Orizzonti dell’ultimo numero 162/183 – dicembre 2013/gennaio 2014 della rivista letteraria «Lo straniero» diretta da Goffredo Fofi, propone un Ritorno a Scotellaro, introdotto da un omonimo saggio di Franco Vitelli. La distribuzione in libreria della rivista è avvenuta fortunatamente a fornirmi la conclusione del racconto lungo  Uno si distrae al bivio. Nel suddetto saggio Vitelli, tra gli altri punti di interesse di un ritorno a Scotellaro, considera infatti l’opportunità di guardare con più interesse e sensibilità al racconto che il giovanissimo Scotellaro non riuscì a pubblicare in vita, perché – cominciando a citare Vitelli: « i tentativi andarono a vuoto forse, come è stato giustamente rilevato, per quella distanza dallo spirito più schietto delle istanze neorealiste».  

 «Anche Muscetta, il grande esperto di realismi e controrealismi, diffidava non poco di Ramorra “timido e assai sprovveduto Narciso”, “buffo ritratto di un Dedalus paesano”. Epperò, l’inversione di rotta rappresentata dall’introduzione di Levi al libro del 1974 ha di certo giovato a più larga e serena fruizione nell’ambito di una letteratura incentrata sul romanzo di formazione (Langella) che può raccogliere sia le specificità di un processo personale che la rappresentatività storica di un’esperienza. E converrà attenersi ai suggerimenti di Michele Dell’Aquila (Malumori scotellariani e il mito dell’America, in Humilemque Italiam, Roma, Bulzoni, 1985, p. 409) che recepivano il valore letterario (“un gioiello d’opera prima”) e indicavano la strada per apprezzarne la novità e i più reconditi aspetti (“Ramorra/Rocco […] attende ancora il critico simbolista e quello esperto di psicanalisi per essere decifrato e posto al centro della rilettura scotellariana”). Ecco, una sintesi felice in cui convergono elementi stilistico-formali e contenuti narrativi risulta essere quella di Vittorio Spinazzola (Vero poeta della libertà contadina, in “L’Unità”, 10 ottobre 1974): “In effetti Uno si distrae al bivio è racconto notevole per la densità del linguaggio ellittico e fortemente allusivo cui l’adolescente Scotellaro ambisce a trasporre le inquietudini tipiche del passaggio all’età matura, fantasticando accesamente sulla propria condizione popolare e paesana” .

Appunto, ciò che intriga nel romanzo breve è la rappresentazione della condizione giovanile che trova eguale scandaglio sia nei drammi coevi, piuttosto incerti dal punto di vista testuale e raccolti postumi in Giovani soli (Basilicata editrice, Matera 1984), che in alcune poesie; sicché risulta possibile costruire una fitta rete intertestuale che contribuisce a delineare una efficace fisionomia unitaria. La fragilità, l’incertezza, tutto il groviglio di problemi irrisolti che si rovescia addosso al giovane Scotellaro, e per suo tramite a tutti i giovani, rendono questi scritti affascinanti e di pertinente attualità. Uno si distrae al bivio, d’impronta autobiografica per la palese riscontrabilità dei riferimenti, ma capace di esprimere gli archetipi “della vita dell’uomo e della sua pericolante giovinezza” (Levi) sembra dare sostegno alle infinite possibilità simboliche racchiuse nella realtà, il veridico assunto della realtà del simbolo .

