È il mese di marzo 1941, Guido, un fratello di don Oreste, il più giovane della famiglia, ufficiale al fronte nei Balcani, scrive al fratello canonico: « Se la Grecia è vinta,  e non per merito dell’esercito italiano, l’Africa è ormai  perduta. Questa è una guerra senza speranza, per noi è diventata un incubo come per voi l’oscuramento, che vi  tiene prigionieri in casa fino all’alba. Bisogna ormai convivere col buio, in tutti i sensi. Fino a quando? Chissà! Le congetture intorno alla guerra, alla durata più che all’esito della guerra, sono infinite ».

Con le tre pennellate di Guido l’andamento della guerra, già compromesso nella primavera del 1941, è ben delineato: la guerra in Africa, già persa, la campagna di Grecia, vinta non da noi ma grazie al salvataggio dei tedeschi, l’oscuramento. L’oscuramento – scrive Guido – è per voi un incubo, come per noi che siamo al fronte è un incubo la guerra. Il paragone sembra – ed è –assurdo. Tuttavia l’oscuramento era reso davvero un incubo dai “guardiani del buio” per noi che nei nostri paesi vivevamo i disagi della guerra senza rischi cruenti, sotto cieli non sorvolati da aerei. Immaginatevi di restare chiusi in casa dal tramonto all’alba, non potendosi avventurare nei vicoli neri come la pece quando non splendevano la luna e le stelle e non potendo nemmeno socchiudere l’imposta di una finestra per scrutare il tempo. Vivevamo, ci facevano vivere come se l’esito della guerra, la vittoria finale dipendesse dalla rigorosa osservanza dell’oscuramento. Chi aveva impellente necessità di uscire rischiarava il cammino agitando un tizzone acceso, con la poca luce che esso emanava, rischiando i rimbrotti di una guardia. Un anziano e stimato non evidente che abitava nel corso, una sera d’estate illuminata dal faccione lucente della luna e da migliaia di stelle che brillavano nel firmamento, volendo prendere un po’ di fresco, fece clic sull’interruttore della luce, che credeva fosse accesa e invece era spenta, aprì la porta, illuminando un buon angolo del corso, già illuminato dalla luna e dalle stelle, sistemò una sedia davanti alla porta e si sedette con un bel sospiro di soddisfazione. Nessuno poteva avvertirlo, perché tutti erano tappati in casa e ci volle del bello e del buono per convincere uno zelante carabiniere che l’errore era scusabile e non contravvenzionabile.

     Non so descrivere la mia meraviglia quando mi recai a Napoli, per i miei studi alle medie. A Napoli giunsi di sera. Per chilometri e chilometri la corsa del treno era rallegrata dalla visione del lungo pennacchio rosso di fuoco del Vesuvio, allora in fase attiva – un semaforo per gli aerei nemici. Giunti a Napoli, la stazione sfavillava di luci, e un tripudio di luci emanavano i tram, i cui finestrini non erano schermati e i cui pantografi sprizzavano scintille violazzurre. Incredibile a vedersi, i negozi avevano pubblicità luminose al neon. Neanche alla festa della Madonna del Carmine avevo visto un tale spettacolo di luminarie: nella mia mente rimase impressa una fantastica visione, che neppure lo spettacolo delle luci di New York, visto sul calare della sera dal terrazzo del WTC – una due torri abbattute dall’attacco terroristico dell’11 settembre – ha cancellato. Dopo alcune ore, il suono delle sirene e il fuoco della contraerei mi svegliò nel primo sonno. In fretta, assonnati, corremmo nel rifugio, dove le donne spettegolavano quando l’aria era tranquilla, per passare di botto a invocare l’intercessione di san Gennaro quando il fuoco della contraerei diventava più vivace o sembrava che una bomba fosse caduta nelle vicinanze.

