La seconda parte di uno si distrae al bivio si snoda attraverso le azioni viste da chi le compie. Una passerella di incontri femminili, di tuffi del cuore, sbrigativi, vertiginosi.

     Tutti segnati, perduti in partenza: le passeggiate quasi una dolce promessa al suo «ignoto», sono tenuti dal filo del possibile in una piacevole concatenazione di sensi.

     Ecco come dal vicinato, dal sogno, Ramorra accarezza e vagola da città in città:

Per anni, tutte le sere un sogno d’amore svanito.  Un anno in una città, un altro in un’altra città, Ramorra aveva  impresso in un fotogramma dell’anima tutti i visi, tutte le vesti, tutte le ragazzine che voleva mangiarsi con gli occhi.  E tutte queste ragazzine formavano un piccolo paradiso, dal  quale gli pareva di precipitare inesorabilmente. ( …) E quando ritornava  a casa e guardava sua madre, pensava di tradirla, e se per  caso partiva, faceva tanto che la mamma non lo baciasse.

     Sono incontri timidi, d’una effimerità d’entusiasmo che corrono nell’animo del ragazzo a dare un brivido, uno scossone, avvertirlo che lui è pronto: basta provare, tentare, sollecitare.

     Amori rincorsi, visti, accarezzati in una girandola sempre in movimento, in un ricordo fatto di miele, di promesse. Non è nemmeno estranea la presenza di un complesso edipico; appena presente, ricompare e scompare come un gioco di luce accidentale, nella mente piena di pudore di ragazzino ingenuo: « nel suo grembo, come in quello di mia madre un tempo, viaggiare nei sogni, contento! »

     I ricordi del discolo Ramorra tornano frequenti nella sfera del sesso, sono impazienti, premono l’intenzione di progredire non – come un ragazzino malato – ma nel senso di giusto, nel sano bisogno di agire per la sua efficienza interiore. Ascoltiamo Ramorra impenitente, girovago, carico di eventi:

Di Ramorra non si potrebbe mai completare lo specchietto degli amorucci, incominciati bene e finiti male. Egli si innamorava di tutte. Attaccava discorsetti sentimentali e se il giuoco riusciva, se il suo amore era tutto un  indeterminabile discorso sentimentale, gli bastava, era contento e orgoglioso e non chiedeva di più per guazzare nei sentimenti. ( … ) Ti amo, caro, ma non posso essere tua. Al che Ramorra, sconfitto e umiliato, seppe gridare fortemente a se stesso il rimprovero solenne: che avesse davvero badato lei, dalla pelle colar pera, ai suoi discorsi?

     Donne guardate nella loro grazia argentea, mattinale, ma mai « sue »; incontri di maniera, sentimentali, sempre nella ricerca dell’archetipo ideale.

 II

Ramorra ha chiesto molte volte al cuore d’essere sincero e il cuore gli ha risposto che le belle donne dovrebbero essere  impiccate. Era sera e c’erano canti. Il giovane magro e breve Ramorra usciva di casa ricordando che suo padre aveva tredici anni,  quando già sapeva risuolare e mettere centrelle alle scarpe  dei mietitori. – Dì, moccioso, dove si può trovare una donna? – gli chiese in confidenza un mietitore. – E caspita! Guarda quante in giro! – rispose attratto il papà di Ramorra.

– Ma non di quelle che vanno in giro, né di quelle che  ricevono a casa, ma così, una donna bellina, amabile, affettuosa e niente altro, la sera dopo il lavoro. Una donna come quelle canzoni ce n’è al tuo paese? Dì, moccioso.

Quel giorno tanto sole c’era che non si distinguevano bene  le cose. Il padre di Ramorra, a tredici anni, tacque, si scalfì un dito perché picchiò forte sulla suola e non richiese denaro per le centrelle al mietitore.

Sera di giugno, questa, che inganna i più ostinati a fare i poeti o gli amanti scottati. Quei poeti che stanno di guardia sulla loro terrazza; come quercie antiche, per bearsi d’una  apparizione. Sera di giugno per Ramorra che scrive: Appare la luna / dal pizzo del monte / pian piano, silente. / Nuvole bianche di scorta. / L’alberello di contro / che sta per piccola eclissi. / Piccola luna che vedi? / Pupazzi, antenne luci spente della città / che tenta un agguato per te. Fuggi. / E la testa di quella moneta d’argento aggrottando le ciglia così, si lascia vedere soltanto / in un balcone di due ingenui amanti Luna / Luna / Luna Chiaro di luna / spicchio, falce di luna / se  te ne andassi in quella taverna / dove due donne ammazzano  un uomo!

