UNO SI DISTRAE AL BIVIO _ Terza e ultima parte
Il problema che subentra agli affanni amorosi, è costruirsi una vita. Vengono a galla proponimenti più concreti e dolorosi: sfondare a tutti i costi, sentirsi partecipe del consorzio umano, non fare un “tradimento al padre. Ma molte cose sono sfocate, funzionano male: prevale il tarlo del sentimentalismo, prevale la poesia, prevale il gusto naturalistico delle visioni, dei mancamenti.
E’ sera con la luna. Ti stanchi a passeggiare. Staresti tutta la notte fuori, così, a bearti delle cose sotto la luna che t’appaiono eterne: così le porte chiuse, i camini, i muri dei giardini. Con tutte le cose vorresti stare un po’ assieme e vedere come la luna tramonta, ascoltando i gemiti di questi uccellacci notturni. Questi gemiti richiamano i morti e tu ti prepareresti a vederli passeggiare, i morti in vestaglie bianche.
Questa è l’umanità che Ramorra vede palpitare, fremere nelle cose, rivestita di tracce e di rughe, di fatalità.
E’ sempre il padre che sente «grande» che «dura»tratanti incontri, il fantasma che si presenta nelle cose, di notte, all’alba, col sole che si alza: «Tu sarai la mia fortezza, Ramorra».
Il padre è lì, sta a presenziare, ovunque appare, sempre l’ombra lo segue, in questo continuo flusso e riflusso gli occhi sono sempre fissati, quasi «posseduto» da una «essenza»compatta nel corpo e nello spirito. Quel padre in vita era un buon ciabattino, metteva le «centrele con maestria»; ma soprattutto voleva Ramorra un professionista, un «uomo» insomma:
Si sentiva assai angustiato dal cieco domani. E il padre a riprendere per sognare. _ Fatti quello che vuoi: avvocato, medico, prete, ma un uomo con i fiocchi. Io per me non vorrò niente. Sulla lapide una bella espressione, o se farai l’avvocato, vorrò venire a sentirti. E poi un bastone, con la testa del lupo al manico ben intarsiato, un bastone d’argento. E con quello ti metterò sempre paura se non fai l’uomo come si deve.
Una parte del racconto è pervaso da un acre senso della vita, una lotta con se stesso, qualcosa che è simbolo del mondo, come centro e microcosmo. Un richiamo accorato, quasi un rivoltarsi dei suoi dolori, della sua esasperata lotta, crocevia di uno che sta per perdersi nel mondo.
Questo richiamo martellante, questa «lettera al Paradiso» come la chiama lui stesso, potrebbe essere un illuso e dolce sapore delle cose ricercate, un appiglio, un ultimo viatico.
La «lettera» non è altro che un mezzo d’invocazione, una perlustrazione della volontà di se stesso, proiettata nel futuro, quasi un’ «autoaccusa», un richiamo della cosceinza a più miti e ragionati patti. Così una lettera nella lettera che lo scuote:
Una sera, dopo bevuto, voleva morire. ( … ) Scrisse la cosiddetta «lettera al Paradiso» rimasta lettera morta: – «Cedi a Gesù Cristo la vittoria. A lui che dicono oppressore del male. Voler vincere la vita è come farsi asceta e penitente. Tu più volte hai tentato inutilmente. Dovevi negare tuo padre e tua madre e tutti i tuoi fratelli per tentare una cosa simile. Così, desti pace alla coscienza e fosti un uomo soltanto, uomo comune.
Traspare l’individualità illusoria e il «caso umano» in richiamo sempre più flebile, in un fondo quasi di non essere. Per poi ritornare ad essere «se stesso» secondo l’appello del super-ego proiettato per transfert nella figura paterna.
Tuttavia è ripetuta la intenzione di non differenziarsi dagli altri amici, da tutta la sua «storia» vissuta nella debole dualità di un fanciullo.
Così avviene che il piacere si combatte e si transustanzia nel suicidio del super-Io già fatto «uomo» per uno sdoppiamento nella figura del vecchio solo, incontrato nel fiume, che fa parte dell’inizio del racconto medesimo.
Ed è lo stesso vecchio che si ripresenta alla fine del racconto, lui con l’autodeterminazione di morire, un altro se stesso, ossia il suo alter-ego Ramorra, si ridusse in «frantumi di specchio».
