L’ambizione di questa testimonianza per Rocco è di offrire un ritratto della vita e dell’opera sua attraverso il filo incrociato del nostro rapporto, ricostruito sulla consuetudine di vita e la traccia documentaria di alcune lettere inedite. La prima lettera del giugno 1942, spedita da Tivoli dov’era istitutore e indirizzata invero a un mio congiunto, che me la passò per un rigo a me dedicato, mi sembra interessante per il senso di solitudine e per un componimento, Villa d’Este, solo recentemente recuperato. Ritornava da Tricarico, dove aveva perso il padre, “l’uomo – scriveva – che aveva vissuto fino alla morte il suo mito di ciabattino”.
   L’incontrai poi nella primavera del 1943 a Potenza. Era reduce da un convegno letterario, in cui era stato notato per l’acume dell’intelligenza oltre che per la serietà della preparazione. Gli chiesi quali fossero i suoi reali interessi. Mi mostrò un articolo di critica cinematografica, che mi lasciò piuttosto indifferente. Tirò poi di tasca una poesia, Lucania; non potetti fare a meno di dirgli che mi pareva, in quella poesia, poeta compiuto. Nei successivi incontri mi resi conto che aveva già operato alcune scelte di fondo nelle quali si facevano sentire precedenti esperienze: dal soggiorno presso i frati a Sicignano e Cava dei Tirreni a quello di Trento, dove ebbe tra gli insegnanti Giovanni Gozzer e maturò le prime esperienze politiche. “I frati non furono un’esperienza negativa”, scriverà più tardi, “lo capivo appena uscito, chiaramente se ero capace di sostenere il contegno davanti agli altri petulanti, prepotenti, se tra la folla ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io dovevo rispettarlo come un fratello”.
   Il 4 dicembre 1943 inoltra la domanda d’iscrizione al Partito socialista e l’organizza di fatto a Tricarico e nei paesi vicini. Mantiene intanto contatti con persone e gruppi di Potenza, dove in quel periodo era sorto fra le altre l’associazione universitaria “Luigi La Vista”, che aveva iniziato la pubblicazione del periodico “Battaglie Goliardiche”, nel quale comparve appunto il suo primo articolo politico sull’opera di Prampolini.
   A Tricarico, dove si protraeva la sua permanenza, andava affinando, per esperienza diretta e sofferta, la conoscenza dei problemi e il meccanismo delle reazioni psicologiche della gente: “Ogni qualvolta che vi scrivo, direte che lo faccia a posta, per scocciare. È solo però, in considerazione delle storture e degli ordigni a scoppio ritardato che i vari ministeri preparano per la povera gente e mai li attuano, che per agevolare chi merita ogni tanto io vi secco (…).”
   La sua particolare reazione di fronte alle difficoltà di risolvere casi solo apparentemente personali, si rileva da quest’altra lettera brevissima, posteriore: “Caro Rocco, ti prego di vedere la bambina Carmela (…) già visitata. La madre è preoccupata di pagare i raggi. Non è in condizione di pagare. Vedi tu se puoi – tra i mille Inps – scegliere qualcuno buono a risolvere un caso”. Le due lettere, qui riportate, per stralcio le prime, cariche di amara ironia, sono indicative delle sue qualità diagnostiche nell’esercizio quotidiano dei rapporti che si rivelano molto utili a Rocco sindaco di Tricarico e quando, più tardi, affronterà le fatiche della narrativa.
   Sono abbastanza note le vicende che contrassegnarono l’attività di sindaco tra il 1946 e il 1950. Per un esame critico della metodologia da lui seguita in quelle funzioni sarebbe opportuna una paziente ricerca sui documenti. Io mi limiterò a un cenno interpretativo di quella che credo sia stata l’operazione più qualificante dell’Amministrazione da lui presieduta: la fondazione dell’ospedale. Egli non inventò l’ospedale; inventò invece nel 1947 la maniera di trasformare un’azione amministrativa in movimento di partecipazione popolare.