Certo, Ramorra/Scotellaro rappresentato nella forma scissa del protagonista raccontato e dello scrittore che racconta, in realtà coincidono. E se è vero che numerose strade, cioè scelte di vita, si presentano a opzione nel fatidico passaggio alla maturità, non ci si allontana molto dal vero a pensare che Uno si distrae al bivio è anzitutto la rappresentazione delle ambizioni scotellariane a divenire scrittore di successo per attuare una piena realizzazione, un modo anche per mettere a fuoco le difficoltà che derivano in primo luogo dalle condizioni ambientali che impediscono l’inserimento in un circuito più vasto. Di ciò troviamo conferma nella confluenza a profusione di versi che avevano una loro autonomia e che vengono incastrati nella trama come in una sorta di dimostrazione critica, un metaracconto; ma anche in una lettera a un non identificato professore romano, scritta in un momento di “deprimente e disastrosa solitudine” e a tratti coincidente con cose dette nel racconto. Si legga: “Ebbene non vi dissi, nella breve intervista, che, ad esempio, scrivevo poesie a tempo perso, elzeviri, bozzetti, racconti, preparavo… drammi ‘pirandelliani’. Ed ora, se non mi accorgessi quanto sia precaria questa mia mezza esistenza tra l’interesse del teatro, delle lettere, del diritto, tra i compiti più pratici ed economici che mi chiamano, ecco, forse non vi avrei interpellato. Credo cioè che il passo da un vago desiderio di Enciclopedia alla stupefacente ignoranza, è rettilineo, breve. E voglio salvarmi, assolutamente. Ma sentitemi. Dopo un anno da quando mi furono rubate alla stazione di Napoli due valigie con i miei manoscritti (Dio lo volle, forse fu un bene!) mi vedo un’accresciuta produzione, che o cade nel cestino o mi dà una qualsiasi gloriuzza”. Chissà se mai quel furto è veramente accaduto, anche se Scotellaro ne parla più volte e nel racconto in forma autoironica, suggerendo che i ladri fossero più interessati agli indumenti nuovi e ai butirri che non ai suoi sentimenti appuntati negli scritti, che magari potevano diventare libro; impressiona, comunque, la coscienza autocritica della dispersione cui poteva andare incontro e la necessità che qualcuno lo aiutasse a trovare la via da seguire .

Ramorra rimane dentro l’anima di Scotellaro e tiene desta in sottofondo tutta la problematica che a lui si collega al punto che è capace d’insorgere anche ad anni di distanza. S’intende così Un pesce d’aprile che porta la data del 1946 ed è la riduzione in essenza di Uno si distrae al bivio; anzi, se non fosse per la piega finale che fa scivolare il tutto in una situazione grottesca, uno scherzo occasionato dalla data, si direbbe che la maggiore concentrazione abbia giovato alla resa. Tanto vero che in parallelo matura Giovani come te, una poesia che trascrive stati d’animo noti e variati di giovani allo sbando che cedono alle lusinghe delle vetrine e della pubblicità e capaci di toccare la depravazione del “bassifondo”; ma, nel contempo, con significativo ed emblematico richiamo al titolo giovanile si prende atto di molti che “vorrebbero una luna nel pozzo, / una loro strada sicura / che non si rompa tuttora nei bivii”; utopia e realtà s’intrecciano e al momento della scelta fanno guardare nell’unica direzione possibile: stare a fianco dei più deboli con una precisa scelta di classe (i “mietitori / addormentati ai monumenti / che aspettano la mano sulla spalla / del datore di lavoro” e i “facchini di porto / contenti della faccia sporca / e le braccia penzoloni / dopo che il peso è rovesciato”). Il 1946 è l’anno dell’elezione di Scotellaro a sindaco dopo aver capeggiato una lista col simbolo dell’Aratro; non stupisce perciò la chiusa che inneggia al socialismo e la scelta “di dir sì all’Uomo che saremo / e che ci aspetta / alla Cantonata / con falce e libro in mano!” .