Mentre il fiume portava il corpo del vecchio, Ramorra si salva, interpreta il presente in funzione di quel passato ultimo. Il discorso continua, pare incominci daccaèp, si rinnova ancora a raccontare: «finsi di morire e, innamorato moribondo … ricominciai». «Io Ramorra l’avevo nell’anomo da un pezzo».
Il racconto si chiude riprendendo il motivo principale del bivio per ridare nella struttura un minimo segno di raccordo, di coesione.
Il bivio – il bivio è motivo centrale per Scotellaro, infatti ricompare anche nell’Uva puttanella -, selva di apparenze nascoste, di frutazioni, di vere impasse, quante volte ha fatto perdere noi stessi:
Ecco che uno si distrae al bivio, si perde. E chi gli dice «Prendi da questa» e chi «Prendi da quest’altra ». E uno resta là, stordito. Aspetta che le gambe si muovano da sole.
Su queste ferme e interne contraddizioni il pessimismo dell’uomo, il suo «dramma continuo e l’ostacolo feroce di un mondo di disamore, di violenza e di potere».
Con questo racconto di Uno si distrae al bivio, si completa il piccolo corpus dei racconti, che, con i Frammenti dell’Uva puttanella, forma il libro pubblicato per le Edizioni Basilicata nel 1074.
A vent’anni dalla morte – scrive Carlo Levi nella Prefazione – Rocco Scotellaro rimane intatatto, e più preciso, nella memoria e nell’amore di chi l’ha conosciuto; ed è una presenza sempre più viva e importante per i giovani italiani e stranieri che sono cresciuti, senza conoscerlo, se non dai suoi scritti, dopo di lui.
III
Costruirsi una vita.
Era il problema che subentrava agli affanni amorosi.
Un giorno perduto, annotava quotidianamente Ramorra.
Gli veniva il proposito di lanciarsi dalla finestra nell’oscurità, e volare e volando abbaiare con i cani, essere nelle cose della notte e gridare: un giorno perduto! E poi? E poi le stelle scomparivano e andava dissolvendosi il manto della notte. Ramorra non sapeva che fare poi. Frattanto un giorno era perduto, e sulle dita contava probabili avvenimenti che, se occorsi in serata, avrebbero potuto fargli gridare: un giorno, stravinto!
E si domandava: – Se avessi lavorato tutto un giorno, con la zappa magari, il piccone?
E si rispondeva: – Così era, era uguale.
(I contadini rientravano in paese, sulla sera, col piede stanco e con aria morta. La lunga fila. Chinando ritmicamente anch’essi la testa come le giumente. E l’aria anneriva e nelle case un fuoco con la tazza del decotto. E i figli intorno illuminati dal fuoco. E nel pollaio le galline aprivano le ali come sbadigliando. E la donna china sulla tazza. Il fuoco era subito spento. Il contadino sospirava che il giorno era andato e s’ac- corava e, si sa, certo gridava anche lui che il giorno era perduto).
E di nuovo Ramorra si domanda; – Ma se avessi bevuto tanto all’osteria in buona compagnia facendo bestemmie e schiamazzo?
E si rispondeva: – Così era.
– O meglio, avendo abbordata una donna, se mi fosse stato detto di si?
E – CosÌ era.
– E se con la donna mi fossi baciato per la prima volta e lei sospirando … ?
E – Sempre così era.
Farsi una vita era per Ramorra come mettere su un pranzo quando anche l’olio manca, la cucina, un fiammifero. C’è solo la madia con tozzi e fette di pane. E dalle parti del Sud si rinuncia ad un pranzo perché non si trova più spesso un fiammifero e l’olio. Ci si accontenta del pane assoluto.
Bisogna capi do questo ragazzo: Ramorra vuoI dire che la vita non è l’acqua di un fiume che scorre uguale sotto gli occhi di un uomo sulla sponda, intontito. No. Aveva provato per un anno a farsi solide basi di un avvenire e di tutto questo tempo non gli uscì dalla penna se non uno dei suoi soliti colloqui con se medesimo.
E s’imbucò una lettera nella scrivania, un’altra la inviò in Paradiso.
