Dall’armistizio alla campagna elettorale per le grandi scelte istituzionali del 2 giugno 1946: il racconto di Trufelli procede senza soluzione di continuità. La Lucania fu “liberata” nello stesso mese dell’armistizio – settembre 1943 -, e nell’ancora lungo periodo che doveva trascorrere fino alla sconfitta del nazifascismo, partecipò attivamente con le altre regioni meridionali alla preparazione del «nuovo ordine». Ma Quando i galli si davano voce non intende raccontare la storia di quel periodo. Il “non essere storia” ma pura letteratura mi impone, come negli ultimi post, che lasci proseguire il racconto esclusivamente alla penna di Trufelli: qui non vi sono veli da sollevare per mostrare quali “fatti tricaricesi” hanno ispirato l’autore, come altrove mi è parso opportuno intervenire. Io ricordo chiaramente il ritorno di Nitti a Tricarico e il suo comizio dalla cappella di San Pancrazio, ma non avrebbe alcun senso che sovrapponga il mio racconto di quello storico evento al racconto di Trufelli. Diversamente dal comportamento tenuto per il ritorno di Pietro quale capo del sindacato italiano, racconto di fantasia, che non a caso ho anticipato.

     Cercherò ora di spiegarmi il senso del “racconto letterario” della campagna elettorale per il 2 giugno, che si svolge attraverso due comizi: il comizio di Ninì e quello di Nitti.

Il primo evoca il nuovo che emerge e il comizio di Nitti la rivincita di un glorioso passato politico, che conoscerà momenti di pienezza quando, nel 1947, Nitti otterrà dal Presidente Enrico De Nicola l’incarico, che non ebbe successo, per la formazione del governo in seguito alla crisi della scissione socialdemocratica di Giuseppe Saragat e, quando, nel 1952, capeggiò il listone di sinistra per le elezioni amministrative di Roma.

     Il comizio di Ninì intende in particolare evocare l’inizio dell’impegno politico di Rocco Scotellaro. Abbiamo già visto turbarsi la serenità di don Giacinto per le bandiere rosse che si vedevano sventolare sempre più numerose e i militanti coministi e socialisti “con un giovane pelo rosso che li guida”. Ninì è diventato maestro di scuola, insegna ai bambini di una seconda elementare, ma non ha ancora compiuto i ventun anni per votare. Nel comizio sostiene le ragioni per cui bisogna votare per la repubblica e ma nel prosieguo del racconto sapremo che aveva compiuto una scelta socialista. Ma, per la giovane età, non potrà dare il suo voto alla repubblica e al socialismo.  

     Il comizio di Nitti è articolato, intessuto di dialogo con gli ascoltatori, non pochi dei quali ricordano il lucano capo del governo prima di Mussolini.

Non mi pare tuttavia fuori luogo, a questo punto, aggiungere alcune annotazioni sul nittismo in Lucania alla ripresa della vita democratica. Esso poggiava sulle solide basi del più attivo movimento politico operante in regione guidato dal nittiano Vito Reale, ministro dell’interno del governo Badoglio e sindaco di Potenza. Il movimento politico di Nitti (l’Unione democratica nazionale), alle elezioni del 2 giugno 1946 ottenne 58.209 voti, col 22, 5 per cento, classificandosi secondo dopo la Democrazia cristiana, partito che ottenne il maggior numero di voti, 80.094 pari al 31,3 per cento. I socialisti, che precedettero i comunisti, si fermarono al terzo posto con 41.026 voti, pari al 16,3 per cento, e i comunisti furono quarti con 33.360 voti, pari al 13 per cento. A Tricarico la D.C. conseguì largamente la maggioranza assoluta, con una percentuale di voti quasi doppia rispetto alla media regionale.

     L’irrompere dei grandi partiti di massa costituiva anche in Lucania (tale era ancora formalmente e giuridicamente il nome della nostra regione) la novità più evidente, apportatrice di un nuovo clima rispetto al passato: si creava un altro mondo rispetto al prefascismo, un mondo nel quale mostravano di sentirsi sempre più a loro agio comunisti, socialisti e democratici cristiani, e sempre meno Nitti e i suoi seguaci. Il declino di Nitti è una pagina di storia che trascende la persona del grande lucano, e alla quale qui ho potuto solo accennare, e nel contempo evoca drammi personali. Nella prima legislatura repubblicana Nitti fu senatore a vita. Nell’imminenza delle successive elezioni, egli si preparò a scendere in campo nelle file dell’Unione democratica nazionale. Ma la morte della moglie Antonia lo scosse profondamente, tanto da indurlo a non accettare la candidatura e a non partecipare alla campagna elettorale. I suoi, intanto, si disperdevano. L’ex ministro dei governi Badoglio II e Bonomi I e II Francesco Cerabona accettava la candidatura con la sinistra, il prof. Raffaele Ciasca veniva presentato al Senato, nel collegio di Melfi, come indipendente della Democrazia Cristiana. Altri si trovarono a sostenere il Blocco Nazionale, l’inedito cartello elettorale sorto attorno a quello che rimaneva dell’Udn e dei qualunquisti di Giannini. Si chiudeva, così, una gloriosa pagina di storia lucana e nazionale. Un declino che, data la mia oramai lunga vita, ho rivisto nella vicenda politica di Emilio Colombo.    