   Nel 1950, dopo l’esperienza del carcere (8 febbraio-25 marzo) patito ingiustamente, si allontana da Tricarico con qualche speranza e molta amarezza, rimane comunque profondamente legato alla sua terra e soffre dei “capricci”, come li chiama, di casa nostra. In una lettera da Roma del 18 agosto 1950: “… Ho visto Peck che mi ha parlato di certe aspre critiche da te sollevate perché  il Comune si rifiuta di dare l’area per la Casa della Madre e del Fanciullo. Come mai? Non posso crederci se io stesso ero presente agli impegni del Sindaco”. E in un’altra del 13 settembre 1951: “Ricordati – qualche volta – dei carcerati, mandando se vuoi, a mio nome, sigarette alfa e cartoline. Potrei rimborsarti”. Quando mi scrisse così ritornava da Locarno dove era andato a studiare e a raccogliere, fra l’altro, la documentazione sulla ricomposizione fondiaria nel Canton Ticino. Perché a Portici, nell’Istituto di Economia e Politica Agraria, diretto da Manlio Rossi-Doria, Rocco aveva intrapreso a lavorare come segretario di redazione del Gruppo Lucano di Studio. Erano le prime ricerche preliminari in preparazione della pianificazione regionale e Rocco stese alcune relazioni tra cui quella, molto importante, sull’analfabetismo e la scuola in Basilicata, pubblicata poi, credo non senza motivo, su “Nord e Sud”.
   L’impegno consumato in questo lavoro di quantificazione e di interpretazione delle complesse realtà lucane che si avverte in alcune lettere a me inviate tra il maggio e il luglio 1951, si traduce in consapevole modestia quando Friedmann gli propone di cimentarsi in uno studio sulla visione del mondo e della vita dei contadini meridionali. “lo che posso dirgli?”, mi scriveva. “Sono così incerto a dirgli ciò che penso”.
Quasi a sviluppo del discorso in una lettera successiva accenna a un programma organico di ricerca, preannuncio direi, del progetto di Contadini del Sud. La mia ostinazione a rifuggire da precisi impegni politici – nonostante le continue tentazioni – e la riluttanza a iscrivermi a un qualsiasi partito per paura di perdere l’anima erano state motivo di polemica anche aspra con Rocco. Ma egli non rinunciava al tentativo di coinvolgermi: l’occasione venne offerta dall’iniziativa di Codignola. Anche Rocco in quel periodo sembrava subisse dei dubbi sull’adeguatezza del suo partito a risolvere i problemi reali del paese e mi scrisse dunque così: “Con Calamandrei e gli altri si può marciare io credo. Smettila perciò con i vescovi e con i papi: diamoci da fare essendo noi stessi. Io, riconoscerai, la sto smettendo con quelli che furono, solo parzialmente però, i miei vescovi”.
   Non credo che imboccasse poi egli stesso la strada che mi consigliava. Sarebbe comunque assai interessante accertare se l’atteggiamento critico nei confronti di quelli che chiamava i suoi vescovi si fosse attenuato negli ultimi mesi della vita, quando il riferimento divenne l’impegno assunto con Laterza di fare un libro sui contadini e la loro cultura.
   Può darsi che dalla lettura di questa amicizia non siano venuti fuori elementi (chissà che) rilevanti, l’occasione, certo, è servita a me per ricordare l’amico fraterno scomparso a Portici nella triste giornata del 15 dicembre 1953 (era nato a Tricarico il 19 aprile 1923) ad altri taluni aspetti dell’uomo cosi com’era: curioso, inquieto e amaro, sempre comunque ugualmente impegnato.
 (da Un poeta come Scotellaro, a cura di Franco Vitelli e Giuseppe Appella,
Edizioni della Cometa, Roma 1984, pp. 12-17)
 

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