« Voglio amare una ragazza », si disse Ramorra, e si lanciò nel corso, dov’era passeggio animato, come uno spadaccino. Le ragazze, dai dodici anni, facevano massima presa su di lui, quelle che erano acerbe ancora, con le gambette ben  bene ritoccate, scoperte, quelle che si sarebbero lasciate baciare senza rimorsi, che gli avrebbero scritto letterine di Natale. Ma ce n’erano che avevano ormai una personalità, facevano smorfie di sprezzo e andavano oltre dondolando la testa, rilasciati i capelli o cantando e fischiando.

Un gruppetto di ragazze è temibile, evitabile, faceva Ramorra, e forse arrossiva o ripeteva la sua poesiola sull’adolescente. Due ragazze fanno arrossire. Ma bene. Il problema era questo: seguire una ragazzina sola, non importa se aveva le gambette sporche alle caviglie, bisognava evitare lo sguardo degli amici, essere disinvolto, con una sigaretta in bocca, e poi badare che lei imboccasse un vicolo cieco. Bene! Lo im bocca! Ci siamo! E Ramorra subito all’opera: – Signorina se voi volete, io posso in un momento dimenticare i torti che m’ha fatto la vita e sorridere e dire:  Io credo alla vita signorina! Se voi volete, questa notte aspetto  tramontare la luna; aspetto il gallo cantare, faccio una visitina ai miei morti in camposanto. E’ triste! Un portone si chiuse su uno scroscio di risate. Non è cosa – si disse Ramorra – così, quando avrò  abbordato tutte le più sporche ragazzine, Cecilia, Stella, Cristina, Lilli, avrò rovinata la mia piazza. E ancora una volta Ramorra volle essere superiore.

Il tempo, vecchio maliardo, gettava pietruzze alla campanella dell’orologio, lì nell’angolo d’un palazzo monumentale.  Sotto e sopra per il corso c’era gente, ma Ramorra preferì  la compagnia d’un albero. L’albero ha un’anima. Dimena trasognato, solenne, i suoi  rami flessibili al vento che ha la voce dell’amico alla porta  che aspetta; dice il vento parole segrete che Ramorra non può  tradire. E poi ecco: il rombo come di conchiglia leggera dell’aereo notturno, nella festa delle luci del cielo, che passa come stella cadente senza scia, piano. Il cane che ritorna al suo posto a cuccia tra la polvere  e pezzi di carta che gli frullano intorno.

Ramorra si figurò l’ombra cara d’un giovane malato, come lui, di niente. Era la stessa sua ombra che iltempo gli  portava. Per anni, tutte le sere un sogno d’amore svanito.  Un anno in una città, un altro in un’altra città, Ramorra aveva  impresso in un fotogramma dell’anima tutti i visi, tutte le vesti, tutte le ragazzine che voleva mangiarsi con gli occhi.  E tutte queste ragazzine formavano un piccolo paradiso, dal  quale gli pareva di precipitare inesorabilmente. Ramorra pensò a qualche amoruccio. Gli fu facile le prime volte. Nel vicinato giocava a marito e moglie con molte bambine che se lo litigavano, a quattordici anni si fidanzò  con una ragazza lontana da casa sua e l’amore era un’altra  cosa con questa. Se la sbaciucchiava sul collo, sulle orecchie  e sui denti, ma non l’amò a dovere. La ragazza, tra l’altro,  era sempre puntuale e venne che Ramorra la cercava solo se ne aveva bisogno e se n’era stufato. E quando ritornava  a casa e guardava sua madre, pensava di tradirla, e se per  caso partiva, faceva tanto che la mamma non lo baciasse.

