o progredire, si frantuma e divaga ancora. Una necessità, imposta dallo sdoppiamento, che si riflette sullo stile e lo condiziona, come se impedisse un’essenzialità che vorrebbe darsi e non può raggiungere-
La lettura del racconto richiede impegno e considerazione unitaria, per intero, di almeno ciascuna delle tre parti. La lettura non può ulteriormente frantumare il racconto, oltre la frantumazione e la divagazione della scrittura. Ritengo pertanto opportuno pubblicare in tre successivi post le tre parti del racconto, per poi fare seguire brevi commenti.
I
Io Ramorra l’avevo nell’anima da un pezzo.
Un giorno mi si presenta a fior di specchio e mi fa che vuole un romanzo tutto per sé.
– Ed io come faccio? – Gli dico. – Un romanzo? E’ una parola!
Lui Ramorra stava a scrutarmi, il suo ciglio non batteva da impressionare – Senti – mi disse subito prendendomi la spalla.
– Oh Ramorra cosa dici! – feci per oppormi.
Il suo ciglio ancora non batté: – Io dico che si crei una atmosfera, subito, e che duri pochi secondi, come d’un tramonto, di un’alba. Ascolta.
Tese lo sguardo, volse la tenda del mio balcone da una parte aprì. Entrò in camera il suono delle campane a morto: – Ascolta, – ripeté, – ti basta. – Rimasi ad ascoltare.
– Non sai che dicono le campane e i casolari a questi rintocchi, – mi disse, tu non lo sai.
– Vedo e sento – gli risposi – credo di saperlo.
– Ecco che lo sai, non c’entrano trame e personaggi e ambienti e costumi. La commozione è un fluido. Ti basta che scorra tra noi e le cose. Qui, vedi, è la montagna di Santabate, che tu conosci -. Fece l’indirizzo con una mano. – Lì, sulla rotabile che fa curva, la montagna di Santabate, merlata di pochi alberi, che prende mille colori al giorno, con mille significati ogni volta che la riguardi: gioia e dolore e mistero: e tu dici come senti, e basta.
– Ma? – gli chiesi intontito.
– Beh, senti, io voglio un romanzo da te. Io te lo dico che sei adatto, perché sai ricevere e conservare per disperdere a tempo. Devi parlare di noi due amici inseparabili che non ricordiamo più la nostra amicizia quando incominciò.
– Ma! – lo implorai.
Egli non volle più spiegarsi, con un gesto deciso scattò le mie ultime riserve e disse: – Soffro, di non vedermi multato. Mi sono fermato in un punto. Numerose strade mi chiamano. Io resto al bivio ostinato a non mettermi per nessuna di quelle strade, se il ciclo della mia gioventù prima non si conclude e non resta documentato, glorificato. Soffro, ho sofferto. La prova che ho veramente vissuto me la dai tu, come ti dico.
– Perché? Un giorno moriremo, Ramorra. Senza rimpianto di noi stessi, qualunque cosa noi avremo fatto in vita. Hai sentito le campane?
Ramorra: – E che? Vivere è appunto illudersi di non morire mai.
-Io sono già morto così come sono. Non ho binocoli, la montagna di Santabate è la stessa sempre, nella valle c’è il cimitero, le campane suonano a morto. Ramorra.
– Appunto, proprio. Pensa ai morti, pensati morto, un morto che può risuscitare.
– Ramorra quanto sei buono! posso dunque sperare nella resurrezione?
Così detto, incominciai. Lui si sfregò le mani e stette a sentire.
Un giovane camminava sulla sponda di un fiume. Ogni tanto guardava il cielo o scavava nell’arena. Trovò un osso, doveva essere di cavallo. Fece qualche passo, un altro osso ancora, doveva essere di cavallo.
L’acqua trasportava una giubba.
Guardò la cima di un monte con un uomo a cavallo. Poteva pensare a cose belle, forse meravigliose, e tristi; tutt’a un tratto dovette accorgersi che lo scricchiolio dei suoi passi gli dava fastidio da non poter più pensare, e se ne ritornò correndo, né poté scorgere una delle sue orme sull’arena.
