DAI RACCONTI DI ENRICO BUONO
TEMPO D’INVERNO
Il problema del riscaldamento

    I  Racconti di Enrico Buono offrono interessanti scorci della dura vita nei nostri paesi un secolo fa e trasmettono la felicità della nostalgia. Comincio a trarne da Tempo d’inverno  oblio, ma i più anziani possono riconoscere il palazzo Uricchio in viale Regina Margherita, dove per lunghi decenni ha avuto sede la caserma dei carabinieri e, al piano superiore, ha abitato don Giulio Buono, padre di Enrico; e possono riconoscere il portone dove Cartabianca spaccava la legna.

Il vecchio Cartabianca –  padre o patrigno del Cartabianca presente in tutti i matrimoni,  feste e momenti di svago con la sua fisarmonica, accompagnato dalla chitarra di Paolo Luisi – è stato un personaggio tricaricese, più di quanto lo sarà il figlio, peraltro figura indispensabile per allietare i momenti felici con l’arte imparata dal padre di trarre dalla fisarmonica note sublimi. Non si sottraeva ad ogni sorta di lavoro e di fatica per tirare la giornata. Spaccalegna, accompagnava ogni colpo d’accetta con forte emissione di fiato:  grondava sudore da ogni parte; spesso si fermava, si inumidiva con lo sputo le mani callose e riprendeva a spaccare metodicamente. Gli portavano del vino che non rifiutava mai e che beveva lentamente, ma tutto d’un fiato, come  fanno di solito i contadini, pulendosi poi i folti baffi nerissimi col dorso della mano. Quando di notte nell’aria si innalzavano da un organetto grappoli di note vivaci non ci si sbagliava: era Cartabianca, un maestro, un artista dell’organetto che ricamava una tarantella indiavolata, leggera, armoniosa, trascinante,  una cascata di note argentine che risuscitavano i morti. Cartabianca, curvo sul suo strumento che tocca  quasi con l’orecchio sinistro, non sentiva, non vedeva chi gli era d’intorno. Un artista pago della sua arte, che seguiva con  occhi socchiusi, con viso malinconicissimo, un viso triste  che hanno solo certi cani di razza, che le note, quelle dita  stranamente agili, dita che maneggiano accette, ascia, pesi  enormi ogni giorno.
   L’inverno giunge improvviso e inaspettato e trova impreparati ad affrontare la sua durezza. C’erano altre spese da fare e non si è pensato a fare in anticipo provvista di legna da ardere. Ora, la legge del mercato sì impone: legna scadente e difficile da avere subito a prezzo salato.
   Compare anche Fruntone, che Enrico Buono chiama Frontone. A lui ho dedicato un post l’8 febbraio 2011, dove ho pure riportato una poesia di Mario Trufelli per la sua morte.
   Affrontato e a fatica risolto il problema del calore, bisognava affrontare il problema del nutrimento: procacciarsi il grano per fare il pane e la pasta, quasi esclusivo nutrimento. Al prossimo post. Ora buona lettura con questo primo frammento del racconto.

***

    Un giorno qualunque, quasi a tradimento, l’inverno ci piombava addosso.