Sui giovani, vale a dire su se stesso, Scotellaro si sofferma in un appunto inedito di fine 1944, dove in pratica contesta la fondatezza delle posizioni di Benedetto Croce che, nella sua Conversazione con i giovani, (ora in Scritti e discorsi politici. 1943-1947, vol. II, Laterza, Bari 1963, pp. 57-62) aveva sostenuto in punto di astrattezza filosofica l’insussistenza del problema giovanile, perché “la giovinezza è un fatto, non un problema” ed è come se si ponesse il problema della fioritura, “questo è un errore di impostazione, perché la fioritura è una condizione attraverso cui è necessario passare”, “i giovani non possono avere altro fine che di maturarsi a uomini”; cosa peraltro non facile considerati gli ostacoli e le difficoltà di ogni natura, per cui con atteggiamento paterno non paternalistico “possiamo e dobbiamo aiutarli, ma non sostituirci a loro e in loro”. Scotellaro oppone un’analisi di tipo storico-sociale, nel senso che solleva il caso “della gioventù fanatica, nazionalmilitaristica, che oggi non è facile giuoco svezzare dai sogni delle terre promesse” e quello di chi già “nelle redazioni dei fogli guffisti aveva portato un’irrequietezza derivante da un’ansia di libertà”. Ma, soprattutto, invita a considerare “quella parte di gioventù abulica e incosciente, che oggi ha pure un valore politico significativo perché quei giovani ci appaiono gli agenti dell’ultima resistenza fascista in Italia, se non sapessimo che gli ignavi, i senzabandiera di tutti i tempi, i cosiddetti apolitici, rappresentano i fattori negativi in ogni attività sociale, politica e intellettuale”. Credo che riflessioni di tal genere ritornino di piena utilità per intendere la genesi di Uno si distrae al bivio, non in forma diretta e immediata (si tenga conto della sfasatura cronologica) ma come contributo alla ricostruzione del clima nel quale Scotellaro era immerso negli ultimi anni del regime, trapasso e immediato dopoguerra .

Sulle parole di Croce, che con la loro “elementare verità” tanto lo sconvolsero, Scotellaro ritornò con mutato atteggiamento nel 1952. Ne spiega la ragione: quando “i giovani tornavano laceri e senza speranza dai campi di battaglia e di prigionia” e “i loro problemi erano il vestito, il pane e un tetto”, difficile appariva affrontare filosoficamente la questione; “oggi si possono accettare senz’altro quelle parole: sempre i giovani hanno dovuto e devono maturarsi al clima del loro tempo”. Il nuovo appunto nasce nell’ambito di un fascio di riflessioni scaturite a un congresso sui giovani organizzato dal Pci, cui Scotellaro aveva aderito, come lui stesso afferma, “senza essere comunista” e “in una posizione di collaborazionismo”. Il quadro si allarga notevolmente sino a investire sinergicamente, con eco di ben note posizioni storiografiche, il Risorgimento e la Resistenza, con le alte mete ideali a essi sottese, la cui bandiera era “tenuta fermamente nelle mani dei giovani”. Del primo cita il caso di Luigi La Vista, assai promettente allievo del De Sanctis che fu ucciso precocemente sulle barricate in Piazza Carità il 15 maggio 1848, “per mano delle truppe mercenarie del re traditore borbonico”, “sotto gli occhi del padre che era venuto dal paese lucano a vedere il figliuolo dalle belle speranze”; una maturazione interrotta di un giovane che “avrebbe dato un serio contributo alla nostra storia letteraria”. Con riferimento alla realtà postbellica Scotellaro afferma che “i giovani ora sanno che questa è l’ora della creazione della democrazia e spetta ad essi il maggior contributo perché la lotta per la democrazia coincide con il loro ingresso nella vita del lavoro, che è coscienza della propria storia”. Tra gli auspici e le proposte spiccano la creazione dell’unione dei giovani fuori dai partiti, il crollo della “indegna e mortifera divisione del mondo”, “un periodo di pace che garantisca la vita lieta e laboriosa ai giovani, i quali vogliono sfuggire al destino spartano di andare a fare le guerre” .

