Ho concluso il precedente post riguardante l’incubo dell’oscuramento riportando un lungo passo del libro, fino al terz’ultimo rigo della pagina centoquarantaquattro. Alla conclusione del libro mancano trentotto pagine dense di eventi, invenzioni e storia, che mi mettono di fronte a un bivio scotellarianamente distraente. Non so se inoltrarmi – o resistere alla tentazione di inoltrarmi – nell’intreccio di fantasia letteraria e di realtà, che il vissuto di quegli anni indimenticabili, belli e drammatici, propone. La fine del confino di Remigio, la rivolta dei contadini della Rabata e della Saracena, il ritorno di Pietro, divenuto capo del sindacato italiano, il matrimonio di Anna e il suo trasferimento in Puglia, e altro ancora … . Non sono pochi i fatti che ho anticipato, ma molto manca da ricordare di quanto il bel libro di Mario Trufelli ci racconta, col turbinio di fatti episodi indiscrezioni storielle e facezie della via reale che richiamano. Vado a rileggermi Scotellaro; « Ecco che uno si distrae al bivio, si perde. E chi gli dice «Prendo da questa» e chi «Prendi da quest’altra». E uno resta là stordito. Aspetta che le gambe si muovano da sole ». Ho così trovato la strada da imboccare: lascerò raccontare a Trufelli, antologizzando con alcuni post  le trentotto pagine mancanti. Se poi le gambe si muoveranno da sole, questa sarà una pausa.

     Franco Vitelli, nel finale della sua Nota critica, scrive: « Nello studiolo dell’usciere giudiziario, zona franca dove i canonici si riuniscono, risalta in microcosmo l’universo dei preti, scrutati con finezza psicologica e penetrante ironia durante i loro accessi confronti: uno che oscilla tra storia e dottrina …; e gli altri sulla guerra e sulla posizione da tenere nel referendum monarchia/repubblica ». Ecco un suggerimento; e un  altro ne riceverò dopo qualche rigo per il prossimo post.

     All’inizio delle trentotto pagine mancanti risalta un accesso dibattito sulla guerra, che riporto testualmente per il primo post. .

Don Oreste gli metteva intanto tra le mani la lettera del fratello [è la lettera di Guido, di cui al precedente post: ndr]e a mezza voce: «Ti prego, leggila tu, è meglio». Il canonico inforcò gli occhiali: «Quando l’hai ricevura?»  «L’altra sera». «Posso?» «Certo che puoi; non a caso l’ho portata». Don Paolo, per un attimo pieno di disagio, guardò tacque poi cominciò a leggere tra il silenzio di tutti quelle poche frasi che contenevano parole pesanti come macigni. Rilesse lentamente e dopo una breve pausa esplose: «Ma è stato un rovescio spaventoso. Mussolini non se ne rende ancora conto e se la prende con i suoi generali che lo avrebbero mal consigliato». «Hai la febbre alta stasera?» Così lo richiamò don Giacinto che non nascose il disagio per quella dichiarazione fatta a voce alta. «Che cosa vuoi dire?» gli chiese don Paolo con un sorriso acre appena accennato. «Voglio dire che soprattutto noi, qui, non sapremo mai  nulla di tutto ciò che succede a Roma, fuori di Roma e in altre parti del mondo». Sventolando la lettera che aveva appena letto, don Paolo alzò ancora di più il tono della voce: «Ma non ti basta quel che hai appena ascoltato?» I presenti si scrutavano in silenzio finché don Alfonso, con accento commemorativo: «Attendiamo pazienti lo svolgersi degli eventi. È prematuro fare previsioni e non vale la pena accalorarsi tanto».

     In cuor suo l’usciere giudiziario tirò un sospiro di sollievo: aveva temuto per le conseguenze all’esterno di quella discussione cominciata con toni piuttosto accesi. Tolse tutti dall’imbarazzo Fedele Martino. Il professore bussò discretamente, aprì e richiuse la porta con la velocità di un atleta. Quasi cadendo sulla sua sedia allo spigolo della scrivania profetizzò: «Sapete cosa vi dico? Se la  primavera è arrivata con un susseguirsi di cattive notizie,  l’inverno si presenterà freddo, molto più freddo di quanto si possa credere». «È arrivato lo stratega, il cronista di guerra» disse farfugliando don Oreste. E il professore, del tutto contrariato: «Sarà! Ma qualche notizia di prima mano arriva anche a noi direttamente dalla capitale, la caput mundi dove si fa la nostra storia. Sapete cosa mi confidava durante il mio soggiorno romano una persona bene informata? Che l’orologio della storia ha già cominciato a camminare a ritroso».  Don Oreste, serafico, all’usciere giudiziario che con due dita si tormentava i baffi alla Vittorio Emanuele:  «Amico mio, hai sentito? Non c’è più tempo per poter  godere ancora i frutti dell’impresa africana. Scordati le bandierine». E l’altro, sorpreso per il commento così inaspettato dell’amico canonico: «Quelle bandierine sulla carta geografica sono per me un ricordo e stanno bene in quell’angolo; mi sono abituato a vedermele davanti tutti i giorni».  Don Oreste scelse il silenzio, che interruppe con impeto don Paolo: «Ma sono passati più di sei anni da quando segnavate col tricolore le città conquistate, Adua, Addis Abeba, Dire  Daua, intravedo anche Gibuti… Vedete, le bandierine si  sono sbiadite e !’Impero lo stiamo ormai perdendo. Possiamo continuare col ricordo?», Naturalmente, don Paolo non tenne in alcun conto la delusione dell’ospite che si era chiuso in un mutismo così  triste da far sobbalzare sulla sedia don Giacinto: «Ma ognuno è libero di avere ricordi, piacevoli o spiacevoli che siano, ricordi … e speranze». E per qualche istante pensò di abbandonare la compagnia. Provvidenziale, intervenne don Alfonso indicando la porta: «La piazza è qui davanti. Le orecchie indiscrete stanno da tutte le parti. Finiamola stasera con tutte queste discussioni».