Ma rivide gli ossi, l’uomo a cavallo, la giubba. Vide anche un vecchio al quale si avvicinò: Dite buon uomo, – chiese – sempre ritornando dove posso arrivare? – E quegli senza scomporsi: – E dimmi, figlio mio, sempre andando avanti io dove vado a finire?
Si abbracciarono, si sedettero sulla sabbia.
L’acqua del fiume correva e venne la sera.
Ramorra si compiacque di questo inizio ed io continuai. Ed ecco quello che disse alla mamma il giovinetto Giorgi Ramorra, appena arrivato: – Ieri sera ci hanno proibito in collegio di giocare alle carte. Ce ne andammo a letto, mentre di fuori le bande suonavano le rapsodie e un uomo appoggiato al muro, molto commosso, diceva che le stelle non si possono guardare. lo diceva ad alta voce.
E questa è l’ultima notte che Giorgi Ramorra dorme in convitto. In convitto è stato un anno solo. Se proprio i treni non deragliano, dovrebbe essere a casa domani. Stanotte Ramorra non ha chiuso occhio, ha fissato la luce rossa e le cose immobili. Ecco, ha pensato Ramorra, sempre così. Pace, tranquillità, nessuno che sfotte. Le braccia tutte le posso scoprire, ché nessuno me le guarda con la cotichina: ma posso addirittura cacciarmi fuori con le gambe. Gli altri dicono che sono di legno le mie gambe, e posso far le capriole come le so fare io. O piuttosto posso recitare come mi viene. Tutto è silenzio nella camerata. Tutto è silenzio. E in questo silenzio uno assapora i suoi sogni ad occhi aperti. Quante cose potrebbe essere nella sua vita Ramorra! Giocatore di calcio. Terzino, ma se fosse più grasso. Ecco: entrata di Ramorra, gli attaccanti tornano alle basi di partenza. Scavalcando tutti Ramorra a tu per tu col portiere! ma gli sfugge il pallone. Che fa? La scalata è unica nella storia del calcio. Anche portiere potrebbe essere: un po’ più alto, che cosa non parerebbe! la banda suonerebbe uno squillo di tromba ad ogni parata!
Perché tutto è silenzio e quando tutti dormono e si è a pochi minuti dal sonno, ognuno si sente incomparabilmente grande. Ramorra potrebbe fare lo scienziato e abiterebbe in campagna con un bastone che caccia prodigiosamente le cose di cui si ha bisogno. Filosofo, il più grande filosofo, con i capelli arruffati alla nuca e un po’ di cipria al mento. Sulle piazze direbbe che Dio non esiste, altrimenti lui non era povero e gli altri non gli facevano frizzi e il mondo non andava a passeggio con i fattacci degli altri. A scuola boccerebbe tutti in filosofia. Questa scienza per la quale tutti sono morti di crepacuore, Socrate morì di crepacuore filosofico, per la quale è impossibile non avere barba e capelli lunghissimi perché l’umanità è pezzente, impossibile è andare passeggiando senza chiacchierare con se stessi. Per le strade affollate Ramorra: – Pensate alla metempsicosi, signorina. Il pavone è per voi adattissimo, sareste a starnazzare nel pollaio vantando la vostra bellezza; reincarnandovi potreste vendicarvi di tutte le signorine più adorne di voi che generalmente odiate di tutto cuore. – Per le strade affollate Ramorra quel giovinotto lo acciufferebbe delicatamente, altrimenti abbandona le gambe e si mette a strimbellare una canzonetta da jazz: – Scusate. Piacere, Ramorra. Cosa è la metempsicosi, giovanotto? Ah, non lo sapete! eppure è il segno della distinzione, vi dico io: come per voi la cravatta alla moda, per la signorina che passa la calza (guardate la linea delle caviglie!) Tutti abbiamo una idea fissa. Sediamoci; prego, parlate anche voi. L’idea fissa di diventare un giorno proprio quello che non potremo mai essere. Si tratta quasi sempre di idee fisse illegittime. E la natura o chi per essa si burla di noi e riveste, per esempio, con le penne della cornacchia chi, senza avere un motivo legittimo, passò notti insonni a preparare discorsi e declamazioni e poesie o desiderò di cantare alla radio.
