Otto confinati erano ospitati nel convento del paese (per chi ama immaginare che la storia si svolga a Tricarico, diciamo: nel convento del Carmine), attrezzato alla meglio di tante celle per i forestieri. Per l’ospitalità versavano un piccolo obolo sostenibile dalle loro scarse risorse.

     C’era stato un momento di imbarazzo, un’imprudenza. Padre Aurelio, il priore dal forte carisma, che emanava gioiosa lealtà francescana, dando conforto a Pietro per la morte della madre e l’ultimo saluto che si era dovuto negare, lo sollecita ad andare a pranzo con i suoi “colleghi”. Mattia, spedizioniere di Savona, che si trovava al confino perché sospettato di far parte di un’organizzazione comunista, si  affrettò a precisare: «Compagni», al posto di “colleghi”. Un’imprudenza grave in un tempo in cui le parole le portava il vento e i muri avevano orecchi in ascolto, che provoca il rimprovero di Pietro. Padre Aurelio chiude l’incidente:  

«Compagni? Così ci chiamavamo a scuola. Mi sta bene, e mi starebbe anche meglio, considerato il luogo che vi  ospita,  poter stare insieme come apostoli. Voi siete otto,  noi siamo quattro; nell’ultima cena Gesù ebbe accanto i  dodici apostoli. Vorrà dire che invece della cena celebreremo il pranzo della fratellanza … cristiana».  

     Stavano parlando tra di loro quando giunge l’appuntato dei carabinieri per la consueta ispezione: 

«Ma questo non è un incontro tra amici, è un assernbramento ! »  intervenne con fare autoritario l’appuntato dei carabinieri, il quale con Bulò al guinzaglio era in uscita  d’ispezione.

     Pochi minuti dopo si ritrovarono in dodici a tavola,  un  evento che mise tutti di buon umore, anche Francesca, la professoressa, insegnante di storia e filosofia in un liceo classico di Torino, mandata al confino  per propaganda antifascista e tentativi di espatrio clandestino in Francia. Francesca, uscita dal suo rigoroso riserbo, si confidò marxista convinta, rivoluzionaria nel cuore e nell’anima, e sembrò a tutti che provasse profondo sollievo nel confidarsi in modo aperto e appassionato. Francesca era alla conclusione del suo erratico confino, che durava da due anni, sballottolata di qua e di la. Aveva dato un grande dolore a suo padre, un maestro elementare da libro cuore, che non resse al dolore e morì dopo una ventina di giorni che era stato a trovare la figlia al confino in un paesino dell’Abruzzo, fermandosi con lei ben oltre i dieci giorni del permesso che aveva ottenuto. Come Pietro, anche lei rinunziò al permesso di recarsi al funerale del padre.

«Anch’io come te rinunziai al permesso. Immagina, andare a Torino per una settimana, inclusi due giorni e due notti di viaggio, e sempre sorvegliata speciale. Uno strazio. Avrei fatto appena in tempo a salutare mia madre e mio fratello. Non mi mancò il conforto della gente del  paese sempre nel rispetto del regolamento, secondo il ritornello dei carabinieri».

Il primo impulso di Pietro fu di abbracciarla. Lei l’assecondò. Le sfiorò le guance e per la prima volta, dopo quasi un anno di vita in comune nella segregazione del  convento, sentì dissolversi quella distanza mai prima infranta.

Ci fu un momento di sospensione di cui approfittò Luigi, che cominciò a raccontare le sue stravaganze di agitatore nell’università e le pubbliche offese al capo del governo. Era stato convertito alla causa dal suo insegnante di storia poi condannato al carcere e al confino per tre anni. Per lui, che al commissariato si era dichiarato antifascista, solo un anno di confino.

     Non ci fu il tempo di fare commenti alle confidenze di Luigi, che improvvisamente comparve il maresciallo dei carabinieri, un brav’uomo. Egli ebbe ritegno a dire subito il motivo della visita e lasciò che proseguisse la discussione sul lungo tavolo da pranzo, un fratino autentico, che, secondo Francesca, poteva essere datato intorno al 1600. Il maresciallo ebbe l’impressione che i confinati vedessero quel tavolo per la prima volta e comprese che, attorno a quel tavolo, non si organizzavano assembramenti. Si mise il cappello con la visiera, assunse un tono serio e comunicò che, in base ad ordini che aveva appena ricevuto, non potevano più stare tutti otto assieme, dovevano separarsi e vivere separatamente. Tre sarebbero potuti rimanere al convento e gli altri cinque avrebbero dovuto cercare, separatamente, altre sistemazioni.