Nella prima si mandò a dire:
« Tu hai vissuto con fragore per tutto un anno. Calarono le nebbie inerpicandosi sui ceppi tagliati del bosco, le quercie furono spoglie e rifiorirono, partirono le rondini e sono ritornate. Oggi è festa di quelle che tornano anno per anno. Un giorno ti senti d’un tratto rinnovato e pur tutto ritorna: questi fiori e questo verde e il biancospino che sfocia dal cespuglio. Ma tu perdesti controllo del tempo come ti fossi avviato, con numerosi bagagli, tu lo sai dove. E quando ti ricordi del tempo è al mattino, che s’annuncia con festanti soli di là dal balcone socchiuso. Ogni mattino alla stessa ora tu parli con quella voce dimenticata dei primi monosillabi. Io t’ascolto. E sulla strada, sotto il letto, ruzzano i bimbi smisuratamente fino agli ultimi minuti prima di scuola. A quell’ora, sempre, quante riflessioni vai maturando e ti fai lo schizzo della vita nuova. Dici di si, si può ricominciare daccapo, rifarsi matematicamente secondo lo schizzo. Qualche bimbo si sente piangere, la mamma lo ha battuto perché non voleva andare a scuola. Dopo l’ora di scuola, per la strada, ricordi? C’era qualche donna seduta a lavare la verdura, diceva «buon giorno» a coloro che passavano e domandava di questo e di quello. C’era qualche bambino di quattro anni o di cinque, che non giocava ancora.
Tu pure chiamavi fortunati coloro che restavano a casa, i fratellini più piccoli, la mamma che cucinava e le comari che venivano a prendere a casa il lievito o la tortiera. Ricordavi com’era casa tua a quelle ore, . quando tu non c’eri, tutta illuminata con la finestra aperta. Lo ricordavi quando a scuola non andasti per un malessere. Ma non potesti neppure giocare. I compagni ti avevano tradito: tutti a scuola quel giorno!
E ora pensi che l’umanità ti tradisce, se i contadini battono i sassi della strada con gli scarponi avanti giorno, che vanno al lavoro senza rimpianti. Questi altri bimbi senza capricci e i bottegai che spicciano i clienti senza mai vedere il sole in piazza a una cert’ora dove sta, quanta gente c’è in piazza, chi sono, cosa dicono: questi pure ti tradiscono.
Non resisti. Levato appena, vai in piazza e vedi chi c’è e senti che bell’aria c’è la mattina in piazza. E vedi pure gente che non conosci e che stimi amica, seduta, capochino. Qui tu ti confondi. Rasente i muri passano correndo l’impiegato, un muratore, qualche altro, frettolosi. Guardano verso voi, si sbiancano in viso. Tu vi leggi gran premura e affetto e scontentezza. Questa è l’umanità che pure ti tradisce. Quelli che non fanno come vorrebbero o come te, sotto il sole della piazza, ozioso.
«Passarono i giorni, ogni tramonto in disparte concludevi che è sempre tardi ricominciare; ma se con un amico (un impiegato, un muratore) passeggiavi, ecco dicevi ed eri maestoso: – Già verso il tramonto quanti atti giganteschi e mature riflessioni sono possibili ancora.
E’ sera con la luna. Ti stanchi a passeggiare. Staresti tutta la notte fuori, così, a bearti delle cose sotto la luna che t’appaiono eterne: così le porte chiuse, i camini, i muri dei giardini. Con tutte le cose vorresti stare un po’ assieme e vedere come la luna tramonta, ascoltando i gemiti di questi uccellacci notturni. Questi gemiti richiamano i morti e tu ti prepareresti a vederli passeggiare, i morti in vestaglie bianche. Ma un tuo amico accusa il sonno. Rincasare è una necessità.
E a ognuno casa sua, a ognuno il suo lettuccio e l’ombra.
Così gli uomini si arrendono, al sonno. Ma tu che! Non sei convinto che la notte è fatta per dormire e le cose non credi che dormano. Se l’uomo volesse, anche di notte le cose non sarebbero abbandonate. Basta pensare: le sere di festa sono i fuochi di artificio. C’è tuono e rumore e luce intorno. E la banda che suona. Basta pensare: i contadini d’estate portano in paese il grano da remote contrade viaggiando di notte. Cantano, sgridano le bestie. Arrivano in paese all’una, alle due di notte e all’una, alle due ripartono. Cantano, sgridano le bestie.