     Marzo 1941. La Cirenaica era stata occupata dalle truppe brittaniche e la Tripolitania era sotto attacco. L’Impero, che solo cinque anni prima Mussolini aveva annunciato dal balcone di Palazzo Venezia che si era affacciato suoi colli fatali di Roma, era perso. Il 5 maggio l’imperatore Haile Selassie rientrerà trionfalmente ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, lo stesso giorno, cinque anni dopo, in cui ad Addis Abeba era entrato il maresciallo Badoglio. Tredici giorni dopo il principe Amedeo di Savoia, viceré d’Etiopia e comandante in capo delle forze armate in Africa Orientale chiederà la resa definitiva dopo una strenua ed eroica resistenza ad Amba Alagi, sulle montagne etiopi, dove il principe aveva radunato per l’estrema resistenza il resto delle forze italiane ( 7.000 uomini, una forza composta da carabinieri, avieri, marinai, 500 soldati della sanità e circa 3.000 militari delle truppe indigene). La resistenza ad Amba Alagi è una pagina gloriosa e dimenticata, come se ci dovessimo vergognare delle belle pagine della guerra mussoliniana scritte dai nostri soldati. Ricordarla è doveroso. Lo schieramento italiano venne ben presto stretto d’assedio dalle forze britanniche che contavano 29.000 uomini. I soldati italiani, inferiori sia per numero che per mezzi, diedero prova di grande valore, ma, rimasti stremati dal freddo e dalla mancanza di munizioni, acqua e legna, si dovettero arrendere. Poco prima della resa il duca Amedeo autorizzò gli indigeni della sua truppa a tornare nei propri villaggi , ma risulta che gli abbandoni non furono superiori alla quindicina di casi. I militari di Sua Maestà Britannica, non solo in omaggio del comandante nemico appartenente alla migliore nobiltà europea, ma anche in segno di ammirazione per la fermezza mostrata dai soldati italiani, resero ai superstiti l’onore delle armi, facendo conservare agli ufficiali la pistola d’ordinanza.

     Amedeo d’Aosta sopravvisse meno di un anno. Morì il 3 marzo 1942 debilitato dalla malaria e dalla tubercolosi. Ai suoi funerali anche gli ufficiali britannici indossarono il lutto al braccio. In quel periodo io frequentavo la scuola media a Napoli: raggiungevo il mio istituto con un tram che aveva una fermata proprio davanti al cancello d’ingresso della villa reale di Capodimonte, residenza della madre del duca d’Aosta, Elena d’Orléans. Davanti al cancello c’era un assembramento di gente silenziosa e commossa, molte donne piangevano. Così apprendemmo della morte del duca d’Aosta. Con la mia sana civiltà lucana mi sentii partecipe del rito del vicinato che piangeva la morte del vicino di casa.

     La Grecia è vinta, scrive Guido, e non per merito dell’esercito italiano. Mussolini, che voleva la sua guerra per emanciparsi dalla dipendenza dell’alleato tedesco, il 28 ottobre 1940, anniversario della marcia su Roma, dichiarò guerra alla Grecia e tentò di invadere la Terra di Socrate e di Platone, la culla della nostra civiltà, come dirà il prof. Fedele Martino. La guerra ebbe un andamento disastroso, dopo una prima penetrazione in territorio ellenico, le truppe italiane furono ricacciate in Albania e furono salvate dalle forze armate tedesche dall’onta di essere buttate a mare. Nell’aprile 1941. Infatti, la Germania, invase la Jugoslavia e la Grecia e le costrinse alla resa con una guerra lampo. Nelle due Nazioni furono stanziati anche contingenti di truppe italiane, l’armata s’agapò – l’armata dell’amore, titolo di un soggetto cinematografico pubblicato nel 1953 dal critico cinematografico Guido Aristarco, che gli costò una denuncia per vilipendio delle forze armate e la reclusione per quarantacinque giorni nel carcere militare di Peschiera.

« II sole era già caduto da oltre un’ora, quando don Oreste  entrò nello studiolo ansioso di far leggere agli amici canonici il drammatico messaggio del fratello ricevuto in  maniera quasi clandestina.

«Luce, Luce!» gridava con tono perentorio intanto dalla piazza la guardia municipale: aveva l’ordine di fare rispettare l’oscuramento. Un solo filo che filtrasse da una  finestra, da una porta, anche dalla cantina da dove andava e veniva la luce rossastra di un lume a petrolio, metteva in apprensione il guardiano del buio.

Don Oreste frettolosamente chiuse la porta a vetri coperta da due tende verdescuro che nascondevano alla curiosità della piazza don Paolo, don Alfonso, don Giacinto e l’anziano padrone dell’ufficio che per decisione del medico aveva dovuto rinunciare al piacere della pipa.  «Ma è un’ossessione questo richiamo, tutte le sante sere!»  Brontolò don Paolo. Poi aggiunse, sarcastico:

«Una sola volta un aeroplano ha sorvolato il nostro paese lanciando manifestini di saluti, lo ricordate? Cinque anni fa, nel trentasei, quando il duce passò da queste  parti».

 

 

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