Questi temi accennati trovano traduzione poetica e anche maggiore illuminazione in due componimenti, Ai giovani comunisti e Due eroi. Il primo, non scevro dai rischi della retorica e dall’andamento prosastico, ha un suo pregio di rivelazione ideologica, ancorché utopistica, che rende bene la tensione in clima da guerra fredda: “Venga il mattino, amici comunisti, / giovani che vogliamo sapere il perché, /che sbattiamo le mani per svegliare / miseri e potenti e ordinare la sorgente. / Io sono con voi, con i giovani comunisti / che mi promettono, come io prometto, che mai / ci sarà una trincea e un mirino / puntato sul petto di mio cugino americano”. Il secondo, compie la saldatura inserendo l’anello mancante della congiunzione cui prima si accennava; i due eroi sono Luigi La Vista e Giovanni Quinto, che fu ammazzato dalla polizia nel corso di una imponente manifestazione di protesta e mobilitazione per l’attentato a Palmiro Togliatti: “Quinto, studente di un paese lucano, / Pisticci bianco e rosso sulla collina, / ucciso a Napoli il 14 luglio. / Luigi La Vista, di un paese lucano, / tra il Vulture e l’Ofanto altra collina, / cent’anni prima nel Largo Carità.” Ambedue amavano la vita e i loro progetti ideali miseramente stroncati: non volevano morire. Questo della riluttanza alla morte, specie quando si tratta di giovani, è tema molto caro a Scotellaro e significa quasi un sentirsi addosso la sorte che a lui stesso sarebbe capitata .

“Farsi una vita era per Ramorra come mettere su un pranzo quando anche l’olio manca, la cucina, un fiammifero. C’è solo la madia con tozzi e fette di pane. E dalle parti del Sud si rinuncia ad un pranzo perché non si trova più spesso il fiammifero e l’olio. Ci si accontenta del pane assoluto”. Questo pensiero storicizza la vicenda evidenziando le difficoltà economiche estreme in un mondo di miseria e rende quasi necessaria la fuga in un diverso altrove che tuttavia non appaga, perché “nessuno ti conosce, dove puoi essere figlio di una bestia e non di quella mamma tanto buona e tanto triste”. La difficoltà d’intendersi nasce da una diversità antropologica, gli uomini erano diversi di cuore, “non si abbracciavano come fratelli e non si dicevano parolacce per affetto”. Con l’anima sfilacciata a brandelli Ramorra nella lontananza di mille chilometri “cercava tra le case quadre e alte e pulite la pietra aguzza della parete del vicolo al paese, o il suo albero di fico cercava là nel suburbio” .

C’è una contraddizione che conviene non dico sciogliere, ma almeno proporre e illuminare nei suoi elementi costitutivi. Scotellaro ha dedicato l’intera sua esistenza a farsi carico dei problemi dei contadini, di cui vi è una pressante esemplificazione in una lettera forse non spedita a Elio Vittorini nell’aprile del 1947: “Stretto dalle cose amministrative, dai manovali che chiedono lavoro e sfamarsi, dal problema di metter su un ospedale, non leggo ‘Politecnico’ .

Non arriva e abbonarsi è poco facile. Scrivo anche raramente. In compenso, vivo un’esperienza dura, ma necessaria, utile. Un’esperienza da Politecnico sottinteso, non scritto. Scrivo più spesso ordinanze per l’ingaggio alle Aziende della mano d’opera disoccupata, per la concessione delle terre alla cooperativa dei contadini bisognosi, e, infinite volte sino alla nausea, la mia firma”. A fronte di siffatta totale dedizione e delle mete raggiunte suona in stridente contrasto il fatto che non sia riuscito a costruire una vita per se medesimo, soffrendo perciò un acuto dramma interiore. A questo sembra alludere Levi nel finale della lettera a Leonardo Sacco: “più di chiunque altri io abbia incontrato, segna, per totale identità e totale partecipazione (malgrado ogni chiusura e ritegno, e poetica solitudine) un punto miracolosamente centrale di un tempo, che è il nostro. Un giorno egli scrisse, per sé, questa epigrafe (che si può intendere in mille modi, tutti veri): ‘Io sono uno degli altri’.” Più che epigrafe, “autoritratto” implacabile per crudezza di verità e credo da intendere in maniera univoca; ma nulla cambia .