Per tante ore della notte il mondo tace abbandonato sotto lo stupore di mille stelle. Per altrettante ore tu ti adagi nel letto nudo di anima e corpo. Ritorni al tuo essere primo. Qualcuno ti legge i più segreti pensieri senza che tu lo sappia.
Perché? A questo punto perché sei fermamente deciso a ricominciare domani? Vita nuova?
«Per un anno, capisci, lo stesso proponimento tradito e ti struggi. Pensi a un altro mondo possibile a vivere con una sola volontà e premediti la partenza. No! Capisci, prima invochi un tuo domatore che si fa sempre desiderare, subito dopo, bastano pochi amici, l’umanità sorella, una parola, un discorsetto, un bicchiere.
Passa il tempo, ma tutto ritorna: la pioggia e l’aria nera e il gelo. E a ognuno casa sua, ad ognuno il suo lettuccio e l’ombra. L’ombra.
La decisione di oggi non sai se è quella che potrà durare domani. Oggi è festa. Tutti gli uomini, anche quelli che ti tradiscono, eccoli, allegri anch’essi, stanno in piazza sotto il sole. Oggi, tu dici, bisogna schivarli. Lasciarli soli. Oggi stare in casa come fanno gli amici. Tradire quelli che tradiscono: così è tra i peccatori.
Tu questa sera pensi che meglio sarebbe tradire tutti quanti, uni ed altri. Chissà, domani, al mattino, che s’annuncia con fette di sole di là dal balcone socchiuso?»
Chi lo sa?
Il padre gli diceva le sere lunghe davanti al focolare, d’inverno:
– Tu sarai la mia fortezza, Ramorra.
E il giovane rincuorato rispondeva frettolosamente di si.
– Io, un misero operaio (vivrò fino alla morte il mio mito di ciabattino) – riprendeva il padre – ma avrò fatto di te un uomo che se ne fregherà. Mi spenderò la luce degli occhi, per te.
Ramorra non sapeva ringraziare. Si sentiva assai angustiato dal cieco domani. E il padre a riprendere per sognare. _ Fatti quello che vuoi: avvocato, medico, prete, ma un uomo con i fiocchi. Io per me non vorrò niente. Sulla lapide una bella espressione, o se farai l’avvocato, vorrò venire a sentirti. E poi un bastone, con la testa del lupo al manico ben intarsiato, un bastone d’argento. E con quello ti metterò sempre paura se non fai l’uomo come si deve.
_ Si papà – diceva contento Rarnorra – e pensava che con uno come il padre alle costole, non avrebbe sbagliato una sola posta dell’avvenire.
Ma il padre morì. Ora lo piange, qualche volta, soprattutto perché non c’è un uomo come lui e con quel bastone d’argento impegnato.
Ramorra al cieco avvenire preferisce la piacevole rotta dei giorni.
Quante serate burrascose, con la stridula fisarmonica, i bariletti di vino e i sudori dei balli!
La fisarmonica smetteva il ballabile richiesto, il soffietto era chiuso sulle ginocchia del suonatore, che a ogni pausa beveva. Di fuori scrosciava l’acqua, si sentivano cupe voci nella strada. Poi l’accordo riprendeva, allegro e svelto, e si ballava la polka. Le coppie, mute e senza tenersi a mente, saltavano in cerchio. La musica gridava, come la volontà del destino, quelle coppie, e il giovanotto e la ragazza si volevano bene, come sposi ubbidienti al destino che chiama e che lega. Così legava la musica. E le madri da una parte e i padri dall’altra, vicino al fuoco, intenti ai passi, all’andatura, al giovane e alla ragazza, alle coppie tutte, buoni figliuoli che non dovevano avere pensieri cattivi. Proprio così, la musica legava e la mazurka piaceva. Chi guardava si sollevava sulle natiche e i padri e le madri muovevano i piedi senza farsi vedere, intenti sempre alle pieghe delle vesti e al modo dell’abbraccio.
Si dava finalmente da bere al suonatore, che con una mano reggeva lo strumento, con l’altra il bariletto, alzava il capo verso il soffitto attingeva come a una fontanella. E i giovani cacciavano le cicche dalle tasche, e mettevano insieme tabacco e molliche. E quando tutti si avvicinavano da uno ad accendere, si facevano buone confidenze, l’uno di faccia all’altro con le sigarette.
