Mancano nove pagine alla lettura di Quando i galli si davano voce; nove pagine ispirate dal fatto storico dell’occupazione delle terre. Decido di tacere sulle molte cose che vi sarebbero da dire dal punto di vista storico e politico e di invitare a leggere la versione letteraria di quel cruciale evento scritta da Mario Trufelli nelle nove pagine finali del suo bel libro. In essa si staglia nitidamente Tricarico con i tanti nomi, che tornano, dei rioni contadini e delle contrade; di alcuni nomi della contrade avevo perso il ricordo e ho fatto fatica a ricordare dove si trovano nell’agro tricaricese, ed è stata un emozione. Il movimento di occupazione ha un inizio con un «tramestio di gente in cammino», che pare una processione per don Armando «ricomposto in tonaca nera e mani in croce sul petto». Stupenda la chiusura che valorizza il lavoro contadino. « Gli uomini della terra andavano via sconfitti. Ma Vincenzo li rincuorava: «Dobbiamo lottare sempre, dobbiamo avere fiducia, anche perché non finisce qui». Proprio in quei giorni cominciarono a mettere i primi semi ».
Il libro è stampato in mille copie, Mario mi mandò la copia n. 611 con questa dedica: «A Tonino, “quasi un fratello, affettuosamente Mario – 16. 7. 2013». A Mario, “quasi” fratello mio, dedico la ri-lettura che ho fatto del suo libro su questo blog. La mia intenzione è stata e resta quella di esprimergli un esclusivo personale affettuoso ringraziamento. Lungi da me l’intenzione di sostituire alla lettura del libro quella dei miei riassunti, e neppure di offrire di esso un’ampia antologia. Mi auguro di cuore di essere invece riuscito ad accendere il desiderio di leggerlo integralmente. Per agevolare tale lettura mi sarebbe piaciuto pubblicare integralmente il testo del libro – anche per ripagare la fatica spesa per convertire in word la pagina stampata -, ma giustamente me lo impedisce il copyright.
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Dalla strada saliva un  tramestio di gente in cammino. Una donna del vicinato,  che con altre, secondo la consuetudine, aveva ricomposto  in tonaca nera e mani in croce sul petto il corpo senza vita di don Armando, si affacciò alla finestra e quasi interrogando Ninì esclamò:
«Quanta gente sta passando, sembra una processione. A quest’ora poi … »
Ninì senza alzare più di tanto la voce:
«Vengono dalla Saracena. Sono tutti contadini. Verranno  anche dalla Rabatana, e altri stanno arrivando dalla Civita. Vanno a lavorare, come ogni giorno. Ma questo sarà  un giorno molto particolare».
Non aggiunse altro. Lui sapeva, ma non era quello il momento e il luogo per spiegare che tutti quei contadini, tra i quali non mancava un gruppo di braccianti – i cafoni  come ancora si usava chiamarli – andavano sì nei campi, ma per occuparli. Era cominciata l’occupazione delle terre che in buona parte avevano coltivate per generazioni, come affittuari, come lavoratori stagionali, anche come braccianti, a giornata. Per consentire di vivere nel benessere ai pochi, privilegiati proprietari terrieri  del paese.
Nella strada, quando annunciò la scomparsa di don Armando, Ninì venne investito da un vortice di domande.  La notizia aveva colto tutti di sorpresa. Gli uomini con  le zappe sulle spalle e l’accetta sotto il braccio; le donne  alla testa di quella processione dietro alla bandiera rossa che un ragazzo faceva sventolare si fermarono davanti alla casa del prete amico. «L’unico che poteva veramente aiutarci- disse Vincenzo con un sibilo di commozione nella voce.
Dal fondo del corteo qualcuno gridò: «La terra deve appartenere a chi la coltiva». Fu come un richiamo, un’esortazione alla lotta che accompagnò gli occupatori per  tutta la giornata, dalla Civita a Serralamendola, dalla Trinità alle Marine, fino alle Fiumare con le vaste tenute del cavalier Dell’Acqua, l’ex podestà che con un binocolo  spiava la ciurma, parola che gli era rimasta nel sangue, da  una finestra della sua masseria, l’ampio caseggiato che  dall’alto della collina dominava tutta la vallata.
La sera prima aveva avvertito i carabinieri quando la notizia dell’attacco alla terra era uscita, clandestina, dalla  Camera del Lavoro.
