L’armistizio

 L’8 settembre 1943 – data fondamentale nella nostra storia – fu un giorno molto caldo, di piena estate, si sentivano le cicale frinire sulle siepi e il silenzio inondava la piazza, perché mancava la corrente e i due bar erano impossibilitati a trasmettere canzonette dai loro altoparlanti. Verso il tardo pomeriggio si diffuse improvvisamente la notizia che «la guerra era finita, la parola «armistizio » non fu pronunciata, nel giorno dell’armistizio fu parola sconosciuta. Mia madre piangeva, la gente si interrogava, cercava di capire cosa non era dato di capire; esplose la gioia.

Dopo dieci giorni, il 18 settembre, fecero il loro ingresso a Tricarico, su una jeep, un giovanissimo capitano, non ancora trentenne, e un soldatino canadesi. La tragedia delle stragi naziste e della lotta di liberazione ci fu risparmiata.
Trufelli, nel racconto dell’8 settembre, cancella l’avverbio «improvvisamente», descrivendo un segnale d’annuncio dell’armistizio. Subito dopo (lo vedremo col prossimo post) immerge il lettore, dall’angolino in piazza dell’ufficietto dell’usciere giudiziaria, nella giornata delle grandi scelte del 2 giugno 1946. 
 
     Un rumore sordo, prolungato e ossessivamente uniforme  nella calda notte del 7 settembre 1943, con la luna piena, svegliò Fedele Martino. I! professore non era in grado di capire cosa stesse accadendo e andò al balcone per dare uno sguardo nella piazza. I soliti nottambuli, con la  testa per aria a guardare il cielo, si ponevano domande a voce alta: “Possono essere tedeschi»: “Ma che tedeschi,  sono inglesi o americani»; “Ma vengono da giù, dalla Sicilia»; «Allora vanno a bombardare»; «Ma dove?»,
Prima sordo e lontano, il rumore ora sembrava scivolasse  sulle case. Non c’era una nuvola e in pochi secondi una formazione di aerei, come grandi falchi neri, apparve sulla loro testa e scomparve dietro le colline. Verso Napoli,  o forse Roma, comunque verso l’altra Italia.
“Sono bombardieri, ma sono già passati», disse rassicurante il professore alla donna di servizio che si era affacciata alla finestra della sua camera da letto.
La mattina dell’8 settembre, un mercoledì pieno di sole,  nel cielo del paese passavano a ondate aerei inglesi e americani; c’era sempre chi sapeva riconoscerli. I! ronzio sordo si disperdeva tra lo stupore, la curiosità e l’ansia degli spettatori inermi della piazza.
I! crollo del regime fascista non aveva portato ancora libertà e pace. Erano stati abbattuti in un violento furore popolare i simboli del fascismo, ma restavano in piedi le rigide leggi militari, «per timore di disordini».
«Viviamo nell’equivoco più assurdo, siamo ancora in guerra con tutti … e con nessuno», commentava don Armando, passeggiando con l’amico Fedele di prima mattina. Proprio in quell’istante un boato terrificante fece tremare i vetri delle case, seminando panico tra la gente che, colta di sorpresa, cominciò a fuggire terrorizzata senza  rendersi conto di cosa fosse realmente accaduto. Urla e  pianti, richiami accorati: fuggivano tutti dalla piazza e  dalle strade vicine, si cercava una via di scampo verso la  campagna, anche tra le grotte e i burroni.
In quel marasma generale don Armando e Fedele Martino si accorsero di essere rimasti soli. Per più di un’ora la  piazza si raggelò in un silenzio cupo e allucinato. Si erano zittiti pure gli uccelli. I! canonico e il professore, superato lo spavento, guardarono intorno e videro bruciare  gli alberi sulla cima del monte di fronte al paese.
Non ci volle molto per capire che una bomba era stata  sganciata da un aereo inglese, presto scomparso con una scia nel cielo azzurro di quella mattina. Era il giorno dell’armistizio. Quell’ordigno, caduto probabilmente per errore, tolse l’illusione che la guerra fosse davvero finita.

 

 

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