E poi passavano al vino, si facevano i brindisi, si battevano le mani, si giocava alla morra, tutti si sentivano grandi e amicissimi, annegati in un trambusto di voci.
Mezzanotte, l’una, le due, nessuno si contentava. E la festa non finiva al chiuso. Fuori si portavano le serenate. Si cantavano canzoni belle e sconce.
Ramorra cadeva in delirio e non poteva dimenticare mai quelle sere. E i suoi amici, che tenevano il contegno delle persone civili e non si abbassavano a tanto, lo rimbrottavano con asprezza. Una sera, dopo bevuto, voleva morire. Ma i comizianti ubriachi sulla strada se lo prendevano in mezzo e lui non voleva più morire. Il disgusto infine lo prese. Scrisse la cosiddetta «lettera al Paradiso» rimasta lettera morta:
– «Cedi a Gesù Cristo la vittoria. A lui che dicono oppressore del male. Voler vincere la vita è come farsi asceta e penitente. Tu più volte hai tentato inutilmente. Dovevi negare tuo padre e tua madre e tutti i tuoi fratelli per tentare una cosa simile. Così, desti pace alla coscienza e fosti un uomo soltanto, uomo comune. Uomo che s’ubriaca, gioca alle carte e fuma, e mangia e dorme quanto vuole. Uomo che desidera la femmina come il cane d’estate, come i muli alle fiere. Andavi sempre cercando di occupare il tuo tempo parlando con gli amici di te. I giorni passavano e le stagioni come fogli scartati di un libro nuovo e pregevole, ma tu non t’accorgevi e nulla conquistavi: tuo padre a quest’ora aveva un figlio. E un giorno dicesti che non era del tutto perduto il tuo tempo. Le tue avventure le contavi a tutti. Quelli ti ascoltavano, ti chiamavano «bravo» e tu ti sentivi orgoglioso come il contadino che ha avuto raccolto buono. Solo la notte sapevi che eri un vinto e Cristo era il vincitore. Ma t’addormentavi cosi presto!
Una sera ti dissero che tra gli uomini talvolta succede di non rialzarsi e rimanere nel letto come gli uccelli sugli alberi, quando c’è neve. Niente di meno, quella notte non dormisti, per restare guardingo e prendere le misure convenienti, se ti fossi sentito mancare. E da quella sera la tua coscienza torna a parlarti col linguaggio della minaccia. La tua coscienza! Tu la combatti.. E’ un frugolino sempre scontento che morde o, come si dice, porta scalogna.
Ma come si fa? Dare ragione alla tua coscienza credi che sia fare oltraggio a tutto te stesso e dimenticare che prima di tutto sei uomo, come gli altri.
Tu pensi: ecco, è il pelo che mi manca, il pelo del lupo e di innumerevoli esseri umani. Vuoi essere come gli altri. Duro come il chirurgo, inflessibile come il giudice, tenace come un latitante. Il bandito, guai se fosse in guerra con la sua coscienza! Cosi pure l’avaro, l’imbroglione, il ladro, il custode di cimiteri. Può darsi che tu abbia la veste del traffichino ingenuo. Cerchi di accontentare nel contempo la tua coscienza e il tuo desiderio. Quando servi l’uno e l’altra tradisci, pensi che sei vinto, Cristo è vincitore.
Non può durare la tua ignavia. Tu morirai certamente molto tardi, ma in tempo per pentirti e mettere a posto le carte del tuo viatico, Perché nessuno ha mai detto al Signore: _ Soggiogami, da vincitore, Signore, io non mi arrendo! -»
Davvero povero Ramorra!
Non sapeva che volere. Quante aspirazioni, quante lenti per l’avvenire! Cose incominciate, poesiole, articoletti, drammi di tre atti e tanti quadri! I suoi amici volevano una sola cosa, l’ottenevano ed erano contenti. Ramorra voleva l’impossibile, s’era messo in testa di vedere il suo nome o gridato come quello d’un calciatore o scritto grande sui libri. Voleva cominciare sui giornali, ma fini con l’impartire lezioni private guadagnando qualche sigaretta e intanto gli andava a genio frequentare i suoi amici d’infanzia. Gli faceva nodo alla gola se gli dicevano che lui da gran tempo non li guardava più, superbo dei suoi studi. Questi artigianetti di una lira e mezza all’ora gli dicevano dell’umanità sofferente che resta dove la mettono e non pensa di arrivare dove non può.