«È scoppiata la rivoluzione! È una rapina!» urlò rivolto al  maresciallo che con lui, dal suo rifugio patriarcale, assisteva all’insolito rituale dell’ autoassegnazione delle quote che avveniva in reciproca fiducia e con l’ansia di poter  coltivare finalmente un pezzo di terra propria.  L’occupazione era pacifica, quasi una festa dove tutti facevano calcoli come consumati agronomi. Segnavano con i passi il territorio che marcavano ettaro per ettaro,  tomolo per tomolo. Erano entrati in campo anche gli  aratri, trasportati a dorso di asini e muli. Michele, che era  stato anche lui in galera per la rivolta del pane e al quale  era stato assegnato un tornolo di seminativo (aveva soltanto la moglie), si distinse fra tutti gli altri che avevano  “sottoscritto” il proprio pezzo di terra con stracci bianchi  infilati sulla punta delle canne, srotolando uno striscione  di tela sul quale spiccava il ritratto di Giuseppe Garibaldi, pubblicità residua della campagna elettorale social-comunista nel quarantotto.
Ci fu anche qualche momento di batticuore quando in  lontananza apparve una coppia di carabinieri.
«Ma allora non è cambiato proprio niente» gridò afflitto  un vecchio contadino della Trinità, la contrada più povera del paese.
«Non darti pensiero, almeno per il momento in galera  non ci andiamo» gli replicò ridendo un bracciante che col forcone ripuliva dall’erba secca il suo territorio, un  minuscolo pezzo di vigna che si era scelto per rispetto  della tradizione di famiglia. Era notorio che il padre,  esperto vignaiuolo, era anche uno dei più attivi frequentatori di cantine. All’imbrunire di quel giorno che arrivò  a sorpresa con un sole pallido che traspariva a tratti da  una nuvola nera, tutto prese un ritmo meno risoluto.  “Per oggi basta quel ch’è fatto» si dissero. E si passarono  la voce, da una contrada all’altra, con ordine preciso: «andare in paese, ritornare nelle proprie case, ma lungo vie traverse, a piccoli gruppi per non dare nell’ occhio, per evitare la piazza dove, si sa, passeggiano i padroni». E nel  silenzio di quella notte – ma i contadini l’avevano già fiutata – cadde abbondante la prima neve.
Il giorno dopo nella cattedrale ci furono funerali solenni  per don Armando: la chiesa in lutto e sfilata dei canonici con paramenti viola.
«Questa neve oggi proprio non ci voleva, sarà un problema arrivare al cimitero» si lasciò sfuggire don Alfonso alla fine della messa.
Ci pensò un gruppo di contadini a mettere mano alle pale e liberare la strada. Durante il tragitto dalla chiesa al camposanto la bara veniva portata a spalla, a turno,  da quattro giovani amici di famiglia e da quattro contadini.
Nunzio, il carbonaio, quello che avrebbe voluto mandare “affuoco” il municipio, chiedeva con insistenza di  poterla portare anche lui, la bara. Ma venne scoraggiato amabilmente da un prete:
«Tu sei molto più alto di loro, faresti perdere l’equilibrio a don Armando».
Nacque un sorriso sulle labbra di molti.
Con l’arrivo della primavera nelle terre occupate accadeva di tutto. Tra la sorpresa generale un giorno arrivarono anche due famiglie di ortolani. Si unirono alla  protesta e chiesero di poter occupare un po’ di terra da destinare a orto. Si videro assegnato un tomolo di terreno lungo il corso del fiume che grazie alle abbondanti  nevicate e alle piogge aveva ritrovato la libertà. Fino a quel momento nessuno aveva idea di come sarebbe andata a finire. Gli avvocati dei padroni avevano tuonato nell’aula giudiziaria per l’usurpazione della proprietà privata. Ma i contadini si erano già messi all’opera sui  terreni che una volta erano destinati a grano. Era cominciata una guerra, ma con le zappe, con i forconi, con le accette e con gli aratri. Ogni volta che una fila di solchi disseppelliva, dopo anni di abbandono, cumuli  di terra nera, che tornava a respirare, si gridava all’ evento.
Una mattina, alle Fiumare, trafelato arrivò Ninì con altri amici, i compagni della Camera del Lavoro. A Vincenzo che gli era corso incontro, con tono concitato:  «Stanno arrivando i carabinieri e l’ufficiale giudiziario.  Saranno momenti difficili, perciò ti prego di convincere anche gli altri di non fare assolutamente imprudenze.  Un gesto sbagliato e potreste compromettere la vostra  stessa libertà».
Ebbe un groppo alla gola:
«Vincenzo, vi cacciano in nome della legge. Ha vinto la  cattiva coscienza dei padroni. L’ho fatto sapere anche alla Trinità, a Serralamendola, fino alle Marine».
«Hanno scelto proprio la giornata giusta per darci questa condanna, oggi è venerdì santo. Ma qui non siamo  sopra un calvario, qui siamo sopra una buona terra,  questa è una terra che vuole essere coltivata. Ma perché,  perché tanta cattiveria, perché non ce la lasciano?»  Ebbe un momento di fragilità. Ninì, sollecito:
«Ma noi non ci fermeremo qui. I nostri avvocati stanno  già preparando le controproposte avverso la richiesta del pretore di restituzione immediata dei terreni. Ci sono buoni motivi che si possa ottenere giustizia. È scritto anche nella nostra Costituzione».
