È difficile a me parlare di Rocco Scotellaro perché non solo l’ho conosciuto, ma l’ho visto, cosa strana, sebbene ci fosse tanta distanza di età tra me e lui, come il più caro dei miei amici in questi ultimi anni.
Però con voi bisogna che io parli. Ed è strana questa vita di un ragazzo, che è morto come un ragazzo a trent’anni, che ha avuto una vita completa e lascia una voce chiara, che si sentirà nel Mezzogiorno e in tutta Italia, credo, per molto tempo.
Destino di ragazzo come molti altri ragazzi di Basilicata che io ho conosciuti; la stessa vita, una vita modestissima, figlio di povera gente al paese, il padre, la madre, la non possibilità di studiare, la possibilità di farlo con estremi sacrifici, in uno di quei penosi collegi nei primi anni a Potenza, poi l’umiliazione di doversi vestire da monaco, vivere in un convento, a Sicignano degli Alburni, poi a Cava dei Tirreni, dopo, per continuare gli studi, fare l’istitutore in un collegio, altrove.
E vivere, vedere così quasi dalle finestre, quasi da lontano col desiderio, il mondo reale, la città, e all’improvviso poi, come per tanti altri di noi, la guerra che lo ributta in mezzo alla sua gente, in mezzo alle rovine. Ed ecco che si trova negli anni della guerra al suo paese, cresciuto come un ragazzo, e quando tutto crolla, quando tutte le classi dirigenti non sono più niente, ecco che all’improvviso, a 23 anni, nel ’46, nessun altro può fare meglio di lui il Sindaco del suo paese. E lo fa con passione, si lega ai contadini dei quali sapeva fin da ragazzo tutte le cose, fa il Sindaco per quattro, cinque anni, cercando di fare il meglio possibile, creando il meglio possibile, e come voi sapete, ad un certo momento addirittura lo accusano di essere coinvolto in affari dell’Unrra e dei buoni vestiario, lui proprio. Lo schiaffano in prigione, fa una quarantina di giorni di prigione – si era nel pieno delle lotte politiche e la ragione era stata quella – poi esce, pienamente libero, vista la sua completa innocenza.
Poi, come per tutti gli altri giovani, riprende le sua vita. Ha bisogno di uscire, perché in quei paesi c’è un limite così stretto, e non si può, quando si ha una capacità di lavoro e di forza, svilupparla nell’interno del paese.
Esce per ritornare sempre, vede il mondo, entra nel mondo, e ha vissuto fino alla fine dell’altro anno, diventando sempre amico di tutti, comprendendo tutti. Perché proprio per averlo visto così questo mondo, con gli occhi, direi, insieme del desiderio che diventava occhio della poesia, e per essersi abituato a vederlo da sotto in su, per così dire, dalla posizione degli umili, dalla posizione dei contadini, dalla posizione della povera gente, dalla posizione della gente che non ha e desidera di avere, ha acquistato una capacità di capire che nessun altro aveva acquistata quanto lui.
E praticamente poteva essere vicino a tutti, le persone le più diverse, uomini e donne, vecchi e giovani e bambini. Grazie a questo, in una vita breve, in una vita di ragazzo, lascia tre cose che costituiscono una voce che sentiremo, e che sarà cara a tutti come è già cara a noi che la conosciamo.
Lascia un libro di poesie che l’editore Mondadori sta per pubblicare, che è certamente tra
le cose più belle che siano uscite in Italia negli ultimi anni; lascia incompiuto un romanzo
che speriamo di poter pubblicare, che non è altro che la vita di un ragazzo di quaggiù, scritta con sincerità, con uno stile di tale chiarezza, di tale limpidezza che costituisce, ripeto, una voce che non potremo dimenticare. E lascia come ultimo suo lavoro, che appare come il suo primo, questo libro sui contadini del Sud, sui contadini del suo paese, e che, come è detto nella prefazione, come abbiamo potuto ricostruire dai suoi appunti, doveva avere un panorama più largo, doveva rappresentare una infinità di figure di contadini meridionali.
Attraverso di lui quindi succede un fatto che è molto importante, e per questo vengo al libro: abbiamo una prima, sia pure non larga, testimonianza diretta di che cosa sono i contadini, come pensano, che cosa è la loro cultura, il loro mondo.
Noi fino adesso abbiamo avuto talvolta alcune interpretazioni dei contadini, delle presentazioni stupende da parte di grandi artisti italiani, me la voce diretta, la testimonianza diretta è assai scarsa, è assai povera.