L’autunno, nemico di Ramorra, gli tese lo scherzo più crudele: gli furono rubate le valigie in una stazione. In una valigia c’erano certe cose scritte, i momenti più belli della sua vita.
Ramorra si accorse che il mondo si approfittava delle sue valigie e delle cose utili dentro, delle sue camicie nuove, delle sue maglie di sotto, dei suoi butirri, non dei suoi sentimenti. Cose perdute dell’autunno! Ci contava. Poteva farne un libro, chi sa? Ramorra non badava però che il vento rubava le foglie agli alberi e non c’era rimedio.
Si ritrovò solo nella stanzetta di casa sua, di sera quando tutti dormivano e il fuoco in cucina era coperto di cenere. Ogni giorno si convinceva della sua inutile vita, se la grazia gli fosse mancata di un amico o la nota di una canzone. Serrato tra quattro pareti, con la nube di fumo e I’apatia dei mobili, sempre quelli, non voleva, non poteva stiracchiare una grama esistenza; sentirsi trascorrere il tempo tra cumuli di cicche, come gli attori del cinematografo.
Intravide un avvenire disastroso: con una pancetta aristocratica sedeva dietro un lungo tavolo smosso di registri mastri e carte varie, con una penna infilata all’orecchio, ogni tanto guardava annoiato sulla strada. Brutto avvenire. Ramorra si ostinò sempre più nel pensiero di morire, da imbecille così com’era, e da eroe, suicidandosi.
Morire per le cose, sempre quelle, per il mattino e la sera che non cambiano mai, per i pranzi alle stesse ore, per i pomeriggi delle domeniche, le partenze dissipate, gli amici diventati uomini, per Dio che non scendeva sulla terra a dire «Cambiamo faccia a questo mondo!»
Quante cose Ramorra voleva dire, erano sempre le stesse cose.
La madre, al paese, l’aspettava la sera, sola, vicino al fuoco. Egli s’accorgeva che aveva menata una giornata peggiore della sua, che il sonno non valeva a far dimenticare. Incontrava nella mamma lo stesso cupo desiderio di vivere diversamente e diventava scontroso. La mamma pure lo capiva, scopriva la carbonella per lui e subito se ne andava a letto, e lui restava, appoggiato alla focagna; povera madre cui Ramorra gridava scrivendo la bestemmia: «Muorimi, mammamia, chè ti vorrò più bene! » ‘
Venne il giorno di Sant’Antonio Abate, dopodomani di San Mauro Abate, suonarono le campane per festa. Quell’inverno ancora non s’affacciava, gennaio fu tutto una splendida giornata di sole. Ma Ramorra, non per questo, decise di scappare da casa perché voleva morire.
Andò al fiume, dove s’incontrò col vecchio sulla sponda.
Decisero di morire insieme, perché anche il vecchio era sfottuto. Dopo che fecero lamenti e pianti, dopo che dissero che sì, era l’unica, di morire perché il cuore non dolorasse più, faceva al vecchio Ramorra: -Io lascio le scarpe chè le porti il passante a mia madre.
Un cane abbaiava sull’altra sponda, faceva di no, di no con il capo; dal paese, che pareva vespaio, giungeva un vocio, dal campanile scendevano tocchi, il cielo nell’acqua melmosa del fiume sembrava rabbuiato, il fiume correva e giunse pure di là, da quei pini, un vento caldo, che era una voce.
Il vecchio si avanzò nel fiume col bastone, piano, quasi per non farsi male. E diceva «Su, forza» a Ramorra « altrimenti ne pigli col bastone. Sù, forza, dei ragazzi non ci si può proprio fidare. Sù, forza» e Ramorra piangeva: Sì! Mi slaccio le scarpe, voglio che le tenga mia madre da qualche passante. Vengo subito.
Cadde in ginocchio, chinò il capo, piangeva, vedeva a un metro da sé tumultuare l’acqua del fiume.
Il corpo del vecchio s’allontanava con le onde, frattanto. Allucinato e preso da pietà per il vecchio, che aveva tenuta la parola, Ramorra si erse: – Addio, addio vecchietto, addio!
Già i cavalloni lontani sommergevano tutto. Il vecchietto non poté rispondere e Ramorra si salvò.
.
Il ricordo ci lega a una parte consumata della nostra vita.