Ramorra ricorda le donne, pompose nella veste corta, con  ciuffi di capelli, delle città. E le borse a tracolla e tutti gli  ingredienti di moda. Quella regolarità di vestire dava la nausea, le donne belle erano pur sempre belle. Quando passeggiavano per la città erano apparizioni e tutti rimiravano. Esse  non degnavano d’uno sguardo. La bellezza, si diceva, è sempre  altera e impenetrabile. Quando sedevano davanti ai caffè con  le gambe accavallate e quel nudo gonfiava le vene dei passanti.  E anche Ramorra nella mischia di coloro che andavano a vedere le gambe. Quando le vedeva con l’ufficiale, finalmente ardere di desiderio anch’esse…

Quando erano sole, veniva in Ramorra un folletto a dire  per la donna: . – Guardati, sei tutta carne, solo carne! Io ti  vedo il corpo, non vedo te, di te me ne infischio. Ti guardo  la linea e la polpa. E io sono un animale come tutti gli altri: voglio mangiarti tutta e avvicinarti e saltarti sopra. Poi un folletto più mansueto consigliava Ramorra di compiere uno scempio o tirare un pizzicotto soltanto. E Ramorra a vederlo chinava la testa come ogni passante.  Era inutile inferocire contro la scorza dell’albero.

     Volle seguire un’altra ragazzetta; e questa: – Ma non mi ci metto! Ma non mi ci metto! Staseraè freddo, ritorno a casa. – Ma domani! – Ramorra pregava. – Neppure. Io non mi ci metto, io non mi ci metto –  e se ne scappava.

Egli ancora vagava per le strade deserte, origliava se venisse dal fondo uno zoccolio di donnetta. Poi, tornava all’albero della piazza che dava sulla campagna. Qui la festa dei  grilli indisturbata. La campagna era tutta un desiderio. Ramorra non ne poteva più, poteva mai bastargli di bersi dell’aria fresca? E lasciava dietro di se la campagna con i grilli  a trillare inutilmente.

     Il tempo nostalgico continuò anche l’indomani. Scrisse canti di arrivi e di partenze! Scrisse che aveva l’anima sfilacciata a brandelli per tutti i luoghi più solitari, che andava rincorrendo fanciulle lontane per le strade di tutti  i paesi.

      La prima volta a Trento. Di questi tempi, in ottobre, le  vigne, come in sensuale contatto con la mano dell’uomo, si  facevano spogliare. Un sole moribondo, senza raggi, correva  verso ponente tra le nubi. Dal paese di Ramorra a Trento son mille chilometri quasi,  il viaggio fu lungo. Appena dopo Verona, dove il cielo era  già bigio e basso, il treno entrò nei monti. Fu come entrare  da un pelasgico portone e il treno immettersi in una galleria  senza fine e Ramorra solo vivere l’ansia di un giorno di sole. Dal paese a Trento son mille chilometri circa: la distanza  di un giorno di autunno da un giorno di estate. E Ramorra  ricordava il suo paese come un giorno di estate col sole abbagliante e con bivacchi di mietitori. Ancora monti con membra poderose. Ramorra ebbe stupore di trovarsi in luoghi così estranei.

Era notte. Nei vagoni c’era un accento gentile e premuroso, i modi delle persone erano nuovi per lui e non ostentati,  sentiti. Ebbe stupore Ramorra di trovarsi in piena aristocrazia. Ritornando dal settentrione i meridionali dicono d’avere  avuto a che fare con persone civili. Ramorra non sapeva perché si sentiva umile in mezzo a quella gente: uno scalzacane  che ci teneva a mostrare le pezze dei pantaloni. Una signorina gli stava attenta. Aveva i capelli divisi in  due lunghe e robuste trecce. Gli faceva tanta accoglienza con  delle belle parole a fior di labbra, che, a pronunciarle, i meridionali l’apparecchiano prima del pensiero. Ramorra se n’era  innamorato e quando s’accorse del suo stupore per lei, capì  che veramente, come gli dicevano gli amici, ci si può innamorare dagli occhi, dal sorriso, dalla veste, dal parlare, dal  modo di porsi a lavare. Si era innamorato dal parlare. Gli  aveva additato dal finestrino un largo fiume, senti con quanta  sicurezza gli disse che si trattava del Po. Scese, prima di lui. Assicurando che sarebbe un giorno andata a trovarlo a Trento. Lo lasciò triste e lei, con quello stesso sorriso di prima, gli offri la mano. Si convinse più  tardi, per quell’episodio, che in città le conoscenze duravano  quanto le interviste, brevi e compendiose. Si dice di se stessi,  quelli del Sud, nome, cognome, età e professione, delle loro  terre, delle loro case, poi l’intervista scorre con l’ultimo sorso d’un bicchierino.