     Il maresciallo, cui non mancava spirito di comprensione, disse che gli ordini superiori arrivano quando meno te li aspetti: dal Municipio, dalla Prefettura, dalla Questura, se non addirittura da Roma. I cinque che avrebbero dovuto lasciare il convento si sarebbero potuti sistemare tre da una parte e due da un’altra. La pensione Caterina, dopo il suicidio di Samuele Hanau, aveva una certa disponibilità. C’era anche la «Casa degli invalidi di guerra», che il comune metteva “generosamente” a disposizione. Naturalmente – aggiunse – il maresciallo – l’obolo versato al convento passerebbe all’amministrazione pubblica, come rimborso spese per il consumo di luce e acqua corrente. E il vitto? E il maggior costo per pagare la pigione della pensione Caterina? Per cinque di loro quest’ordine, carico di tutta l’indecenza della stupidità, era una tegola in testa.

     Ben oltre fu il provvedimento, questa volta reale, contro gli “assembramenti” di confinati raccontato Carlo Levi nel Cristo s’è fermato a Eboli

Arrivato al muretto della Fossa del Bersagliere, sulla piazza, vidi un giovane biondo, alto e aitante, con una camicia cittadina dalle maniche corte, uscire dall’usciolo di una catapecchia portando in mano un piatto di spaghetti fumanti, traversare la piazza, posare il piatto sul muretto lanciando un fischio di riichiamo, e rientrare poi rapidamente di dove era venuto. Mi fermai incuriosito a guardare di lontano quella pastasciutta abbandonata. Subito, da una casa di faccia, uscì un giovane alto, bruno questo, e bellissimo, con u viso pallido e malinconico … . Andò al muretto, prese il piatto di spaghetti e ritornò sui suoi passi. […..]. – Questa scena – mi disse [don Cosimino, il gobbetto della posta] – avvìene tutti i giorni a quest’ora. Sono due confinati come lei. […] Prima i confinati potevano stare assieme, ma da qualche mese don Luigi Magalone ha dato l’ordine che non debbano neppure vedersi. Quei due, che facevano cucina comune per economia, ora sono costretti a preparare il pranzo a turno, un giorno per uno, e a portare i piatti sul muretto dove l’altro li va a prendere quando il primo è già rientrato in casa. Se no, se si incontrassero, chissà che pericolo per lo Stato.

     Dei cinque che dovettero lasciare il convento, Francesca, Luigi e Pietro si sistemarono nella «Pensione Caterina», Ernesto e Michele non si sistemarono nella «Casa degli invalidi di  guerra», come aveva suggerito il maresciallo, ma fittarono da un privato una misera stanzetta, che era servita per il deposito della paglia, dove c’era l’occorrente. per preparare qualcosa da mangiare, ma mancavano i servizi igienici. La mattina tardi, quando non c’era più nessuno, andavano alla latrina pubblica dove entravano a turno, prima uno poi l’altro.

     sotto la piazza. Noi ragazzi nella villa andavamo a giocare, davamo la caccia alla talpe, demolendo le numerose gallerie che scavavano nel terreno, senza essere mai riuscita a catturarne una, e mozzavamo le code alle lucertole. La latrina ci faceva schifo, ne sentivamo il puzzo atroce e giravamo gli occhi per non vederla. In letteratura la troviamo citata più volte: dallo stesso Trufelli, di cui riporterò una descrizione in un prossimo post, e da Rocco Scotellaro. Così la descrive Enrico Buono, figlio di don Giulio Buono,  maestro di scuola d’altri tempi, nel racconto «Femia e Cristina» (Echi e ricordi. I racconti di Enrico Buono, a cura di Enza Spano, S.M.D.R. Edizioni, pagg. 68-69):

La latrina pubblica, un’istituzione locale quasi secolare, era seminascosta da una fitta vegetazione di acacie che un accorto sindaco aveva creato dal nulla per imbrigliare il terreno franoso a ridosso della piazza principale. Un casotto  sberciato, maleodorante, a doppia porta per gli uomini e per le donne, in cui liberamente giocava il vento e penetrava l’acqua e la neve. Rara la svuotagione del materiale putrido, sicché nei giorni in cui spirava “di basso”, ossia scirocco, stagnava d’intorno un atroce fetore… . Il torrido sole dell’estate o i venti di borea e di ponente impetuosi disperdevano i miasmi, evitando terribili epidemie. Al casotto si accedeva per una ripida strada sassosa, larga nel primo tratto, e, dopo un gomito, più stretta e più ripida ancora, con vaghi accenni di scalini sbrecciati dal tempo e dall’incuria.

 

 

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