«La giustizia non è di questo mondo» sentenziò Pancrazio, della Rabatana. E subito gli fece eco Carmela, la moglie di Rocco, un altro eroe della sommossa per il pane.  Piangeva Carmela, ma riuscì a farsi sentire e a farsi capire:  «Hanno succhiato il sangue ai nostri genitori, lo hanno succhiato a noi e vorrebbero succhiarlo anche ai nostri figli. Ma noi di qui non ce ne andiamo. Sono giorni e giorni che lavoriamo come bestie per rigovernare questi terreni abbandonati».
Le andò vicino Vincenzo, le prese tutte e due le mani tra  le sue:
«Carmela, vuoi farci tornare nel carcere come nel quarantadue? Guarda là, sono già arrivati i carabinieri, già  sono schierati lungo la strada. E sono tanti».
Erano scesi da un camion militare, con loro, nella cabina  di guida, aveva viaggiato l’ufficiale giudiziario, don Gaetano, come lo chiamavano in paese, l’anziano usciere ricopriva, secondo le esigenze della Pretura, entrambi gli incarichi. Gli camminavano a fianco un maresciallo e un  appuntato, sembrava lo stessero scortando. Si diressero  verso il centro dell’ampia tenuta dove si erano riuniti tutti, i contadini, i braccianti, e gli ultimi arrivati con mogli  e figli, gli ortolani.
L’ufficiale giudiziario (facente funzioni) si muoveva con  difficoltà sul terreno che era stato smosso dagli aratri. Gli andarono incontro Rocco e Vincenzo, i carabinieri (di  scorta) si erano allontanati, e lui si fece aiutare a scavalcare un fosso. Si trovò di fronte a una folla che lo guardava ansiosa di sentirlo parlare.
E don Gaetano parlò. Lo conoscevano tutti, quasi tutti.  Portava con sé una borsa di pelle nera. Rocco l’aiutò ad aprirla, lui mise fuori dei fogli intestati «Pretura di .. eccetera». Si lisciò i baffi, il suo antico orgoglioso gesto che  faceva quando doveva superare una difficoltà, e disse cadenzando le parole:
«Sono qui nel nome della legge, ma questa volta ne avrei  fatto sinceramente a meno».
Lo aveva confessato anche ai suoi amici canonici quando  gli venne consegnato, per la notifica, l’atto del pretore.  Disposti in uno spazio assai ampio, tutti avevano lo  sguardo fisso su di lui che “nel nome della legge”, appunto, cominciò a leggere il provvedimento del giudice il quale, accogliendo l’istanza dei legittimi proprietari, intimava la liberazione delle terre illecitamente occupate. Si sentì una voce, soltanto una, dal centro del gruppo:  «Altrimenti che può succederci?»
L’ufficiale giudiziario, caricandosi questa volta di autorità:
«Altrimenti si autorizzerebbe la forza pubblica ad applicare anche la forma coercitiva».
Il silenzio si poteva tagliare con le accette. La presenza di  tanti carabinieri – mai visti trenta militari dell’arma tutti insieme – più che provocare rabbia, aveva demoralizzato la folla.
«Adesso, che facciamo?» Era la domanda cha passava a  bassa voce da uno all’altro.
Si fece avanti Ninì che fino a quel momento era rimasto in disparte con gli amici. Il suo vecchio, caro don Gaetano se lo chiamò vicino. Gli disse qualcosa e il giovane fece cenno di assenso con la testa. Alla fine fu ancora Ninì ad aprire il dialogo con il popolo degli occupatori; in piedi sopra un mucchio di sassi che gli consentiva di vedere  tutto e tutti:
«Lo so che per voi non c’è cosa che abbia più valore della terra e che l’umiliazione di dover abbandonare un’impresa nella quale avevate riposto ogni fiducia vi fa cadere  il mondo addosso. Ma la legge, purtroppo, va rispettata».  «E tutto il lavoro che abbiamo fatto in tutti questi giorni, per chi lo abbiamo fatto, per il signor padrone che ci guardava soddisfatto col suo binocolo dalla masseria?»  L’intervento polemico di Rocco fece alzare la testa a molti e da varie parti si levarono voci, imprecazioni, grida di  protesta.
I carabinieri che erano rimasti schierati lungo la strada si  mossero insieme e quasi di corsa piantonarono l’area. La folla dava segni d’insofferenza.
Il maresciallo avvicinò alcuni che sembravano i più irrequieti, cercò di convincerli a non continuare con quella  «inutile protesta»: parole testuali del comandante che scatenarono la rabbia di un bracciante. L’uomo perse il controllo e spintonò il maresciallo, lo fece barcollare. Immediato l’intervento di due carabinieri che lo immobilizzarono. Apparvero le manette. Ma il graduato con un gesto  deciso della mano fece capire al militare di riporle.