Ramorra, nell’ultima notte al convitto, sentì russare qualcuno. A quell’ora davvero nessun filosofo pensava alla metempsicosi, nessun filosofo, né il suo professore.
Fece capriole per dimenticare che poco fa diceva fesserie.
Sentì il fruscio della guardia notturna, si nascose sotto le coperte e pensò che la guardia notturna sarebbe stato il suo angelo custode nell’altro mondo. Volle poi pensare di dormire: si sarebbe svegliato in un’ora esatta del tempo per gustare gli ultimi istanti di pace prima del trillo del campanello.
Intanto l’orologio scandiva le due e un vento forte faceva fischiare le tettoie e scapigliava le tende delle terrazze, qualche gronda strisciava ai muri. Si annunciava questo vento come una sirena, poi era fragoroso come il treno e infine andava a posare calmo, misera folata, su una casetta di campagna, dove la stessa vicenda si ripeteva, ché proprio in quel mentre un altro vento si annunciava come una sirena e così via.
Dormì due, tre ore e il vento inutilmente infuriava. Dormì due, tre ore di seguito senza cambiar fianco, ma si levò di soprassalto con le mani tremanti che stringevano le lenzuola: non aveva, a sera, fatto il segno della croce e se lo fece, molto compunto.
Ma, vediamo un po’; non era solo per il segno della croce; egli aveva sognato, si sentiva pieno di tenerezza e di stupore. Che cosa cercava con gli occhi stralunati in giro per la camerata? Un uomo coricato per terra? Dove?
Ecco: Ramorra poco fa sognava di trovarsi nella cameretta. Ha gettato ora via un romanzetto giallo che non gli interessa. Sulla copertina due negri puntano i loro coltelli rabbiosamente sul bianco, il quale si salverà all’ultimo istante, perché una mitragliatrice si scorge tra le foglie. Ha guardato un libro di leggende dove si narra di figli di sangue regio che si fanno mozzare il capo per conquistare la principessa con gli indovinelli e gli enigmi, e che all’ultimo momento chiedono grazia e grazia, per infastidire il boia. Poi ha preso il libro di scuola, sul quale trova tante parole nuove che servono per tutta la vita, poi i giornali illustrati dove un lui e una lei si amano e tutto va sempre liscio alla fine; poi le riviste del cinematografo con le sopracciglia verdi delle attrici. Guarda infine un plico di sue creazioni poetiche e ne rilegge una «All’adolescente» che dice: «E’ dai! corrompiti, avvelenati, ridi ai passanti un sorriso di invito per non farmi pensare lontanamente che tu sia una Beatrice». Non ci prova entusiasmo, anche perché i morti nei quadri gli rimproverano: – A che pensi? Perché non pensi a noi? – Nel sogno tutto questo è durato un attimo ed è durato un attimo il capogiro che Ramorra ha avuto nel sogno. Quando ha detto numerose volte «Si si si si, no no no no »; aveva la fronte che gli mulinava, si è messo a contare, con la velocità dei battiti dell’orologio da polso e dei rumori del treno, da uno a centoventitremilacinquanta.
Ramorra ha sognato che va a chiudere la porta che dà nell’altra stanza, la stanza dove morì suo padre.
Ogni sera la chiude per bene: non un filo di vento la faccia sbattere, e guarda sotto il letto con trepidazione che effettivamente non v’è nascosto nessuno; né un serpente, né una cavalletta possono tentare la scalata da lui mentre dorme. E nell’altra stanza? Può esservi qualcuno che può bussare alla porta. Se Ramorra l’apre, può cadere a terra tramortito, vedere gli scarponi, poi le gambe, un uomo coricato per terra. Freme, tentenna, apre. – O Gesù! gli scarponi, le gambe! Non cade. Un uomo coricato per terra, suo padre!
– Beh? perché hai paura? – Come parla il padre!
– Oh, sei tu, papà mio! ma per amor del cielo, papà mio! vado a letto subito, papà mio. Quando tu vai via al camposanto.
– Buonanotte.
Cerca di acquattarsi dietro la porta ma ne è richiamato dalla voce debole dei morti: – Beh? Perché hai paura?
– Ti ricordi, io avevo paura del nonno e della nonna morti nel letto in quella stessa notte.
– Ma il mio caro Ramorrino! lo vivo! Usciamo. – Rifà il padre.
