Ora bisogna pensare al pane. Calore e nutrimento.
Con la legna e il grano potevamo affrontare
 il tempo di inverno con maggiore serenità

    Il problema e il rito dell’approvvigionamento del grano, che costituiva la base quasi esclusiva dell’alimentazione, rimandano a un tempo perduto con le sue fatiche, convenzioni e odori, il perduto odore del pane appena sfornato. Il racconto di Enrico Buono ci restituisce quel tempo ed eccita la memoria, richiamando riti e storie.

   Le persone, innanzi tutto. Sono nominati Maria e don Rocco.
Maria era la donna di servizio di don Giulio Buono, il padre di Enrico, una di quelle donne di servizio di una volta, che s’incardinavano nella famiglia e ne diventavano membri. Me la ricordo, la si incontrava spesso aggirarsi tra il mercato di viale Regina Margherita e i negozi del corso.
Don Rocco aveva impiantato a piena terra del palazzo una macchina prodigiosa che mondava il grano in un battibaleno; ad essa si portava il grano quando era particolarmente sporco, ma normalmente la pulizia impegnava tutta la famiglia per ore e ore a separare il grano, chicco per chicco, da tutti i logli che lo infestavano.
   Chi fosse don Rocco posso supporlo. Sembra essere il padrone del palazzo, che aveva tra gli inquilini don Giulio Buono. Si tratta, quindi, del palazzo Uricchio, che ha conservato il nome, e forse lo conserva tuttora, nonostante diversi passaggi di proprietà. Il palazzo Uricchio è gemello del palazzo Motta, tutt’e due furono costruiti in base allo stesso progetto. Il palazzo Motta si trova pure nel viale Regina Margherita, nel largo da cui ha inizio la salita per la torre Normanna:
   Don Rocco dovrebbe quindi essere un don Rocco Uricchio, medico benestante, che partecipò alla prima guerra mondiale col grado di maggiore medico e morì in Macedonia nel 1915. Se la supposizione non è sbagliata, si dipana una storia di cui ho certezza e che racconterò omettendo alcuni aspetti per rispetto a chi ha ancora diritto al silenzio sulle loro vite.
   Don Rocco sposò una nobile romana, che col matrimonio si trasferì a Tricarico dove ha vissuto la sua lunga vedovanza. Ebbero tre figli, due maschi e una femmina. La femmina morì giovane e i maschi – Bebé e Vittorio – furono funzionari del ministero della pubblica istruzione. La contessa Uricchio fu una donna moderna – era l’unica signora di una certa età che si truccava vistosamente di rosso labbra e unghie – accanita lettrice di libri di un certo impegno, dette uno scopo alla sua vita con una fattivo impegno nelle attività dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, dove ha assolto anche incarichi nazionali. Fu consigliere comunale nella prima amministrazione democratica eletta dopo il fascismo, essendosi candidata, come repubblicana, nella lista capeggiata da Rocco Scotellaro.
   «Favorite, prendete la mescatora!» Uscendo dal forno con grosse forme di pane fumanti e odorose sulla tavola tenuta in equilibrio in testa sopra la spasa, questo era l’invito di prammatica, senza cui si perdeva la faccia, ma nessuno accettava mai niente. Ma che cosa era la «mescatora»? La spiegazione esige che il discorso parta da lontano. I grossi pani di una volta – li chiamavano ruote di traino – erano così grandi per una precisa ragione economica. Il forno si pagava a pezzi e non a chili; l’interesse impegnava quindi le donne di casa che impastavano il pane nel difficile equilibrio di modellare forme di pane che, aumentando notevolmente di volume per la lievitazione provocata dalla cottura, assumessero una forma che consentisse di tirarli fuori giusto giusto, magari di traverso, dalla stretta bocca del forno. La fornaia, dal canto suo, informava il maggior numero di pezzi possibili, tenuto conto che, lievitando, essi si sarebbero venuti a toccare. Non bisognava esagerare, un pezzo in più avrebbe potuto rovinare l’infornata, ma inevitabilmente i pezzi, lievitando, si toccavano in due o tre punti, che non assumevano il bel colore bruno della crosta del pane, ma sembravano conservare l’aspetto dell’impasto non cotto. Era la mescatora. Il pane appena sfornato non si poteva mangiare, altrimenti si sarebbe compromessa la fresca e fragrante conservazione nei giorni successivi, bisognava che riposasse al meno un giorno. Ma era possibile, senza alcun rischio, affondare l’indice nella mescatora e, facendo leva con le altre dita, staccare un pezzo di pane, potendo così godere del sapore e del profumo del pane appena sfornato. «Favorite la mescatora» era quindi l’offerta speciale di un pezzo di pane, che nessuno accettava. Giunti a casa e posata la tavola con i grossi pani, tutti si precipitavano a staccare il loro pezzo di mescatora e a mangiarlo lentamente. Così si concludeva il rito del pane al forno. Il giorno dopo la mescatora non era più buona e tutti, a tavola, nella distribuzione del pane, cercavano di evitarla.