Aurora Milillo ha con fine acutezza osservato che “insieme al quotidiano e al familiare, la poesia fa emergere l’ombra, il lato oscuro e pesante delle proprie scelte di vita, lascia affiorare l’inconfessato, il vagheggiato”, perché “alla poesia si doveva lasciare il ruolo di reagente emotivo, di analisi delle sensazioni” (L’occhio estraniato. La vocazione antropologica di Rocco Scotellaro, in Scotellaro trent’anni dopo, Basilicata editrice, Matera 1991, p. 272) .

E in effetti, affiorano sentimenti di paura e di angoscia per il vuoto interiore che si crea in uno stato di fissità (“L’anima mia / è in questo respiro / che mi riempie e mi vuota. / Cosa sarà di me? / Cosa sarà di noi?”, Le tombe le case) e anche il timore di trasmettere la sua pena – come da credenza popolare attraverso l’ululato dei cani – a chi già soffre di suo (“Mamma, scacciali codesti morti / se senti la mia pena nei lamenti / dei cani che non ti danno mai pace”, Le nenie). Più esplicita invece l’oppressione che discende dal peso delle responsabilità e la richiesta di una tregua per il dubbio di non potercela fare (“Non gridatemi più dentro, / non soffiatemi in cuore / i vostri fiati caldi, contadini”, Sempre nuova è l’alba) .

Tra “i pensieri costanti di ogni giorno” al punto 6 Scotellaro annota: “Io. Come sarebbe meglio che fossi, come è inesorabile che sia”. A me sembra che qui siano plasticamente condensati i termini del suo dramma: la consapevolezza razionale che sarebbe giusto dedicare spazio a se stesso e l’inevitabile passione che spinge, per vincoli di sangue e di ventura, a non abbandonare alla loro sorte i contadini. È una riflessione che per la delicatezza delle implicazioni attiva uno strenuo esame di coscienza che si sviluppa più in privato che in pubblico, specie nella forma della confessione e dello sfogo con persone di cui si fida, ad esempio Vittoria Botteri; infatti, è nelle lettere a lei indirizzate che si rinvengono gli elementi più significativi .

“Bisogna cominciare da chi siamo noi. Io sono uno che gioca a dissipare le proprie energie nei lavori più pesanti e non c’è esito di una giusta strada e nessuno ancora mi licenzia. Sai che scrivo. Sai che comando, che servo, che parlo nei comizi, che, in qualche modo, ho un impegno di carriera, che devo laurearmi. Sono uno degli altri, non sono più mio”, così nella lettera del 5 maggio 1949. Viene registrata la palese sproporzione tra l’impegno profuso e i risultati da utilizzare per un giusto riconoscimento e la risoluzione pratica di suoi problemi (la laurea, che mai conseguì): l’inghippo sta lì, è uno degli altri, non appartiene più a se stesso; ciò comporta la rinuncia a una vita privata, assorbito e travolto com’è dall’identificazione in quella collettiva. In un appunto del settembre 1950 vi è un chiarimento ulteriore: “Dove andrò a trovare il nocciolo – se devo scrivere – di questi paesi? Tutti mi salutano, non c’è bisogno di statistiche e inchieste per sapere delle persone. Mi salutano ‘Buona sera, Buon giorno’ – rispondo ‘salute’ a ogni passo. Loro sono molti, sono tutti. Io non vorrei più camminare per queste strade, sono un principe o un prigioniero?” Il punto è proprio nell’interrogativo finale: si è principi o prigionieri quando la compenetrazione con il mondo circostante è totale, la conoscenza perfetta al punto da fare a meno degli strumenti euristici della sociologia? Per il sol fatto che Scotellaro pone il quesito, sembra, almeno in questa circostanza, propendere più per la seconda ipotesi .