     II vecchio usciere giudiziario – che non ricordava più,  tanti erano gli anni che offriva ospitalità ai signori canonici della Cattedrale le sere degli inverni più duri, il mattino d’estate e nei giorni di festa – per la prima volta s’interrogò e si disse: «Mi vogliono mettere proprio nei guai!» Fu tutto quello che riuscì a pensare. Il giorno dopo, all’imbrunire, col sonno dei passeri che avevano pace sugli alberi della piazza, don Giacinto e Fedele Martino stupirono davanti al portoncino dell’ufficietto chiuso. Mai accaduto in tanti anni; mai visto così sigillato con un vistoso catenaccio. Puntuali e abitudinari si presentarono all’appuntamento  serale don Oreste e gli inseparabili fratelli don Paolo e don Alfonso. Insieme cercarono una spiegazione, con gli sguardi più che con parole. Quella serrata inaspettata suscitava qualche dubbio che sciolse il nipote dell’usciere  giudiziario giunto proprio in quel momento. Il nonno, spiegò, era stato costretto a letto da un violento attacco  di gotta aggravatosi durante la notte. E confidò mortificato, o almeno così sembrava: «Non riesce a mettersi neppure una pantofola». 

Don Giacinto, solerte: «Un saluto da parte nostra e digli che si rimettesse presto».

     Il ragazzo con un gruppo di amici si diresse verso la sede del fascio dove gli avanguardisti venivano addestrati alla guerra, con armi in mano caricate a salve. «Ci dispiace, ma non sappiamo proprio cosa fare» sospirò don Oreste. Fedele Martino non rinunciò a fare un commento a modo suo: «L’acido urico … una dolorosa afflizione che ti costringe a letto anche per diversi giorni. La gotta non ha risparmiato grandi uomini della storia … Carlo Magno … Lorenzo dei Medici … », Stava lì lì per citare Giacomo Puccini ma si ricordò in tempo che il musicista aveva il diabete.  Divagazioni all’aria aperta, a bassa voce, anche per nascondere la delusione di un appuntamento mancato.  

     Sui pali dell’illuminazione pubblica si accendevano una dopo l’altra le lampade tinteggiate rigorosamente di blu.  Inutili, potevano pure lasciarle spente; un tizzone acceso  faceva più chiarore al buio. L’alone azzurrognolo creò  ombre indefinibili, quelle dei canonici, che si salutarono con i rintocchi dell’orologio che a quell’ora – le sette di  sera – dilatavano il suono nella piazza quasi deserta. Don Giacinto dette un ultimo sguardo all’ufficietto chiuso col catenaccio: davanti erano seduti sul gradino due uomini che parlottavano. Molto probabilmente reduci  da un passaggio in cantina sembravano essere lì di sentinella. II canonico, fiducioso: «A domani». «Se tutto va bene» disse, ma poco convinto, don Paolo. 

     Il sancta santorum, come lo chiamava con spiritosa allegoria don Armando, riaprì dopo una settimana. L’usciere  giudiziario ricevette i canonici e Fedele Martino avendo  nell’ animo una profonda amarezza. Dal maresciallo dei carabinieri aveva da poco saputo che era morto in Africa  Michele, il figlio del fornaio che per anni, d’inverno, aveva portato quasi tutte le sere nell’ufficietto il braciere coi carboni ardenti. Ognuno si sentì sopraffatto dalla notizia e si chiuse in un  silenzio, che ruppe la voce commossa di don Alfonso: «Che peccato! Era un mio parrocchiano, un bravo giovane. È la terza messa di suffragio che dovrò celebrare nella mia chiesa per questi poveri ragazzi che muoiono in  guerra». Fu preso dalla smania di urlare, ma non gridò; si lasciò però andare a un chiaro giudizio: «Muoiono per imprese assurde, per nulla!». Tacque per quasi tutta la serata. Da fuori, insolente e molesto, arrivava l’abbaiare dei cani  randagi, ormai padroni della piazza.

 

 

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