Un punto miracolosamente centrale di Carlo Levi

(da “Basilicata”, 14 dicembre 1958)

 Carissimo Sacco,

il tuo telegramma, e la notizia che “Basilicata” prepara in questi giorni un numero dedicato a Rocco Scotellaro, mi giunge, purtroppo, mentre mi accingo a partire, fra poche ore, per un viaggio; e non mi è dunque possibile, come vorrei e dovrei, mandarti di lui uno scritto degno dell’occasione. Né posso mettermi come altri, come i critici o i politici o gli studiosi, a riesaminare oggi, dopo cinque anni, la sua figura e la sua opera: perché non ci è stato, si può dire, neppure un giorno che io me ne sia, anche per naturale distrazione, dimenticato. Le sue immagini dipinte pendono dalle pareti della mia casa, e mi tengono costante compagnia: e il lavoro di riordinamento e di scelta dei suoi manoscritti, dei suoi appunti, delle varianti (tutti quei foglietti, quelle scatole di fiammiferi, quelle repliche e ritorni di pensieri e di figure poetiche, quel diario continuo di sé e delle cose, quel monumento disperso, frammentario insieme e così coerente, di giovinezza e di creazione) è quasi finito, sì che sarà possibile a tutti tra breve, leggere tutto. Così, per me, come quando era vivo, Rocco si affaccia alla porta, con il suo “montgomery” chiaro, e la borsa coi quaderni e il vitto per il viaggio: e tanta è la consuetudine, che non mi sentirei di pormi d’un tratto, a fare quello che si usa chiamare un “bilancio”.
Ma questo può essere fatto, deve essere fatto: del resto lo facciamo implicitamente ogni volta che ripensiamo alla vita del Mezzogiorno, alle vicende del movimento contadino, così intrecciato alla sua persona – e ogni volta che ci interessiamo alla giovane poesia (non solo italiana, ma di tutto il mondo) da cui la sua si distingue e con cui si affratella, come una voce sola in un concerto.

Nell’uno e nell’altro campo (che in Rocco non si possono dividere e distinguere se non con uno sforzo arbitrario, tanto la sua poesia è immediatamente immersa in quel mondo vivo e nascente, nel movimento contadino, con tutte le sue interne contraddizioni, e con tutti i suoi esterni drammi, e il suo valore di libertà; e tanto è il senso poetico diretto e implicito di quella vita e di quel movimento) i cinque anni passati, così brevi e vani, pare che non solo non abbiano allontanato la parola e l’opera di Rocco, ma l’abbiano fatta, se possibile, ancora più presente, e rappresentativa, e attuale; l’abbiano vista crescere e maturarsi; come un quadro che il pittore ha creduto di lasciare incompiuto, e che il tempo stesso si incarica di mostrare, com’era realmente, perfettamente finito.

Poiché, da un lato, i problemi del Mezzogiorno chiedono sempre più di essere guardati e vissuti dal punto di vista che era il suo (come povere le critiche dei politici, con i loro schemi e la loro astrattezza!) – e dall’altro la grande esperienza poetica di cui egli è stato la voce più viva, è ancora quella che muove il sentimento e la parole degli uomini d’oggi, in tanta parte del mondo, dove coesistono in una persona tempi diversi, e ogni gesto è una conquista, dove matura (o forza e vittoria, e smarrimento; ansia e dolore, e gloria, dei piccoli!) l’Uva puttanella.

Noi non vogliamo (tu lo sai) fare di chi amiamo, poiché lo amiamo, delle statue di adorazione: né potremmo adorare la statua di qualcosa che è parte di noi stessi. Ma certo, Rocco (che non era che un ragazzo, con gelosi pudori, indifeso contro i topi e contro la morte, fragile contro il correre troppo rapido delle sue scoperte interne e l’urto delle cose estranee) più di chiunque altri io abbia incontrato, segna, per totale identità e totale partecipazione (malgrado ogni chiusura e ritegno, e poetica solitudine) un punto miracolosamente centrale di un tempo, che è il nostro. Un giorno egli scrisse, per sé, questa epigrafe (che si può intendere in molti modi, tutti veri):

IO SONO UNO DEGLI ALTRI.

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