L’assillo è comunque retrodatabile almeno al 1948, annus terribilis. Nella lettera del 4 ottobre: “Non voglio più sentire l’odore marcio delle sacre famiglie. Qui in provincia c’è la nostra massa che mi rivuole, mi idolatra, sa come vanno queste cose oggi; ma mi rimetterei alla loro mercé per dimenticare i miei modesti interessi di vita. Io sono come loro, devo lavorare, sono un disoccupato e un povero che viene arrestato”. È un momento di disamore estremo che va collegato alla situazione politica generale (la “pozzanghera nera” del 18 aprile) e alla sopraggiunta crisi a livello locale con le dimissioni da sindaco il 2 giugno. Con questi riferimenti e le specificazioni contenute nella lettera del 19 giugno il quadro risulta più comprensibile: “In questi giorni – dimettendomi – ho voluto rivoltarmi contro tutta una situazione che mi pesava. Sto meditando sull’avarizia di amore degli uomini e dei compagni, a cui si è donati se stessi”. Nell’atto delle dimissioni c’è dunque una componente personale e soprattutto il segno di una frizione nei rapporti con la base contadina, cui rimprovera egoismo e certa dose di opportunismo che mal ripagavano tutti i suoi sacrifici. Amara puntigliosa potente la certificazione che Rocco fa del proprio stato e la conseguente, anche se non esplicita, rivendicazione di diritti che gli dovrebbero essere riconosciuti: “Io sono come loro, devo lavorare, sono un disoccupato e un povero che viene arrestato”; sì, anche l’arresto (dal 25 al 27 settembre) che era la triste avvisaglia di ciò che sarebbe esploso nel 1950 sempre per gli stessi fatti. Del resto, anche prima di questa turbinosa concentrazione di eventi non è che la situazione fosse migliore: “Ora sono qui, dopo la breve parentesi di Rimini che mi ha offerto occasione di respirare, mi trovo qui ripreso dal gorgo: disoccupati, pratiche di assistenza, miserie morali, pettegolezzi; in questo gorgo vivo la prima parte e il meglio di me si sciupa” (Lettera del 19 maggio) .

Non deve quindi meravigliare che Scotellaro pensasse seriamente di andar via (“Sono spinto da questa ossessione di cercare altrove di qua il mio nido. Sarà che chiedo troppo, sarà che sono un meridionale di quelli che scappano”, lettera del 27 luglio). In verità, non chiedeva troppo chi semplicemente invocava una libertà dal bisogno; una più che legittima esigenza umana, forse sbeffeggiata da chi vuole tutto all’insegna di comportamenti politicamente corretti. Rientrava nelle insofferenze di Rocco e contribuiva ad alimentare sogni di fuga il rapporto complicato con il paese che “si scopre come il fondo limaccioso della grande fiumara che scorre sotto i piedi”. Oltre ai momenti di amore, lì si consumavano odi e vendette: “Mi vogliono fuori scacciato / gli uomini che solo loro parlano / attorno al monumento due faccie. / […] Io me ne andrò, sono un cane di nessuno / senza sua porta da guardare / nelle notti di luna”. Scotellaro non risolse il problema di un suo ruolo e di una funzione neanche con l’andata a Portici, dove pure fu accolto con molto affetto e disponibilità e molto imparò completando la sua formazione che faceva piuttosto leva sulla conoscenza diretta della realtà meridionale. Rimase in una situazione di provvisorietà, di cui si lamentava e che avrebbe probabilmente superato se la morte non fosse arrivata improvvisa. Così nel frammento di una lettera a un amico del 25 dicembre 1952: “Sociologico è stato certamente il viaggio con Carlo in Calabria: il resto non mi attira gran che se prima non so la decisione di Olivetti. Voglio essere sincero: prenderò tutto sul serio se vedrò una strada tracciata”

 

 

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