Quelli del Sud poi si sentono soli, cantano per le strade  le canzoni dialettali, ma con un nodo alla gola, scrivono alla  famiglia e si sentono finiti, come la donna di marito da loro, che uno la lascia, l’altro la prende, nessuna la sposa. Il paese lontano è questo, dove nessuno ti conosce, dove  puoi essere figlio d’una bestia e non di quella mamma tanto buona e tanto triste. Qui vide che gli si spezzava l’anima a brandelli, mentre  cercava tra le case quadre ed alte e pulite la pietra aguzza  della parete del vicolo al paese, o il suo albero di fico cercava  là nel suburbio, popolato di rumori di officina, di donne un  po’ dimesse, di chioschi solitari.

Ramorra ritornava al suburbio più spesso che non poteva,  per farsi amica qualche pietra della strada sempre allo stesso  posto; oppure si vedeva con una panchina dei giardini fuori  mano e guardava il sole che splendeva e che nel con tempo disegnava al balcone di casa sua un triangolino bianco, di  seta. E c’era pure qualche vecchio a fianco a lui, che parlava col sole, che rifaceva la storia della sua giovinezza e del suo  primo amore e c’era una vecchia che cuciva. I ragazzi gli passavano davanti. Ramorra cercava di avvistare tra quelli il Pietro del suo paese, il malandrino che vuoI vincere sempre lui. Qui, in fondo, trovava un po’ di suo, anche se quei monelli non  lo chiamavano col nome e quei vecchietti non gli davano gomitate perché andasse a prendere loro un bicchier d’acqua  o non gli allacciavano le scarpe, come, da bimbo, i suoi nonni  che morirono. Fatta qualche necessaria conoscenza, Ramorra ebbe ancor più sgomento che l’uomo in città avesse, indispensabilmente, una via, un numero, un piano e che tutta la città non  gli appartenesse da una piazza all’altra.

Frequentò il centro, tutti i fatti loro sul loro marciapiede,  niente schiamazzo niente allegria pubblica. Come nelle chiese  e nelle aule, come i frati e le suore dei conventi, povera gente!  ebbe quasi paura Ramorra. Sulla sua strada, sul suo marciapiedi, alle solite ore, quell’impiegato, quella sartina, quel prete. Inconttarsi ogni giorno  alla stessa ora, passarsi di fianco fissarsi l’un dell’altro i lineamenti, senza potersi abbracciare come fratelli e gridare: Noi siamo fratelli!

Fu questo il primo lungo viaggio di Ramorra tra gli uomini diversi da lui di cuore, sì di cuore, che non si abbracciavano come fratelli e non si dicevano parolacce per affetto. La solitudine tira a Ramorra e ad altri molti scherzi. Ci  spreme, si spreme che noi ci troviamo nel tempo fino al primo  giorno della nostra conoscenza. E Ramorra altro non vuole,  per raccontarsi. Ma mi fa osservare che finora mi son messo un bacucco e che debbo essere più triste per l’avvenire del  racconto. Meglio era dire allora che la luna sorgeva come una lampada accesa sui capelli sciolti di una bella fanciulla.

Potere amare una fanciulla cui dire: Per te domani mi  possa morire mia madre. Farmi scompigliare dalle sue mani i radi capelli, amorevolmente. Nel suo grembo, come in quello di mia madre un tempo, viaggiare nei sogni, contento! Ramorra che era cresciuto come un giglio, aveva pochi  amori da ricordare. Ma la sua passione gli rigurgitava alla  vista di un portone oscuro e cercava la donna nel buio come uno spettro affascinante. Talvolta pensava che vi dovevano  essere delle donne, pazze, come lui, di un amore al buio e  faceva su di esse le più strane congetture. Donne così non s’incontrano che nel letto, in dormiveglia, Ramorra pensò. Una sera, infatti, tornava dalla caccia per i vicoletti di donne perdute, ubriaco insoddisfatto. Un albero ed a fianco una pompa di benzina se li vedeva  davanti come due innamorati che s’abbracciavano.