Viceversa, in questo libro ci sono cinque biografie di contadini, scritte da loro stessi o raccolte dalla loro viva voce, o ricostruite per intervista, come è quella di un giovane di 17 anni, bufalaro nella piana di Pesto. Abbiamo poi, legate a queste biografie, tutta una serie di scene di paese scritte da sua madre: le donne, il vicinato, l’amore, le feste, i rapporti, la vita di una donna di paese, e infine la bellissima storia della vita e morte di Rocco, che ha l’altezza e la bellezza dei lamenti funebri, che si sentono ancora in quei tragici e meravigliosi funerali di paese, com’è stato appunto quello di Rocco.
Questo è il libro. Io ho l’impressione – e credo che non mi faccia velo l’amore che ho avuto per Rocco – che dovremo meditarlo tutti, proprio perchè è la prima volta che una testimonianza diretta di che cosa sono i contadini viene a noi.
Per prima cosa, com’era nell’intendimento dell’editore Laterza quando affidò a Rocco l’incarico di scrivere il libro, risulta chiara, netta, la compiuta cultura dei contadini. Quando noi ci immaginiamo il contadino come un essere rozzo, incolto, inarticolato, per così dire, nel suo interno, commettiamo – e basta vedere queste biografie – un enorme errore, un errore di ignoranza veramente colossale.
Il contadino ha un mondo di cultura nel senso più profondo della parola, compiuto, più compiuto talvolta di quello che abbiamo noi, piccoli e medi borghesi, che vantiamo una cosiddetta cultura delle scuole, e che molte volte sulla spontaneità del nostro essere abbiamo messo vernici e attrezzature che non sono le nostre. Direi che il senso distintivo della loro cultura è anzitutto nel fatto che hanno una chiarissima coscienza di sé, e una chiarissima linea di condotta nel duro mondo nel quale sono nati, e nel quale vivono, senza ribellioni, ma con volontà tuttavia di cambiarlo nella misura della loro possibilità.
Altro elemento distintivo di una vera cultura, che per molti altri sarà una rivelazione e che viene fuori con chiarezza da queste figure, è il fatto che questa gente non solo ha un pensiero, una coscienza di sé, ma sa esprimere fatti, rapporti, sentimenti, giudizi, con una limpidità, con una precisione, con una esattezza di linguaggio che spesso noi, cosiddetta gente di cultura, noi che abbiamo avuto le scuole, non ci sognamo di avere.
In terzo luogo, la coscienza del mondo che essi hanno non è affatto una coscienza rozza e primitiva. Come si vede attraverso queste biografie, sanno che il mondo è complesso e differenziato, e continuamente lo misurano e lo confrontano; essi sanno che al di là del cerchio della loro diretta e talvolta ristretta esperienza, c’è un mondo più grande, un mondo più vario col quale, con l’emigrazione o con la guerra, nei viaggi come braccianti o nei tentativi di evasione nelle città sono venuti e contatto, e anche rispetto a questo mondo rivelano una maturità di giudizio che ci sorprende.
Ancora un altro elemento molto importante che a mio avviso distingue una chiara e ben definita personalità culturale nei contadini, è precisamente la coscienza e il rispetto della propria e dell’altrui personalità. E direi che nel rispetto degli altri, nella consapevolezza che il mondo è costituito non soltanto da me con un altro che è nemico o favorevole a me, ma con un altro che ha interessi con me, o ha problemi con me, si rivela nei contadini una coscienza molto più chiara di quanto non sia il cerchio egoistico e talvolta malato di tante persone con le quali noi cosiddetti uomini civili abbiamo a che fare.
E infine, e questa è la cosa più importante sulla quale io vorrei un poco soffermarmi con voi, hanno una precisa coscienza che il mondo talvolta è duro, talvolta è resistente e immobile, ma malgrado l’immobilità è in movimento, e loro sono entro questo movimento. Non so se testimonianze raccolte in altri tempi qui in Basilicata avrebbero dato ugualmente la precisa sensazione, la precisa coscienza che il mondo è in movimento, come i contadini che raccontano la loro vita nel libro di Rocco testimoniano chiaramente.
Su questa coscienza del movimento, che è la coscienza del risveglio dei contadini stessi,
che è la coscienza dei loro processo di liberazione, io penso che, a ben leggerlo, il libro dia delle testimonianze molto chiare, ma che probabilmente deluderanno alcuni che hanno della concezione del risveglio contadino, del processo di liberazione contadina una visione, a mio avviso, troppo ristretta e troppo di parte.