 Ecco, ora il racconto di Trufelli.    

 Lo seguì don Armando; richiamato da una voce amica dalla piazza, non seppe resistere. E non si era sbagliato: davanti al microfono  predisposto per i comizi, in cima ai quattro gradini del ternpietto, di fronte a una folla che ascoltava e di frequente applaudiva, stava parlando Ninì (Ninì per i compagni della scapigliata adolescenza; Giovanni per chi non lo aveva frequentato quand’era ragazzo; “Signor maestro”  per gli alunni della seconda elementare, la classe che gli  era stata affidata dalla direzione scolastica). Ma per don  Armando era rimasto il Ninì di sempre, anche se non gli  serviva più la messa nella chiesetta di campagna: prima a  cinque, poi a dieci lire per ogni prestazione liturgica.  Canonico e professore si fermarono ad ascoltarlo. Era  quasi giunto alla fine del comizio per il partito repubblicano. Finale con toni accesi da oratore consumato (aveva  ventun anni, non ancora compiuti, gli mancavano soltanto undici giorni per poter votare. Il suo rammarico).  Per qualche attimo, mentre parlava, cercò con lo sguardo  e li scoprì vicini al monumento don Armando e il professor Martino. Si fece insopprimibile per lui l’esigenza di  mostrarsi più sicuro e giunse alla conclusione con foga e  autorevolezza:

«Votare per la repubblica è soltanto un atto di fede. Superare la logorata monarchia significa giungere a una forma di vita sociale più alta, più intelligente. Quanto ai diritti, basta il diritto della libertà».
Ottenne la ricompensa degli applausi da un pubblico che  «brulicava di anime vive». Don Armando avvertì una sorta di orgoglio che trasmise con lo sguardo all’amico Fedele il quale, senza quell’aria un po’ canzonatoria che accompagnava spesso i suoi commenti, gli disse:
«Lo hai cresciuto bene!»
Al canonico piacque l’idea che anche un prete potesse  crescere un figlio. Ninì, appunto, già di fronte a lui con  una chiassosa compagnia di giovani, che lo avevano sostenuto con tanti «bravo» scanditi durante il comizio.
Un «bravo» detto con tono pacato, un assolo fra tanto clamore, glielo donò don Armando che, come ai vecchi  tempi, con la mano – ma dovette sollevare il braccio per  sfiorare la testa – gli scompigliò non più di tanto i capelli neri e folti con un ciuffo che cadeva spensierato sulla  fronte. Ninì sorrise riconoscente e indicò il padre all’ombra dell’albero di acacia in fiore. Carmine Pisani si avvicinò al canonico, i due si salutarono con particolare effusione. Un saluto altrettanto cordiale con Fedele Martino. Il professore gli ricordò i tempi della corrispondenza semiclandestina: lo scambio di lettere con don Armando «con consegna rigorosamente a mano».
«E per quei tempi, in buone mani!» aggiunse Pisani.  D’un tratto l’altoparlante s’intromise nei loro ricordi.  Annunciava un comizio. «Importante, straordinario: il  Presidente Francesco Saverio Nitti, dopo più di venti anni di esilio in terra straniera torna nella sua terra. Parlerà  domani mattina alle ore undici in questa piazza per l’Unione democratica nazionale». Finale di rigore: «Accorrete tutti, numerosi». Intermezzo musicale con Va pensiero  del Nabucco di Verdi e dopo «il patir» ripetizione dell’annuncio.
Don Armando, che sapeva, a Ninì sorpreso dalla notizia:  «Quando eri ragazzo e ti leggevo qualche lettera che mi  arrivava dalla Francia, tu una volta mi chiedesti chi era e  com’era il Presidente. Lo vedrai domani quando verrai  con me a riceverlo».
«Ma com’è diverso da come me lo immaginavo!» si disse  Ninì quando vide Francesco Saverio Nitti al braccio di  don Armando, imponente e radioso accanto al suo amico Presidente. La prima immagine che il giovane aveva  colto era stata quella di una persona anziana, appesantita non soltanto dagli anni, lo sguardo tuttavia sempre in  movimento.
Entrò come in processione nella piazza, la gente usciva dalle case per vederlo e salutarlo. «Si è commosso» sussurrò all’orecchio di Ninì il canonico mentre Nitti saliva  lentamente i quattro gradini del tempietto dove l’attendevano i portavoce del movimento politico col quale era candidato all’Assemblea costituente.
Non furono necessarie – probabilmente il Presidente non le chiese – le presentazioni di rito. Bastò il primo caloroso applauso appena si presentò alla folla che subito mise  fuori i toni più alti e possibili della voce amplificati dall’altoparlante. Il «ben ritrovati!- fu ripetuto con l’enfasi di  quando si crea un contatto immediato col pubblico.  Non parlò dell’esilio, non citò neppure la parola fascismo, ma tra i sussurri della piazza, con l’odore dei fiori delle acacie che si diffondeva nell’ aria, parlò di primavera. «La nostra nuova primavera di libertà» disse.
Da qualche parte ci fu trambusto e dalla folla uno gli  gridò:
«Presidente, scusate l’interruzione, ma abbiamo soltanto  invitato l’ex capo della milizia ad andarsene. Non era giusto che stesse qui. Niente di più».
Sul volto di Nitti comparve per qualche attimo quella sua aria sorniona e ironica che era piaciuta a pochi nel passato. Fu una risposta silenziosa, ma non sfuggì alla piazza  che fece sentire la sua squillante approvazione.
Nitti riprese a parlare, ma senza la retorica dei comizi; parlava come se dialogasse, della Basilicata, una regione del Mezzogiorno «dimenticata dal deprecato ventennio».  Tra le sue risorse, citò «l’acqua, l’oro bianco della nostra  terra, una grande ricchezza naturale mal gestita, anzi  sprecata» e i boschi, «altro prezioso patrimonio naturale che il dominio di ottusi proprietari saccheggia favorendo il dissesto incontrollabile del territorio». Parlò anche di se stesso. Disse di essere nato in un paese di contadini, dove l’unica passione era la terra che essi coltivavano con  tanti stenti e tanto poco frutto. E che poco o nulla era  cambiato nel frattempo, anzi, la condizione dei contadini era peggiorata con la guerra e l’abbandono dei campi.  Il vecchio statista, maestro di meridionalismo, con veemenza proiettò il suo discorso sul futuro:
«Sono indispensabili profondi cambiamenti e grandi  riforme, a cominciare da una radicale trasformazione delle classi dirigenti meridionali».
La piazza capì la lealtà e la passione con cui pronunciava  queste parole ed esplose nell’applauso. Don Armando, ai  piedi del tempietto, a Ninì che gli stava a fianco:  «Questa sarà una giornata da ricordare per il nostro paese».
Si guardò intorno: in disparte, in un angolo della piazza, don Alfonso e don Giacinto ascoltavano il discorso dello statista che aveva riscosso grande rispetto, ma anche avversione, a seconda del suo comportamento, tra lungimiranza politica o impietosa ironia.
Il Presidente continuava il suo dialogo con la gente, parlava di un’Italia da ricostruire e di una «Basilicata tante volte sognata». Il soffio della primavera si era fatto più forte. Una voce dalla folla interruppe l’oratore:  «Presidente, con tutto il rispetto voglio ricordarvi che la  nostra regione si chiama Lucania, perché voi la chiamate  Basilicata?».
Nitti si fece serio. Con le braccia che si alzarono per chiedere un’ attenzione in più esclamò:
«Quando dovetti abbandonare l’Italia tanti anni fa la mia regione si chiamava, e giustamente, Basilicata ed io mi sono sempre considerato, e l’ho scritto, un basilicatese. Si  chiama Lucania adesso perché così ha voluto il fascismo  che intendeva esaltare, anche nel nome della nostra regione, la retorica del regime resuscitando la gloria di Roma e dell’impero, che però erano tutta un’altra cosa».
Si sentì qualche brusio e dal fondo della piazza, dov’era apparsa come da un palco mobile una bandiera tricolore con lo stemma di casa Savoia, un sostenitore della monarchia con evidente tono polemico:
«Presidente, se a voi piace, fatevi chiamare pure basilicatese. Ma sappiate che noi, dovunque e comunque, ci chiameremo, e ci faremo chiamare sempre, lucani !».
Ci fu un tiepido applauso liberatorio e un sorriso distaccato di Nitti che concluse il comizio con un vigoroso appello a votare per la repubblica.
Giù, ai piedi del tempietto, lo statista soffermò lo sguardo sul pannello del guerriero con corazza elmo spada e un ramo fiorito nella mano sinistra. «Era un antico romano convertitosi al cristianesimo nel secondo secolo  dopo Cristo. Morì martire nell’arena. È il patrono del  nostro paese» spiegò don Armando. Nitti apprezzò la  qualità dell’opera.
E Ninì, fresco negli studi di storia dell’ arte, ci tenne a  precisare:
«L’opera è databile alla fine dell’Ottocento, il restauro è stato eseguito sette anni fa da un confinato politico che era bravissimo pittore».
Assediato dalla gente, il Presidente si teneva al braccio di don Armando e stringeva la mano a tutti quelli che riuscivano ad avvicinarlo. Una donna, non più giovane, azzardò un flebile «Buona fortuna, Presidente!». Arrossì per l’ardimento.
E Nitti, quanto mai affabile:
«Grazie, signora. Soprattutto adesso gli auguri servono». Caloroso l’abbraccio a don Armando che confermava  il forte e lungo sodalizio. Partì con due macchine al seguito verso Melfi, il paese dov’ era nato il 1868 e dove non  tornava da più di trent’anni.
 
 

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