Come a teatro così nel sonno le cose procedono per scherzo e per finzione e fu così che per la strada maestra del paese, volando insieme il padre e Ramorra, si affacciavano le donne scapigliate e si lasciavano andare a terra i loro pupi in fasce e correvano in casa e sbarravano porte e finestre. Ramorra e babbo volavano e tutto era curioso e inspiegabile. Un calzolaio salutò suo padre che scese. Ramorra pure scese, parlarono.
– Ma non è vero! Appena venuto in licenza il compare è morto.
– Fandonie, compare, vi hanno trastullato, – rispose il babbo allegro e poi si fece scuro con la faccia dei morti.
Ramorra tentò la fuga a gambe levate, ma fu presto raggiunto: – Falerno il giro del paese, diceva il padre. Lo prese per mano. Al porticato sbucarono uomini armati di accette e bastoni pastorali: padre e figlio girarono rapidamente a fronte indietro inseguiti da urli selvaggi. A due passi seguiva Mattia, cacciatore di professione; poi l’urlo degli uomini armati e il cielo tuonava. Suonarono le campane delle chiese e i preti uscirono in processione col braccio d’argento di un santo. Il padre scomparve e Ramorra correva, correva. Svoltò: la strada brulicava di serpenti a sonagli e cadde. Non tra i serpenti però, su un sasso molto sporgente.
Adesso si trovava sul letto in convitto, sotto la luce rossa e le cose immobili intorno. Che cosa cercava con gli occhi stralunati?
Era un avvertimento del padre. Ogni volta che compiva male azioni, gli appariva il padre defunto e lo fissava torbido.
– Vattene! Vattene! diceva nel sonno al padre – non lo farò più mai più!
Una sera che baciò una bella ragazza, la notte si aspettava da un momento all’altro l’ombra del padre; s’era coricato in mutandine per scappare nella strada. Ed appena il sonno lo prese, il padre apparve sorridente, sorridente.
Ramorra non seppe spiegarsi la strana apparizione.
La sera baciava più forte la ragazza la quale diceva che «basta», doveva confessarsi e dal prete non poteva farsi scusare la continuazione.
Ramorra smise di baciarla.
La notte il padre di nuovo se ne venne innanzi sorridente, sorridente.
Ma la sera appresso, per penitenza, la ragazza mancò e nemmeno il padre apparve. E adesso non poteva cacciare una mosca o tirare una boccata di una cicca, il padre di nuovo era torbido.
Poveretto Ramorra! Si sentì ossessionato e si chiedeva sempre: come si fa a non commettere una sola cattiva azione, soltanto una al giorno? Ma allora? – mangiò con la sinistra e fu il solo errore cosciente della giornata. Un’altra volta si grattò la testa unguentandosi le mani e le unghie e un giorno finalmente rubò cento lire nel cassetto del fratello.
Il vero è che il padre era caduto una volta malato nelle braccia d’una donna che aveva saputo avvezzarlo alla morte.
Apparve torbido più che mai.
Ramorra pensò subito che fossero le cinque. Ma chi lo diceva se poco fa era giorno pieno e il cielo tuonava?
Si schiaffeggiò la fronte e si tirò un capello. Era bianco.
Tra quei bianchi che non pochi si trovano anche nei capelli dei giovani.
Eppure erano le cinque.
La guardia notturna fece fruscio con le ciabatte di feltro, avanzò verso il suo letto e chiamava: – Ramorra, Ramorra, cosa hai fatto stanotte? Sei andato saltellando sopra ai letti dei tuoi compagni, a mezzanotte in punto hai devastato i cuscini, hai frugato i cassetti, hai fumato le cicche, un principio d’incendio a mala appena l’ho spento io …
Si allontanò agitando le braccia a guisa d’ali.
Il convittore Ramorra ebbe sgomento, ma finse sempre di dormire.
Argomentava che le guardie notturne dei collegi verso le prime ore dell’alba, le ultime del loro servizio, andavano soggette ad un principio di sonnambulismo. Veniva la fredda luce del mattino attraverso la fessura.
In casa Giorgi la signora a quest’ora doveva strozzare un pollo per Ramorra.
