Nell’antologia di Quando i galli si davano voce, che vado scrivendo su questo blog, ho volutamente lasciato un grosso buco, avendo del tutto ignorato quel «personaggio riuscitissimo» del Vescovo – che nella realtà era mons. Raffaello De Nocche -, a cui Trufelli dedica decine di pagine. Scrive Franco Vitelli che «Trufelli lo ritrae nelle sue collaudate capacità di rapporto con le Istituzioni e il potere, mimandone finanche il linguaggio curiale, ora solenne ora insinuante, che ce lo fa sentire vivo e operante in mezzi a noi». Io ho provato venerazione per mons. De Nocche, ho conosciuto da vicino – per ripetere le parole di Vitelli – le sue capacità di rapporto con le Istituzioni e il potere, di lui conservo un vivo ricordo, e non voglio correre il rischio di sostituire la mia ricostruzione del personaggio a quella fatta da Trufelli.
     Il prof Fedele Martino svolge un importante ruolo, di cui comprendo la funzione che assolve nell’ordito del racconto, quale voce di contrasto col suo “clericale” laicismo. L’ossimoro vuol significare che non provo simpatia per il personaggio che porta il mio stesso nome, abita nella casa che in quella stesso periodo abitavo io, era casa mia, ed è così diverso da me. Certamente laico, colto e antifascista – come colto, antifascista e uomo di fede laico è don Armando -, il laicismo “clericale” del prof. Martino è l’ingrediente che unisce l’affiatatissima coppia. Con l’ossimoro intendo esprimere il concetto che il prof. Martino non solo assume atteggiamenti dichiaratamente autonomi rispetto a confessioni religiose e a gerarchie ecclesiastiche, ma impone a chiunque i suoi pregiudizi culturali e laici. Guarda il prossimo dall’alto in basso e fa uno sfoggio di erudizione che rischia di essere saccente. Credo che egli non sia simpatico neanche a Trufelli, se infine lo ridicolizza con una fine stoccata. Accade quando la gotta immobilizza don Gaetano, l’usciere giudiziario – o don Gaetano finge una gotta che lo immobilizza -. Sentite cosa scrive Trufelli, e come si diverte a stecchire il professore:

«Fedele Martino non rinunciò a fare un commento a modo suo: «L’acido urico … una dolorosa afflizione che ti costringe a letto anche per diversi giorni. La gotta non ha risparmiato grandi uomini della storia … Carlo Magno … Lorenzo dei Medici … ». Stava lì lì per citare Giacomo Puccini ma si ricordò in tempo che il musicista aveva il diabete» . 

     Nelle ultime pagine del libro la figura del Vescovo torna ad essere nitidamente delineata in due occasioni,  che non fanno correre il rischio a cui accennavo prima e posso lasciar raccontare dalla penna di Trufelli.

     La prima occasione è data dalla celebrazione, officiata da don Alfonso, della messa solenne, nella cattedrale, per Michele Leonetti, il figlio del fornaio che nel sancta santorum dell’ufficio di don Gaetano portava i carboni accesi per alimentare il braciere, morto in guerra, e non il primo.

     In prima fila, a destra, sedevano la madre, il padre e i due fratelli minori del povero Michele; a sinistra sedevano il podestà, vestito più che mai di nero, il segretario del fascio con il comandante  della milizia, entrambi in divisa e delirio di mostrine e  medaglie.

« All’omelia don Alfonso commentò dal vangelo la morte e la resurrezione di Lazzaro. Fece qualche allusione a chi  muore incolpevole per mano dell’uomo, per vendetta o  per potere di conquista: «Michele non è con noi, il suo corpo riposa in terra straniera; e dunque il suffragio è solo per la parte più segreta e più libera di lui, che condannava la violenza».