Ma fu così che una sera, in una città del Settentrione, con tutto l’ardire che poteva, guizzava dove la strada era vuota e una donnicciuola aveva il passo grave da guardia urbana. Più volte le girò attorno, l’altra non era allarmata, né si mostrava curiosa. Poi un ometto anziano le fu accanto.  Si era al principio di una stradetta che portava all’ingresso  del loggione del teatro. La donna ringraziò l’ometto anziano che scomparve. Dunque aspettava qualcuno, Ramorra si disse. Le fu vicino ed esordì con querimonie: – Buona sera, signorina, buona sera.  Sono tanto solo anch’io. Per dire che la vita è ingiusta per  me, dovrei piuttosto accusare la crudeltà delle donne. Ne incontro due per la via e ridacchiano e si baciano ed io faccio:  «Si, si, mi piace» e loro ridono forte e commentano «Mica è guardia civica, quel Tizio», indicandomi a dito. La donna rise e fece un cenno di commiserazione. Doveva  la donna commiserare se stessa, Ramorra e la porta del loggione. Poi Ramorra chiese, la donna rispose; ella proseguì  che l’amica non le sarebbe stata puntuale se dovevano essere  passate le dieci. Ramorra stiracchiò il braccio mostrando galantemente  l’orologio ed accese un cerino: non era né bella, né brutta,  piccola e bassa. Egli non fece illanguidire il discorso, si prestò  ad accompagnarla; le dette la destra e le girò intorno. L’altra  stringeva sotto il braccio sinistro una borsetta nera: non era né bella, né brutta, piccola e bassa ed aveva venti anni, come  disse. – Solo venticinque giorni più di me – commentava Ramorra galante che aveva tre anni di meno. Ormai non passava  nessuno: c’era una scialba luna tra nubi di cenere sporca. – La mia casa è lì, dietro quell’antica muraglia – profferì tristemente la donna. Ramorra si sentì per la prima volta superbo, e volle accompagnarla fino al sozzo portone ingombro di carri, l’altra si rifece e domandò 1’ora e disse di essere disposta a fare ancora un giretto. Rarnorra dopo alcune schermaglie, le passò la mano sotto il braccio: – E’ meglio vada  così! – disse con una voce apparecchiata. La donna sorrise, poi parlò dei suoi vivi e dei suoi morti, tra cui un fratello di ventidue anni. Aveva mangiato polenta  con pane, aveva fatta pulizia in cucina, lavati ed asciugati  i piatti, sua madre si sentiva debole. Era uscita ad aspettare l’amica: – Si doveva andare a cine insieme! – disse con amarezza. Passarono il ponte di un torrentello. Decisero di sedere sulla panchina. Nessuno passava. – Possiamo darci un bacetto – e la donna l’accolse un po’ fredda. Se ne dettero ancora. Era freddo e s’avvicinava Natale. Fu fissato un appuntamento a domenica. Si scambiarono  «grazie e prego» della reciproca compagnia. Ramorra tornò  a casa con lo sguardo alto alle montagne con la neve, bianche  sotto un velo di nube.

Venne domenica. La mattina egli non era uscito per non  incontrarla. Ed anche lei aveva voluto che l’appuntamento  fosse di sera: doveva già essere buio. Lei lo avrebbe riconosciuto dall’impermeabile chiaro, e lui? Oh! lui l’avrebbe subito riconosciuta: – Ecco, disse Ramorra – mi siete passata  davanti senza riconoscermi. – Oh – l’altra lamentò. Rina si chiamava. Si, Rina era  un bel nome. – Adesso non posso, ho da mangiare un po’,  lavare ed asciugare i piatti, far pulizia alla cucina e la mamma  è debole ancora. – Facciamo alle otto e mezza, va bene? – Intanto voi potete vedere un film, poi passeggeremo come l’altra volta, non importa andare insieme a cine. Ramorra disse sì e le disse parole «Ciao, arrivederci, buona  sera, a più tardi, ciao, arrivederci, buon appetito» tutte di  seguito, d’un fiato. Girò nel passeggio: lo riconobbero alcune di quelle ragazzine ch’egli sempre adocchiava, anzi era la Teresa questa, quella tale Teresa d’un anno addietro, una delle prime conoscenze. E perché non aveva nulla da ricordare Ramorra delle sue  relazioni amorose? Ecco qui: Teresa per esempio, Teresa la muta, prima delle scuole elementari, ora commessa di lavanderia: – Oh! lo sto bene. Sempre la stessa piuttosto! Guadagno anche adesso, alla lavanderia!

Era sommessa e buona, come sempre, in compenso parlava. Parlava di sé e s’accalorava. Diceva che guadagnava parecchio. _ Sempre lo stesso anch’io non trovate? – Distrattamente si riprese il giovane – Vedo che avete un soprabito  chiaro, io un impermeabile. Siamo cambiati ai vestiti. Lei non fece cenno, lo guardava e lui diventava comunicativo: _ Rammenti? – ricominciò Ramorra – iJ. tuo soprabito stinto, il mio cappotto largo lungo scuro, un po’ scucito .. ?  Era di seconda mano, pensò tra sé. E quelle sere alla giostra?  Che la tua amica ti incoraggiava a parlare e tu neanche si e no rispondevi? Una sera fummo soli finalmente, girammo  per tutti i giardini, sul sedile ti inoltrai la mano nei capelli  e non parlavi. Come una cosa della notte mi sembravi, sentivo solo il tuo respiro. Mi mandasti una busta sfatta e poche parole scritte che mi dicevi di sl. Ci vedemmo, sempre ci vedemmo, e non parlavi finché mi stancasti.