Gli stessi casi studiati, la cui scelta è stata in parte casuale, sono quelli del suo paese, i primi che in un certo senso ha avuto la possibilità di esaminare. Molti altri casi lui aveva già presi in considerazione, ed è veramente da lamentare che la morte lo abbia colpito proprio nel pieno del suo lavoro a Irsina, dove avrebbe certamente portato alla luce la rivelazione di che cos’è la vita di uno di quei contadini duramente impegnati nella lotta politica come comunisti, nella lotta di classe come braccianti che aspirino a una diversa posizione. Certamente di là noi avremmo avuto una testimonianza del più alto interesse per comprendere le figure dei combattenti più seri, più spinti, più avanzati del movimento di emancipazione, del movimento di liberazione dei contadini.
Tuttavia io ho l’impressione che la scelta che Rocco ha fatto di quei contadini che raccontano in questo libro la loro storia, corrispondesse esattamente al modo in cui a lui piaceva di guardare questo mondo. Cioè ci sono dei settori nei quali i rapporti, la lotta, la coscienza sono ormai espliciti e chiari; a lui interessava di vedere piuttosto laddove questo processo di risveglio e di liberazione era appena agli inizi e stava per così dire, prendendo forma. Non per niente, nella bellissima introduzione che ha scritto alla vita di Michele Mulieri, egli ha detto che il territorio nel quale si trovano Grassano, Tricarico, Garaguso e altri comuni, alla finedella guerra venisse considerato dagli uomini politici, la zona grigia, la zona cioè nella quale che cosa pensassero, che cosa volessero i contadini ancora non si sapeva, mentre era chiara l’immobilità, la continuazione della vecchia tradizione in molti comuni più interni e più alti del Potentino, mentre era chiara la posizione di avanguardia, la posizione di esplicita e aperta lotta di classe che c’era nei comuni pugliesi dove questa ha una vecchia tradizione.
Quindi lui ha voluto realmente cercare dì studiare per primi quei contadini i quali appartenessero a questa realtà più complessa e più tipica dell’agricoltura meridionale, alla realtà di questi paesi nei quali la massima parte dei lavoratori non sono prevalentemente dei braccianti, ma sono degli imprenditori in proprio, sono della gente che mette su una sua precaria impresa con piccoli pezzi di terra comperati a fatica nello spazio di una intera vita e divisi alla fine tra i vari figli per ricostituire tante piccole nuove imprese familiari, integrate di volta in volta da una serie di piccoli affitti a spezzoni. E con una vicenda delle singole famiglie che ora le porta un poco verso l’alto e ora le fa ricadere di nuovo verso il basso a ricominciare la loro fatica di Sisifo, proprio con la disgregazione della famiglia nell’atto della raggiunta maturità dei figli e della divisione, o quando per una disgrazia, morte degli animali, morte di qualche figlio, o morte del padre nel momento di massima attività della famiglia, questa fatica viene distrutta e bisogna ricominciare da capo.
E infatti tutti i contadini di cui Rocco racconta la storia, sia Michele Mulieri, sia il Di Grazia democristiano, sia il contadino che sposa per la terza volta, sia il Chironna evangelico il quale diventa mezzadro alla fine di una vita di cui avete sentito gli inizi partono da condizioni umilissime e attraverso molti sforzi cercano di costruirsi una vita.
Ora, in questo io penso che Rocco abbia colto qualche cosa di molto profondo. Se è vero che l’Italia meridionale ha ancora, e in determinate zone viene allargando, categorie di braccianti, cioè di tipici lavoratori staccati dall’impresa e staccati da una autonoma attività, e che quindi hanno, quasi come un operaio di industria una autonoma coscienza di classe, che li fa contrapporre alla società nel suo complesso, viceversa la maggior parte dei contadini meridionali sono embrionalmente e in molti casi riescono a essere concretamente degli imprenditori in proprio che aspirano alla propria autonomia e libertà, la realizzano per quanto possono e cercano così di creare e di allargare un mondo di piccoli imprenditori indipendenti che si rispettino tra di loro e si facciano rispettare. Quindi il loro processo di liberazione al quale si assiste, è insieme un processo di liberazione e di rivolta contro un sistema di rapporti di proprietà e di rapporti di classe che effettivamente costringeva in una situazione di servitù questi contadini e faceva sì che la loro impresa fosse soltanto un’impresa precaria e un’impresa servile. Tale processo è condizione fondamentale da realizzare con ogni mezzo, con la lotta aperta quando questa è possibile, o con l’astuzia, o con il risparmio, o con la fatica, prendendo brano a brano, conquistando un poco di terra negli altri momenti, e in ciò sta il senso del risveglio dei contadini dell’Italia meridionale, in tutta Italia e possiamo dire in tutto il mondo; in questa esplicita lotta che di volta in volta diventa aperta o coperta, a secondo delle circostanze per una totale emersione di un regime di proprietà che in moltissimi casi non ha alcuna giustificazione in un fatto produttivo, in quanto che il regime di affitto e di compartecipazione non giustifica in nessuna maniera l’esistenza di una proprietà contrapposta al contadino che lavora.