La messa proseguì e alla Consacrazione, il momento mistico e misterioso del rito, il segretario del fascio e il capo della milizia si alzarono di scatto – il celebrante aveva appena annunciato il mistero della fede- attraversarono tutta la navata centrale tra una folla di fedeli in ginocchio e uscirono indispettiti dalla chiesa. Il vescovo che aveva seguito la scena dall’altare, a messa finita, sotto voce a don  Alfonso:
«Quei due che stavano lì davanti vicino al podestà, – sapeva chi erano ma preferì non nominarli – vi avranno di sicuro definito un disfattista.
Don Alfonso, con un po’ d’ironia: 
«È una cosa grave?”
Il vescovo, celiando:
«Vi potrebbero anche ammonire». 
«Ma potrei continuare a dir messa?»
«Ma cerro, e soprattutto a fare prediche così chiare come quella di oggi».
«Grazie, eccellenza, spero solo di aver dato un po’ di conforto ai familiari del povero Michele».
Don Paolo, che aveva ascoltato la breve conversazione, in  disparte, al fratello, appena il presule si allontanò:
«Ho capito bene? Oggi monsignore si è dichiarato?» 
«Hai capito bene; e lui, il vescovo intendo, ha capito che siamo arrivati al punto del non ritorno, all’agonia».

      La seconda occasione si presenta nel corso di una delle tante discussioni sull’imminente voto del 2 giugno 1946 per l’elezione dell’Assemblea costituente e la scelta istituzionale tra monarchia e repubblica.

Si levò appena la voce di don Oreste:
«Caro Gaetano – quello era il nome dell’usciere e don  Oreste era l’unico nella compagnia che lo chiamava per  nome e gli dava, si davano del tu – una volta la pensavo  come te, mi sentivo anch’io suddito fedele come quasi  tutti gli italiani. Ma poi è arrivata l’immane tragedia e  non riesco a trovare un solo motivo che possa giustificare tutto il male che è stato fatto, anche per colpa del re,  all’Italia, al popolo italiano».
«E naturalmente anche a noi. Stiamo contando in paese i nostri morti, i nostri invalidi, i nostri dispersi in guerra.  E non è finita» esclamò don Paolo.
Non attese commenti e si pronunciò deciso: «Sapete che vi dico? Io voterò per la repubblica. Noi preti non abbiamo ricevuto ordini da nessuno. Un buon segno, questo significa che possiamo decidere in piena libertà di coscienza»,
Domanda insidiosa di Fedele Martino:
«Don Paolo, apprezzo il tuo pronunciamento, chiamiamolo così, ma il Vescovo secondo te alla sua veneranda  età vissuta tutta sotto l’ombrello dei Savoia, come pensi  che si comporterà nella cabina elettorale?»
Non poté fare a meno di intervenire don Armando:
«Il Vescovo è una persona che ha vivo il senso della storia  e della politica. Io credo che non darà il proprio voto alla monarchia. Ma non lo può dire. Un particolare me lo  fa pensare: monsignore incoraggia tanti giovani preti che  si sono schierati apertamente a favore della questione sociale, dei contadini che hanno perso anche la dignità della parola. Questa è la mia previsione».
E all’amico Martino che si agitava un po’ scettico sulla  sua sedia impagliata che ormai cominciava a scricchiolare:
«Caro Fedele, dobbiamo fare anche noi i conti con le nostre età. Tu hai parlato della veneranda età di monsignore. Ma pensa che noi canonici, quelli che stiamo qui, chi  più chi meno, abbiamo superato la soglia dei sessanta. Tu  però da un paio d’anni hai superato quella dei settanta.  Ma grazie al cielo te li porti bene i tuoi anni. Ti dirò che se li porta bene anche il Vescovo i suoi settanta, che non  sono pochi ma non gli hanno tolto lucidità e saggezza nelle decisioni».
Don Alfonso, che aveva assistito in silenzio a tutto quel sermoneggiare, liquidò previsioni e commenti:
«Sarà quel che sarà!»
«Non li capirai mai questi preti … » pensò tra sé Fedele Martino salutando la compagnia.

     Non posso non notare un’altra stoccata al professore. Egli dubita che il Vescovo avrebbe votato per la Repubblica, data la sua età «tutta vissuta sotto l’ombrello dei Savoia», ma il professore è più vecchio del Vescovo di due anni !

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.