Il bracciante si rese conto della gravità del gesto, girò lo  sguardo spaurito sui compagni, scoppiò a piangere davanti al maresciallo che a quel punto, approfittando dell’imbarazzo generale, gridò:
«Dovete andare a casa, dovete abbandonare subito queste  terre, lo impone la legge. E noi siamo qui, con l’ufficiale  giudiziario, per farla rispettare, la legge. Anche con la forza».
E mise la mano sulla fondina. Un gesto involontario?  Michele, un reduce di guerra, che si definiva “comunista  contadino”, un irriducibile, vide quel gesto come una minaccia. E si mise a ingiuriare i compagni:
«Ma non avete visto proprio niente? Il maresciallo potrebbe spararci con la sua pistola d’ordinanza. La legge è  dalla sua parte».
E con lo sguardo incrudelito interrogava Ninì che si era  messo in mezzo a loro.
«Ma ti sembra proprio possibile e così facile che si possa  sparare sulla gente che cerca soltanto lavoro» disse, ma senza molta convinzione. Michele volle insistere:
«Ma te lo sei scordato quello che hanno fatto? Hanno sparato sui nostri compagni che andavano a occupare le  terre, come noi. E ci sono stati più di dieci morti, ammazzati dalle cosiddette forze dell’ordine».
Una voce gracchiava intanto dal megafono che Vincenzo  si era portato dietro dalla Camera del Lavoro. Invitava gli occupatori a raccogliersi in gruppo, all’aperto, per discutere e prendere decisioni. Uomini e donne si chiusero in  cerchio guardati a vista dai carabinieri, che si erano infoltiti. Era arrivato con gran rumore un altro camion.  «Cosa facciamo?» Fu questa la domanda secca di Vincenzo che cadde come un macigno sulle facce sbigottite dei contadini che si guardarono non sapendo se zittire o indignarsi. Ma non s’indignarono, e neppure zittirono: si misero a cantare bandiera rossa. L’inno liberatorio fu ripetuto e Ninì, che era tornato sul mucchio di sassi che gli  consentiva di allargare lo sguardo, si trovò davanti alla  turba che cominciava a gridare, come un ritornello: «Occupazione, Occupazione! All’infinito».
Una voce solitaria, uscita dal coro:
«Andiamo a occupare la masseria del signor cavaliere che  sta banchettando con i suoi amici avvocati».  «Occupazione, occupazione».
II ritornello diventava ossessivo, mentre la cintura dei carabinieri si faceva sempre più stretta e vicina. Tra una fila e l’altra dei militari era apparsa anche la canna di qualche fucile e Rocco, della Saracena, afferrò per un braccio il giovane che stava sbraitando contro un graduato:  «Non vedi quanti ce ne sono? Ti vuoi rovinare?»  Vincenzo chiedeva intanto attenzione, supplicava silenzio. Fu costretto anche lui ad alzare la voce, riuscì a farsi ascoltare. E lanciò la proposta di andare tutti a Roma, a  gridare le ragioni sacrosante davanti al Palazzo del Governo. Doveva finire questa farsa di andare sempre scappando davanti ai carabinieri. A Roma sarebbero arrivati  anche i compagni degli altri paesi e lì ci sono i deputati  che difendono la causa in Parlamento.
Un intenso brusio che esprimeva sorpresa e poi tante voci di approvazione.
Da lontano arrivò anche la voce di don Gaetano. L’ufficiale giudiziario parlò lentamente:
«Vi siete accorti che si sta avvicinando la sera? Ascoltate  me che ho anni di esperienza, resistere non serve a nulla,  fareste soltanto danni a voi stessi e alle vostre famiglie.  Qualcuno potrebbe perdere la pazienza … e allora? Con  calma prendete i vostri attrezzi e tornate a casa. Questo vorrebbe e dovrebbe essere un ordine. Ma voi consideratelo soltanto il consiglio di un amico».
Nel silenzio che seguì alle parole dell’anziano usciere gli occupatori si consultarono, più con gli sguardi che con le  parole. E si passarono il segnale: dividersi per gruppi.  Sull’ampio territorio della Fiumara ognuno cercò i propri  attrezzi, la zappa, il tascapane, l’accetta. Sugli asini e sui  muli tornavano gli aratri con la terra ancora attaccata al  vomere. I carabinieri, in disparte, sorvegliavano.
Gli uomini della terra andavano via sconfitti. Ma Vincenzo li rincuorava: «Dobbiamo lottare sempre, dobbiamo avere fiducia, anche perché non finisce qui».
Proprio in quei giorni cominciarono a mettere i primi semi.
 

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