Ramorra si riprende in tempo per chiedere scherzosamente: _ Non t’aspetta nessuno?

_ Chi vuoi che mi aspetti! _ Sarei tanto orgoglioso di vederti fidanzata con qualcuno _ disse Ramorra e non capiva il senso delle parole. La accompagnò fino a casa. Dopo poco, mentre correva all’appuntamento galante, allo stesso posto dove si era congedato da lei, la rivide, rivide Teresa, muta ad ascoltare la dichiarazione d’amore d’un giovane, come una pecora che comprende la sua terra che bruca.  Teresa la muta! E brava! era ridiscesa nella strada.

 Era già passata l’ora dell’appuntamento: la ragazza dei piatti ancora non veniva. E quando venne ella si lamentò. Le dispiaceva sempre, far aspettare: – Questa sera si va per lo stradone. Lo stradone  che porta a Venezia, di là additò la luna, Venezia, nella sua fantasia, doveva essere sotto la luna. Ritornarono. Non c’era un sedile dove potersi abbracciare, come la sera precedente. Passarono davanti ad una Chiesa e si fermarono: il giovane le prese la faccia tra le mani e  le chiese cosa avesse. Niente aveva, sembrava stanca. Andarono al sedile nel viale sul torrenteJlo. Si sedettero annoiati;  non sapevano cosa dirsi. Ma Ramorra si fece coraggio e spiegò  che era inutile e monotona la loro compagnia, se consisteva  soltanto nel dirsi i dolori l’un l’altro. Loro erano maschio e femmina. Potevano almeno un istante dimenticare. Faceva  freddo, potevano farsi caldo, materialmente: – No? _ chiese  Ramorra e le sussurrò a lungo.

L’acqua del torrentello ebbe un fragore che non si avvertiva più a cento passi. Lei era fatta contenta sulla via del ritorno  e cominciò a parlare di piccole cose con lena, ma Ramorra  era abbattuto e vuoto, perché niente gli bastava per colmarlo.  Non era valsa del tutto la pena. Si dettero la mano. Ramorra  prese il portafogli e l’altra con più lena: Mannò per amicizia  soltanto. Vi prego. E grazie della compagnia! – e scomparve  tra i carri saltellando. Non si videro più. Il giovane non seppe spiegarsi perché  mai non le avesse detto il proprio nome, per farsi ricordare.

Non era valsa la pena. Voleva capire il mondo dell’amore  in quelli che amano veramente e subito si ricordava che una  sera, capitato alla stazione, aveva goduto una scena, che lui  credeva potesse solo essere scritta sui libri, di due giovani  innamorati. Stette sul marciapiedi a guardare il treno già composto,  si faceva silenzio sui vagoni che erano scuri. Qualche parente  s’allontanava in fretta per il sottopassaggio.

Un giovane era rimasto e contemplava al finestrino la  fidanzata nascosta nell’ombra. D’un tratto si sente la voce  della ragazza, implorava: «scrivimi, scrivimi spesso», singhiozzava, chiedeva la mano del giovane e gliela baciava sul  dorso. Lui le raccomandava la calma, ma lei niente: con crescente singhiozzo usciva nelle più belle frasi d’affetto che  di solito si recitano sottovoce. Il vagone ha il primo scatto e lei che si sporge tutta e  lui corre, tentano di toccarsi le dita; lui si caccia il fazzoletto  e salutare, e il fischio del treno strilla e lei ancor più. Al  giovane fermo e pensoso passa davanti l’ultimo vagone fracassando e chi sa nella notte quante volte si sognò la fidanzata,  quei gesti, quelle parole. L’amore era culto fino al ridicolo, in taluni.