Per Ramorra lo stesso presente era già ricordo. Forse, non a torto, faceva poesie. Si crede che i poeti facciano del presente un eterno ricordo. Ma la vita di un uomo, se così fosse, null’altro che ricordo, dovrebbe eternarsi limitandosi, annullandosi nel giorno, nell’attimo. Ramorrino tutto questo ha temuto, si è salvato dall’annegamento e si è salvato dalla morte con il ricordo eterno di una parte di se stesso già sprecata. Ora dice che potrebbe far la lotta con la vita, anche se debole. Essere un altro se stesso con la mentalità dei migliori. Dice che bisogna fermamente decidere picchiando il tavolo col pugno duro. La sua generazione s’avvia con un treno che anche lui dovrà prendere. Può essere il treno dei coscritti o quello che spinge sulla porta di una pensione. Dice che quello che sembra è una falsificazione di se stesso. Vuole essere, invece, per tutta la giornata, quello che ogni sera si riprornette vedendosi in un cerchio di luce suo padre davanti, un po’ triste. Ecco cosa farà: sarà tutto se stesso, obbedirà a quella voce che parla in lui, finora inascoltata. Tutto se stesso.
Intesi.
Ah Ramorral Che aria di buttarsi a mare dopo questa colazione! Adesso ti andrebbe di fumare tanto per non saper che fare, ma forse ti alletta più scrivere una lettera a qualche amico. Passa un uomo antipatico sotto la finestre: è colui che fa tutto con regola e pensiero, poggia il bastone pianino, guarda un po’ intorno nella via, finalmente si inguanta le mani. Ma tu! Ah Ramorra! Stamane ti soffoca il sole e le nubi non sono che soffioni sollevati dall’inerzia del mondo.
Il romanzo era finito e Ramorra mi disse: – Voglio partire, qui non ce la faccio.
Ed io, questa volta, scocciato, duro e secco incominciai: – Partire per piangere all’altra sponda i tramonti dei giorni perduti che vale? – Gli chiesi. – Lottarsi conviene, disprezzarsi. Tu ti vuoi troppo bene, mio caro. E chi ti piangerà alla fine, talmente ti sei pianto da te? Oh caspita! Mi hai fatto diventare cicala per narrarti e tu sei una mosca: le mosche il caldo prima le intontisce e l’inverno l’ammazza.
Ramorra si scolorì, colpito nel debole, ed io divenni più forte di mai.
– E – ripresi – s’io riesco, com’è mia volontà, a vincere me stesso, non avrò più compassione di te. Ti prenderò, ti lascerò come una bella antica canzone che vale per la digestione e magari sotto la luna una notte che io non l’abbia aspettata. Tu ti roderai, tu ti struggirai nell’isolamento come un’amante spregiata. Finirà che tu venga dimenticato.
– No! – m’implorò Ramorra.
– Sì! – gli gridai – devi andartene ormai.
E lui: – Campana non suona se non la tocchi col martello. Sono triste. Aiutami!
Dopo che feci un atto di rifiuto e dissi: – macché! – lui di nuovo:
– Dimmi almeno addio! ‘
Mi arresi subito. Non dovevo, dopo tutto, fare il crudele. Ci dicemmo addio tendendoci le mani. Egli lacrimò.
_ Anch’io – dissi per rifarlo – sono contento di averti fatto un romanzo in cui ci figuro. Poi tagliai corto:
_ Via! – Ramorra si ridusse in frantumi di specchio.
Ero vittorioso, felice.
Fu quando scorsero i problemi minuti per riempire di uno specchio nuove stecche di legno del guardaroba (e dovevo far colletta tra i patenti e non potevo dire che è inutile a ognuno lo specchio) fu allora che piansi amaramente e avrei voluto andarmene con lui, seguire la sorte del caro magro e breve Ramorra, ma non potevo. Mi guardai intorno. Le quattro pareti della mia stanzetta sembravano comprimersi e finsi ancora di morire e, innamorato moribondo, come volessi svelare un lontano amore agli ultimi istanti, ricominciai: «Io Ramorra lo avevo nell’anima da un pezzo … »
Ecco che uno si distrae al bivio, si perde. E chi gli dice «Prendi da questa» e chi «Prendi da quest’altra ». E uno resta là, stordito. Aspetta che le gambe si muovano da sole.
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