   Ma se solo ieri era caldo e l’aria tersa?
   L’estate di S. Martino, un breve inganno, era finita e bisognava prepararsi all’inverno, al lungo e duro inverno “fregapezzenti” .
   La notte aveva soffiato la “voria” e cioè vento di borea, rabbioso e freddo.
Si era in filtrato dai giardini di monsignore, dalla parte di S. Chirico e come un gelido fiume aveva dilagato per viale Margherita, facendo vibrare lamentosamente i fili della corrente elettrica tesi sulla facciata della caserma dei carabinieri, e stridere il gallo di ferro sul tetto più alto del Palazzo Ducale.
   Dalle fessure dei balconi larghe un dito, il vento giocava a suo piacere, scuoteva le imposte e le porte, avvolgeva i nostri corpi immersi in un sonno pesante, mal difesi dalla sopracoperta di pichè bianco. Sentivamo nelle ossa i primi brividi quando al mattino, appena in piedi, guardavamo la strana luce delle nuvole nerastre, da cui capivamo che il dolce autunno era finito. Avevamo bisogno di legna, con urgenza, con estrema urgenza, poiché nel ripostiglio c’erano solo pochi ceppi dello scorso anno e qualche fascina di sterpi secchi buoni soltanto per animare il fuoco. Era stata “Incombennata”, cosi allora si diceva, una canna di legna del bosco di Fonti; ma l’impegno, assai vago di verità, era caduto nel nulla e la spesa, ritenuta troppo forte, era stata vanamente procrastinata. Ora non restava che correre ai ripari, chiedendo che la fornitura fosse adempiuta, per non correre il grave rischio di restare al freddo nel pieno dell’inverno.
   Ma i prezzi erano cresciuti per effetto della forte domanda; la qualità della legna era scadente perché bagnata e nodosa, la possibilità delle forniture molto ridotta.
   “Benedetto Dio”, esclamava Michele il fornitore ” perché non l’avete comprata a tempo giusto la legna? Vi  davo roba secca, tagliata a dovere e, voi non avete pensiero! adesso che ci posso fare? Vi prendete quella che c’è .. ” e  non aveva torto, il furbone, che guadagnava soldi a palata  giocando sulle forniture della legna, del grano e del vino.  Sapevamo bene che il traino di Frontone, carico di legna,  sarebbe arrivato chi sa quando, poiché non potevamo  fidarci della parola di Michele, il quale prometteva certo e veniva meno SIcuro.
   “Miché?”
   “Domani, don Giulio, domani senza meno” e  metteva la mano sul cuore. Ma quale domani? Lo sapeva  solo lui. Nell’attesa era prudente acquistare legna secca e  leggera, le “frascelle”, che i contadini del paese, fruendo di  un antico diritto di legnare, tagliavano nel bosco di Fonti,  lontano dodici chilometri dal centro abitato, dove si recavano a notte alta per essere sul posto ai primi chiarori del  giorno. La legna veniva tagliata, sistemata sui basti dei  muli o degli asini e trasportata in paese con qualunque  tempo.
Montavamo la guardia dai balconi di casa per  bloccare un carico di legna, in gara con quanti, per la  stessa imprevidenza, avevano le stesse nostre necessità.
Talora ci spingevamo anche oltre Santa Croce, fino a porta Monte, per anticipare i tempi e per evitare che  lungo il tratto di strada fino casa, altri potessero soffiarci il  carico. A colpo fatto, cominciava la schermaglia dei prezzi, come avviene tra i levantini; da una parte a disprezzare la  merce, dall’altra a vantarla oltre misura.
   “Quanto, Pancrazio?”
   “meno di sette lire, non pozzo”
   “Sette lire? Ma sapete cosa sono sette lire ?” E nel  dire ciò atteggiavano il viso a sbalordimento.
   “Saccio solo che sono camminato ore ed ore, ho  faticato molto e ho preso a meglia robba”.
   Aveva il poveraccio tanta ragione! Con tempi da  lupi quei contadini facevamo sforzi che solo l’estremo bisogno poteva incoraggiare. Oltre venti chilometri di strada  rotabile, col vento, con acqua, con la neve, col sole cocente; la fatica di recidere con l’accetta rami e rami fino a  completare il carico o la “salma” come si diceva allora:  spesso il timore di essere beccati dalla forestale poiché,  bisogna dirlo purtroppo, non erano mai a posto con le  norme di protezione dei boschi: tutto per sette lire, che  anche in quei tempi erano pochine.
   Le frascelle venivano scaricate all’ingresso del nostro portone, dapprima sfilate ad una ad una, quasi con  garbo, e poi a mano a mano che i nodi della corde o  “cocchie” si allentavano, tutto d’un colpo come se franassero.
   L’acqua recente o la brina notturna pativano quei  rami umidi di un verde tenero sul fondo bianchiccio. Piccoli vermi, strani insetti, lumachine pullulavano  nell’intrecci dei rami secchi e della polvere nerastra si depositava sulla strada.
   L’altra legna, una canna circa, un patrimonio! arrivava sempre quando meno ce l’aspettavamo.
   Il traino di Frontone, stracolmo, pericolosamente  in bilico e sempre sul punto di rovesciarsi, tirato da un  mulo tutt’ossi e piegato, arrivava scricchiolando sotto casa:  la legna veniva scaricata quasi a valanga, con tonfi che fa-  cevano tremare il caseggiato. Grossi tronchi “fracidi’” d’acqua e nodosi, di qualità scadente si abbattevano sui  lastroni di pietra dell’ingresso, lesionandoli, rimbalzavano  contro i muri completandone lo scrostamento, si accosta-  vano in disordine per ogni dove.
   Restava ora la fatica della spaccatura e prima che  sopraggiungesse la notte per evitare che la legna fosse  alleggerita di peso da ignote mani sempre pronte.
   Solo Cartabianca poteva compiere il miracolo: un  personaggio locale di cui avremo modo di parlare più diffusamente innanzi, il quale maneggiava l’accetta con precisione, con forza, inesorabilmente direi quasi. Cartabianca  arrivava in silenzio, in silenzio si preparava alla bisogna, e  col suo viso tristissimo su cui mai aleggiava un sorriso,  iniziava le fatica e colpo su colpo frantumava i pezzi più  ribelli. Noi gli eravamo d’intorno, anche se ammoniti a  scostarci per evitare che una scheggia partita con violenza  ci potesse rovinare. Cartabianca, scamiciato e velloso, accompagnava ogni colpo con forte emissione di fiato:  grondava sudore da ogni parte; spesso si fermava, si inumidiva con lo sputo le mani callose e riprendeva a spaccare metodicamente. Gli portavano del vino che non rifiuta va mai e che beveva lentamente, ma tutto d’un fiato, come  fanno di solito i contadini, pulendosi poi i folti baffi nerissimi col dorso della mano.
   Il problema dalla legna ere stato risolto alla bene e  meglio, ed un senso di maggiore sicurezza ci dava così attuata.
   Ora bisogna pensare al pane. Calore e nutrimento.
   Si consumava molto pane nelle nostre case a quel tempo.
 

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