Rarnorra ricorda un uomo, che al telefono pubblico  – veniva gente al caffè ed altri attendevano all’apparecchio  che si spicciasse – piangeva: – Mia cara, non vengo, a casa  tua non sono gradito. Non insistere, cara, non posso, non  posso. E piangeva davvero. Qualche ora dopo arrivava la donna e piangevano tutti e due presso al tavolino con sopra le  tazze del caffè, perché si dovevano disgraziatamente separare. Un amore come quello, col pianto, voleva Rarnorra ed  infatti: una sera, con una canzone in voga, in autunno, sotto  i portici, dove fuma la caldaia delle castagne arrosto e il lucicchìo .del fuoco va sul volto rosso della ragazza che smercia  e che Ramorra conosce; suonano il violino in un bar con luce  gialla; passano donne sole e uomini soli che si bramano; il cinema sfolla gente più melanconica; ai casini i soldati sono  pensierosi; alla giostra nessuno spara al bersaglio; su tutta la città l’alta montagna: una di queste sere Ramorra vide Iole.

Fecero all’amore come i bambini per qualche mese. Ramorra l’aspettava quando usciva dalla modisteria: portava un  berrettino a pizzo; quando la baciò, teneva le labbra scorticate  dal raffreddore. Alle sette, l’ora in cui si vedevano, non gli  disse mai «ti voglio bene», ma lo baciava con tenacia. Tentava di far lite ed anche lei ci stava: – me ne vado! –  fingeva Ramorra, lei taceva in cagnesco. In quei momenti Ramorra si sentiva fresco e leggero. Correva ad abbracciarla,  lei restava scontrosa e poi gli bussava col gomito. La domenica andava sempre a cinema ai terzi posti con  la mamma. Si videro tutto l’inverno; stavano seduti sulle panchine piene di neve. Il padre dovette accorgersene; venne a prenderla lui alla modisteria e così Ramorra non la vide più.  Ramorra ne pianse. L’era rimasta nell’anima. E ora, a pensarla, gli si strappava qualcosa dentro.

Con Ramorra lontano lei dove passava la mezz’ora di libera uscita dopo le sette? Era mai più ritornata a quelle panchine dove tutto era bianco nella neve e in due non sentivano  freddo? Stavano seduti proprio sulla neve. Ramorra, che ama gli strascichi, ricorda che lole era com-  pagna di Teresa e che insieme parecchie sere esse riandavano  a bussare alla porta e poi scappavano giù per le scale. A Trento una sera Ramorra fece in tempo ad aprire e le vide li,  tutte e due: – abbiamo sbagliato – disse Iole. – E’ il destino – determinò Ramorra. Entrate. Le ricevette nella cucina e disse loro: aspettate. Andò in salotto a cambiarsi le calzette, che erano bucate  e usci, la prima volta in vita sua, in mezzo a due signorine  che, come tali, erano bellissime.

Di Ramorra non si potrebbe mai completare lo specchietto degli amorucci, incominciati bene e finiti male. Egli si innamorava di tutte. Attaccava discorsetti sentimentali e se il giuoco riusciva, se il suo amore era tutto un  indeterminabile discorso sentimentale, gli bastava, era contento e orgoglioso e non chiedeva di più per guazzare nei sentimenti. Una, bionda con le trecce, la pelle colar pera, faceva con  Ramorra anche lei la malata sul palcoscenico. Disse un’intera serata di sì a Ramorra che toccava tutti i tasti delle sue cantilene d’amore. Ramorra se ne aspettava il premio; si dovevano  vedere, dovevano continuare, ma lei, aveva l’immancabile fazzolettino in mano, disse col tono solito la frase fatale dei romanzetti: – Ti amo, caro, ma non posso essere tua. Al che Ramorra, sconfitto e umiliato, seppe gridare fortemente a se stesso il rimprovero solenne: che avesse davvero badato lei, dalla pelle colar pera, ai suoi discorsi? Ella aveva badato che Ramorra era tre dita più basso  di lei, aveva badato alle sue gambe fini, ai suoi polsi ridotti  ai nervi, al suo petto pulito, alle scapole fuori.

Quando verso amanti più umili di lui apparve vittorioso,  la partita era meglio non averla giocata. Allora è tradire l’umanità quando l’amore si nega a chi lo chiede. E Ramorra tradì  l’umanità, commise il suo ultimo peccato mortale quella sera  che accese la luce nella vettura del treno. Una donna, appena  intravista in un cantuccio sotto il finestrino, tremò, egli smorzò la luce e si mise a sedere. Era certamente disinvolto  per quella donna nell’oscurità che doveva essere più infelice di lui. Non pensava dapprima alla donna, di cui le scarpine bianche e le gambe nude si distinguevano nell’oscurità e che per  il resto pareva un pupazzo, un ammasso di cenci.