   Il mulino presso i Cappuccini era i mulino di Verrascina, che abitava di fronte alla casa di Rocco Scotellaro ed era il padre di Elena, coetanea e amica di infanzia e di gioventù di Rocco, una delle più belle ragazze di Tricarico.

 Ecco, ora, il racconto di Enrico Buono

    Si consumava molto pane nelle nostre case a quel tempo.

Esso costituiva l’elemento essenziale della nostra  alimentazione e senza il pane, ci sarebbe parso di far la  fame nera. Pane ed olio, pane e pomodoro, pane bagnato con olio ed origano, pane e formaggio. La carne era  scarsa e quando la si comperava, era tutt’osso. Capretti  ed agnelli nelle stagioni opportune; qualche vacca cui si erano spezzati i garretti nelle caracoie di Grassano o nei  fossi del Basento; pochissimi i polli che qualche contadino a corto di quattrini portava a vendere, vivo, nelle case.  Il pane dunque imperava, col suo colore scuro: fatto con  farina di grano integrale, con la fragranza buona, col suo  grosso formato, certi pani pesavano chili e chili. Lo si faceva in casa da sempre e lo si mandava al forno, di prima  mattina, d’estate e d’inverno. Prima dell’alba. La fornaia  chiamava dal basso Maria, che già sapeva cosa doveva fare. Maria, che aveva dormito poco col pensiero di doversi  alzare ed era già pronta, impastava la farina con acqua,  lavorando sodo di pugni e di gomito che era un piacere  vederla. Quando le sembrava che l’impasto fosse a punto,  lo riponeva sotto grossi panni di lana facendovi sopra un  segno di croce, aspettava che la pasta lievitasse e quindi,  fattene grossi rami circolari, li adagiava sul quadro di legno  e si recava al forno. Al forno c’era perenne ressa ed un  vociare continuo, pettegolo, assordante. Voci tesissime,  chiacchiere, litigi per un nonnulla, spesso zuffe che terminavano con forti tirate di capelli. Il forno era la centrale  del pettegolezzo locale. Dal forno, a cottura avvenuta, uscivano le donne avendo sul capo in bilico il quadro in  legno con dentro le panelle, la focaccia il “roccolo”. “Favorite” prendete la mescatora. “Favorite”. Erano le  frasi d’uso, l’invito di prammatica, senza cui si perdeva la  faccia: ma nessuno accettava mai niente.

Per assicurare il pane per l’annata, bisognava acquistare due buoni quintali di grano, possibilmente di  quello duro, con chicchi grossi, il grano della contrada  Matina era tra i migliori, con poco scarto ed a prezzo  conveniente. Quante cose volevamo!

Dopo vario chiedere, i due sacchi pesantissimi da  un quintale l’uno arrivavano a casa, venivano scaricati in  cucina, quasi a fianco della porta d’ingresso e li rimanevano per tutto il tempo necessario, affinché tutti vedessero che grazia di Dio c’era. Con la legna ed il grano potevamo  affrontare il tempo d’inverno con maggiore serenità.  Mondavamo il grano in famiglia, tutti, forniti di recipienti  d’ogni genere. Ma quando il frumento era più sporco del  previsto lo si portava nella macchina che don Rocco aveva  impiantato a piano terra del palazzo, composta di un cilindro bucato, rotante a mezzo di speciali ruote azionate a  mano. La macchina era rumorosissima, ma adempiva egregiamente al suo compito, tanto che in pochi minuti  rilevanti quantità di prodotto veniva pulito alla perfezione.

Così ripulito, il grano veniva portato al mulino nei  pressi dei Cappuccini. Nel mulino c’era un rumore assordante e costante. Un velo di nebbia avvolgeva l’interno,  l’aria era calda e densa, la farina macinata affluiva negli  appositi sacchi. Per capirsi in quel piccolo inferno, bisognava gridare da sgolarsi e tra tutti i gridi, primeggiava  quello del padrone del mulino, che aveva fra l’altro  l’orecchio duro ed una voce stridula che superava quel  fracasso d’inferno, don Nicola non faceva complimenti  con la gente, nervoso e scorbutico com’era. Un capo operaio, piccolino, nero d’occhi e di capelli, con la spalla tesa  come se avesse inghiottito un bastone, si affannava ed era  per ogni dove, sempre sorridente. Lui pesava, lui restituiva la farina, lui prendeva il denaro. Fuori del mulino, asini,  muli, cavalli legati con la cavezza alle borchie di ferro infisse nel muro esterno, attendevano pazienti, scrollandosi  di dosso le mosche e le zecche di cui la zona era ricca. I  contadini sedevano sulle macine consunte ed abbandonate, cosparse di polvere bianchiccia. Nell’attesa, le donne  sferruzzavano, ridacchiavano, pettegolavano senza respiro,  né tradivano impazienza ed insofferenza.
Anche la farina era stata sistemata.
L’inverno frattanto avanzava a passi da gigante.
Tagged with:
 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.