Ramorra rideva solo solo. Si mise a pensare: che giorno è oggi? Il primo giorno di vacanza, lunedì, eh!, i barbieri fanno festa. Ieri è stata festa. Ricordo il film di ieri e voglio canticchiare tutta la giornata. Poi sarà martedì: i barbieri che suonano chitarra e mandolini fanno delirare la gente che passa per la via. E mercoledì, allora ci si sente poco bene. La gente se c’è sole dice che il caldo è forte, e se il sole non c’è dice che fresco viene l’inverno e che il freddo di quest’anno è insopportabile, proprio non si può. Intanto è giorno, è ora di prendere qualcosa al caffè.
Giovedì sì che si è nel bel mezzo della settimana. Una volta si faceva festa anche a scuola! Qui passa la banda militare e nel paese lontano arriva un autocarro mai visto e trasvola un aereo o sono tutti alle finestre: «chissà dove andranno chissà se arriveranno … » E un’orchestrina della radio sconquassa tutti i buoni propositi vergati fino a questo giorno nell’agenda personale. Venerdì uno è stanco davvero. Ogni settimana di questo giorno passa una nube nerastra sul tetto di casa Giorgi e forse pure sui tetti degli altri. I fazzoletti il venerdì si mandano a lavare. Ma quello che più dà a cuore in questo giorno multiforme è che l’indomani è sabato. Sabato si va a cinema e domenica e lunedì di nuovo S. Vito e Modesto.
L’istruttore scoccò le mani, applaudiva all’anno scolastico finito. Ramorra saltellò, decise di lavarsi bene.
In casa Giorgi la signora doveva spennare il pollo.
Nel tempo che impiegò ai lavandini Ramorra fu ancora più preso dalla gioia di essere presto a casa. Pensò che qualcuno avrebbe trovato morto, forse Carmine, un vecchio imbecille rimasto scemo e bambino. Un giorno si nascose in un cantone e Ramorra di qua e di là che l’andava cercando, perché il Carmine gli aveva rubato una gallina. Finalmente lo scorse, non senza aver paura, rannicchiato ben bene con la faccia nascosta al muro contava tra se: uno, due, tre, quattro, come si conta quando si gioca a nascondersi.
– Oh Carmine finalmente! Eh brutto lercio!
– Zitto – fece Carmine senza voltarsi – che ti sente il figlio della signora Giorgi.
– Sono proprio suo figlio io! – Carmine si voltò: – Non dire bugie – rispose. E se ne andò continuando a contare sulle dita.
Ramorra viene di lì a poco chiamato.
Il signor vice Rettore gli fa una paternale solennissima: – Ecco, birbone, la guardia notturna ha segnato sul quaderno delle novità: Ore 0,25 giro nei locali del convitto: nulla da segnalare.
Giorgi (sei tu Giorgi Ramorra?) Scoperto – Perché stavi scoperto? Ore 1,35 corro in camerata al grido di uno due tre venticinque settanta. Arrivo che Giorgi ha già contato fino a centoventitré e cinquanta.
Il convittore Ramorra non rispose. Pensò con delicatezza a ciò che diceva la madre nel vicinato: che non cercava mai pane la notte.
Egli era stato la notte un Ramorra che mai nessuno avrebbe potuto comprendere. E, promosso e perdonato, partiva per sempre dal collegio.
A casa tutti dicevano che era cambiato, era pure cresciuto, fatto giovanotto e con la licenza liceale in tasca.
E la sera appena arrivato, per paura, pregava la mamma di farlo dormire nel letto con lei, per quella prima sera, almeno, come quando era bambino.
Il primo giorno a casa avrebbe dovuto dormire, ma egli volle ricordare il viaggio in treno e riviverlo nei suoi fatti più rilevanti.
L’aveva scortato alla stazione un vecchio cameriere, cui si provò a domandare:
– A chi pensate con quegli occhi annuvolati! avrete certo bevuto di buon’ora?
E l’altro, che scuoteva la testa; gli si muoveva la pelle della pappagorgia.
– Macché!
– A chi pensate allora? Per questa strada che tante volte avete calpestata, non vi viene in mente un ricordo, qualcosa, questo muro sventrato?
– Mannò! niente!