Ramorra aveva girato in lungo tutti i vagoni in cerca di  compagnia. E vedeva le donne appoggiate fiducia se ai loro  uomini, i giovanetti stringevano le mani alle ragazze e un vecchietto e una vecchia si facevano segno con le mani. Sotto  la luce azzurrata tutto era intimo: gli stessi sedili e le porte, i finestrini, le reti, i poggioli erano suppellettili amiche,  e come quelli domestici, dei viaggiatori che persino avrebbero  acceso del fuoco nelle vetture per riscaldarsi come al focolare,  in quella fresca notte di primo inverno. Ramorra passava nei  corridoi e guardava; passava come davanti le case degli altri  e n’era angustiato: avrebbe voluto il suo cantuccio anche lui  e la sua donna. Quella intimità degli altri era così allettante.  E gli innamorati? Si cantavano nenie nelle orecchie dondolandosi. E le comitive dei soldati e dei coscritti cantavano  e battevano pugni e piedi per fare armonia.

Ora, al buio, con la donna che poteva palpitare anche  lei, Ramorra si sentiva meglio. Accese una sigaretta sempre  dal suo posto. Cercò di vedere meglio la donna. Forse la donna, a quell’ora di notte, sola, ma!, forse voleva dormire e  lui che cercava qualcuno per fare del vagone una piccola casa.  Andò al sedile sotto al finestrino in modo che la donna gli  fosse dirimpetto. Fece molto sforzo per cambiare posizione.  Poi fu più sicuro di se, non ci si stava meglio che in due.  Domandò, gli fu risposto. Era donna che veniva via dalla città,  dove praticava una cura per i denti. Subito un po’ di ribrezzo  invase Ramorra: i denti! Signorina, sì, ma con i denti… offrì  una sigaretta. Era lieto che l’accettò; lei fumava, molto. Lui  assicurò che ancora ne avrebbero fumate di quelle buone. Le sue battute le disse a fil di voce e le pause quasi lo sotterravano. Se qualche luce dai binari adiacenti veniva, scrutava: lei sempre nell’ombra fitta. E’ quell’ombra aizzò l’istinto di  Ramorra. Le fu accanto, le toccò le gambe. Le gambe erano  liscie come scaglie, con peli radi radi e la carne floscia.

Una donna patita è donna, nell’ombra. Donna che poteva  essere madre. Donna che alle prime schermaglie di un giovinetto sentiva il sangue salire per un’effimera ebollizione. Tentata da un giovinetto gentile che offriva sigarette fino all’arrivo. Donna che non si dava, e lo disse subito, per non tradire,  può darsi, una offerta con un’altra. Ma forse era semplicemente la signorina anziana che rinnova ad ogni messa il suo  voto. Aveva il difetto di accettare sigarette da un giovane.  Così diceva di no e doveva ripugnare se stessa, vecchia, col  marcio in bocca. Tacquero poi, lei in un cantuccio e Ramorra  nell’altro, separati dal poggiolo. Si arrivò che si doveva scendere. La donna accese la lampada, raccolse i suoi fagotti guardò triste. Chiese se anche Ramorra scendeva. Vigliacco! Egli  finse di dormire e quella se ne andò sconsolata.

Aveva tentato una vecchia signorina dai denti guasti, aveva assaggiato la carne floscia con le dita, l’aveva rifiutata. E bravo Ramorra! Sa fare anche il cattivo! Anche verso la donnetta fu cattivo. La donnetta, dappoco  maritata, s’era proprio ridotta male. – Mi sento male per tutta – gemeva verso il marito. Il marito innervosito correva al lavoro di mattina,  al buio.

Non le diceva: «sta meglio» ma «mi raccomando quei  broccoli per oggi!» e la donnetta nella camera che vide le nozze, passava il suo tempo a piangere. Ramorra quando la  vide per caso se ne fece subito il ritratto: con quella sua testa  piccola la donnetta che non aveva mai capito quel contare  del marito sul libretto di lavoro. L’aveva vista scopare la casa,  abbellita nella polvere col sole. Quella donnetta chiese a Ramorra un po’ di amore mentre  stava per essere madre ma Ramorra, puntuale, aveva rifiutato.

Con ciò? Ramorra ha chiesto mille volte al cuore di essere  sincero e il cuore gli ha risposto che le donne belle debbono essere impiccate ed arse.

 

 

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