Gli guardò in viso Ramorra e gli andava scorgendo un che di simile al muro sventrato. Dagli occhi fissi del cameriere usciva una luce calma, faceva pensare alle solitudini dei conventi: – Ma avete famiglia voi?
– Sette, sette figlie una moglie. – Scosse la testa, gli si muoveva la pelle della pappagorgia, e riprese: – veramente non sono sette, ma dodici: altri cinque morti, il primo aveva pochi mesi e cadde dal letto.
Fece la storia dei figli morti con accoramento, poi si rivolse a Ramorra tendendo istintivamente la mano – Se volete, una mancia, signorino.
Possibile che quel vecchio nel racconto che faceva non pensava certo di fare il biglietto al più presto e solo una volta acquistatolo, ad alcuni veniva l’idea di ricongiungersi presto con i familiari.
Trillava il campanello: poteva benissimo darsi che il treno, malgrado il campanello, non arrivasse più.
A tutti i viaggiatori era tanta l’apprensione che l’aria era assorta, i visi oscuri. Stroncato ogni discorso, si aspettava l’evento: venire o non venire, deragliare o no, venire o non venire. E il treno arrivava scivolando sulle rotaie come un serpente; e i passeggeri si lanciavano sopra addirittura furenti, per occupare un posto ciascuno.
Chi partiva con rimpianti? La scena certo era quasi lugubre: sotto la tettoia ancora gente si aggirava agitata, i facchini erano febbrili, dal finestrino di Ramorra i monti erano alti, le case sparse della città come bussolotti dopo la partita.
Il treno si mosse. Tutti quegli altri, sotto la tettoia, scattarono sull’attenti e in coro dicevano: «Noi moriremo, noi moriremo!»; un industriale con la borsa vuota sotto il braccio chiedeva posto, tanto lui scendeva alla prossima stazione, e la corsa era bella.
Ah! giovane studente, magro e breve, Ramorra, i tuoi occhi non scintillavano più! Ti parlava l’estesa campagna di antiche battaglie e di generali a cavallo; di bande che andavano in cerca dell’oro su quei monti; e i castelli diroccati di tanti illustri giullari vestiti di giallo e rosso; e tu pure eri certo che in una strada bagnata dal suburbio era odore di pesce fradicio, che un bambino si chiedeva come faccia l’olivo a darci l’olio, e in qualche posto della terra non sai dirmi dove, di certo gracidano le rane.
In genere il treno sembrava una corsia di moribondi.
Qualcuno come se traesse lì per lì un sospirone, e poi… Altri erano sdraiati in lungo sui sedili, non sentivano, non vedevano, non pensavano; ed altri, come parenti del morto, si davano coraggio a rifocillarsi, e scoprivano pingui valigie.
Tutto i1 personale non poteva essere che addetto a funebri uffici. Se veniva il controllore, voleva assaggiare una torta e poi dare le condoglianze.
– Cos’è stato, signora? – Faceva il controllore.
– E’ caduto il dente al piccolo, anche questo ci voleva.
Tu Ramorra ascoltavi quei viaggiatori raccontare storielline veristiche di famiglia. «Aveva sopraccaricato l’autocarro di paglia e per quanto fosse andato guardingo, scongiurando di non imbattersi nei militi della strada, macché. Volevano cinquecento lire di multa. – Massì ecco la paglia, prendetela – Così dicendo se n’andava con le mani dietro la schiena. Solo perché dovette ricordare che oltre la paglia, aveva lasciato via l’autocarro, si lanciò nel fiume. Guarda quella croce rossa lì è il punto».
E ancora un calzolaio ad un altro in tono di confidenza: – Giacomino era un ragazzino, apprendista calzolaio, molto timido che non rispondeva al mastro, mai, mai – Fila diceva costui all’ora di colazione – va a prendere cento grammi di «spezzacatene» da mastro Mattia – E questi gli dava scapaccioni avendone gran gusto, sulla faccia bianca e liscia: – Aspetta un po’ che ti servo gli spezzacatene – e giù un altro schiaffo sulla noce del collo e colpi di pollice appuntito nel dorso. Anche se un po’ intontito, il ragazzo sempre delicato e mansueto, ritornava dal mastro per farsi compatire. Questi lo riprendeva con aspre battute: non aveva capito un corno, doveva chiedere i «tuzzabanconi» o, che erano la stessa cosa, gli stuzzicadenti. E molti giorni così. Oggi il mastro riflette e poi: – Quattro soldi di fessifottuti va a comprare, ricordalo bene! – Mattia, che era un boia sul serio, gliene dette da predicatore. Il garzoncello s’avviò piano col passo del vecchietto, e con mille dubbi nella testa, passò per la bottega del mastro. Ma non vi entrò, scoppiò a piangere subito sulla porta. – Ancora hai sbagliato, gli disse il mastro, fesso fottuto! – Il garzoncello s’azzardò a rispondere – Macché spezzacatene o tuzzabancone se non ne ha! – e non seppe frenarsi dall’invocarlo: – Mastro mio – Fu cacciato a spintoni. Tutti si affacciavano a vedere come se ne andava piangendo e commentavano: «Figlio di cafone che vuol fare il calzolaio!» e lui ripeteva mordendosi le unghie – « Fessifottuti _ fessifottuti » _. L’altro calzolaio interruppe: – Così vorrei avere una mogliera!
La corsa era bella e tu Ramorra ricostruivi le scene.
– Il bastone non occupa posto – facevano a gran voce di là.
– Io sono usciere di banca!
– Ed io sono la tromba nel circo equestre, con ciò?
– Un usciere sta sempre seduto e basta. – L’altro si sedeva per terra e guardava fisso l’usciere. Procedevano così senza azzuffarsi. E quello del circo:
– Siamo buoni tutt’e due, faremo a metà ciascuno? – ridevano ora.
Ramorra ricorda bene d’essersi alzato per osservare: un bambino piangeva, un signore dagli occhiali piccoli cadeva dal sonno stringendo un libro mastro; qui tutti allibiti, con la bocca aperta e senza bisogno di darsi gomitate, avevano lo sguardo rivolto ad un signore con un naso a pipa fenomenale; là il marito e la moglie si pestavano un piede; qui un omone aveva tra le mani la testa e i capelli intirizziti e nessuno faceva all’amore tranne gli uccelli che volevano per l’aria.
Ramorra dopo aver constatato che le campagne erano troppo estese, infiniti i castelli diroccati e i monti, e ineffabile l’umana sciagura in quel treno, ricorda di essere caduto nel sonno. Viaggiò e viaggiò.
A quella stazione di coincidenza si vedeva sveglio. Qui, quando andò al paese che il padre era grave, un giovinetto gli gridò dall’altro treno che il padre era morto, come se volesse dire « che ci vai a fare?» e Ramorra di rimando: – Voglio sapere soltanto se trovo pronto l’autobus per il paese. – I due treni si mossero e Ramorra, in bilico come era a parlare, cadde e pensò al padre che avrebbe trovato morto.
Arrivò finalmente alla stazione. Nei pressi una taverna. In questa taverna veniva sempre gente di passaggio. Una vecchia matrona, che non era di una località precisa, aveva i seni a sacchi e la pancia come una botte, occupava quasi tutto il vano dietro il banco. Rispondeva a mala pena con un fil di voce. Un uomo di passaggio entrò – pareva sconvolto di trovarsi in quel locale – si guardò attorno, poi si sporse sul tavolo:
– Una parola, prego.
– Anche due, dite – si mosse la matrona.
Le parlò all’orecchio.
Gli parlò all’orecchio.
L’uomo di passaggio scappò via. La vecchia matrona disse amaramente: – Quell’uomo ha perduto il treno. – Tutti furono nel più misterioso silenzio, e uno si tolse il cappello per il caldo. .
Il viaggio non presentava altri particolari. A casa, a Ramorra tutti dicevano che era cambiato, era anche cresciuto, fatto giovanotto e con la licenza liceale in tasca.
Era andato a far visita al padre morto nella cappella e aveva detto Ramorra: – Papà mio, perché sei morto? – senza stillare una lacrima, e aveva ricordato la voce di un uomo dalla barba, forte sul fragore del treno: «Per vedere come piove, non basta tenersi dietro i vetri e piangere, ma portarsi sulla strada con lo sguardo fisso al cielo, immenso e irraggiungibile».
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