Ora, nei contadini del libro è vivissima questa coscienza, e non so se Michele Mulieri o un altro, parlando della riforma, che tutti accettano, dice che scherzando sul nome di “Ente Riforma” i contadini la chiamano la riforma lenta, cioè manifestano la coscienza di un processo che deve essere ulteriormente affrettato, di un processo che deve essere ulteriormente allargato.
Tuttavia se questo è certamente un motivo fondamentale nell’attuale fase di risveglio dei
contadini di Basilicata e di tutta l’Italia meridionale, non è solo questo, e in un certo senso si potrebbe dire che non è nemmeno questo, il principale; essi hanno troppo chiara la coscienza dei limiti del mestiere, sanno fare troppo bene i conti per sapere che non basta avere anche la parte del padrone per stare realmente meglio, fino a quando la loro vittoria non si sia realmente esercitata su altri due campi nei quali la loro libertà e la loro umanità è attualmente ristretta.
Il primo è precisamente la lotta contro la natura. Loro sanno di vivere in un ambiente con la natura avversa, e sebbene abbiano lo sguardo teso verso una tecnica nuova, e sebbene, quando vedono comparire la macchina – ci sono nel libro accenni bellissimi – sappiamo che questa è liberatrice, è elemento di arricchimento, sanno anche che il limite è piuttosto ristretto, e che le loro terre, anche con concimi migliori, anche con macchine migliori, anche con sementi migliori non potranno rendere, e che se anche i proprietari non pretenderanno più niente, ci sarà sempre lo stato che vorrà le imposte, ed è giusto che le voglia, e che perciò la loro condizione resterà una condizione dura.
E quello che è bellissimo vedere in queste pagine è come questo problema della limitazione della loro terra è perfettamente chiaro alla coscienza dei contadini. C’è non ricordo bene se il Di Grazia, nel suo esposto a De Gasperi, il quale dice: se la terra potesse essere allargata i nostri problemi si risolverebbero, ma se non la si allarga i nostri problemi non si possono risolvere. Quindi hanno questa coscienza e ne traggano immediatamente le conseguenze.
Molti contadini sanno, e lo si risente continuamente, che nella generazione futura non dovranno più essere contadini. Sono stati pronti all’esodo nelle generazioni passate, sono pronti all’esodo oggi, perché il mestiere dell’agricoltore è un mestiere di miseria; bisogna andare all’industria, bisogna uscire dall’ambiente, e quindi il problema dell’emigrazione, il problema dell’industrializzazione è un problema centrale.
E Michele Mulieri, e il suo figlio più grande, il suo figlio migliore ogni sforzo hanno fatto per uscire, e oggi il figlio è operaio a Torino, il padre è più contento di averlo fatto operaio a Torino che non di avergli dato e diviso un altro pezzo di terra.
Cioè questa coscienza che nell’Italia meridionale il problema resta sempre quello che avevano visto i nostri vecchi Don Giustino e altri, e che qualcuno vorrebbe far credere che è un problema passato, è presente nei contadini, i quali sanno che i loro problemi si risolveranno, e costerà molto a loro, il giorno in cui potranno lasciare in massa crescente i loro paesi. Soltanto in un Mezzogiorno nelle cui campagne più povere viva meno gente i contadini potranno creare quella civiltà interna, quella libertà dal bisogno che loro stessi sanno che è condizione fondamentale per creare la loro cultura, per assicurare lo svolgimento pieno della loro personalità.
Ma direi che l’altra cosa che a me ha fatto veramente impressione – io oggi non posso che comunicarvi le mie impressioni, altri potrà averle diverse – e mi sembra la testimonianza più importante di questo risveglio, è il senso di insoddisfazione, il senso di ribellione crescente, lo sforzo che non riescono a realizzare ma che vorrebbero realizzare per combattere questa disgregazione sociale e civile che è in molti casi la loro vita di comunità nei villaggi, nei quali sono costretti a combattersi l’uno contro l’altro invece di trovare la base di una loro solidarietà e cooperazione.
Ed effettivamente hanno un estremo bisogno, tutti sentono il profondo bisogno di legarsi insieme, di essere, di riconoscersi nelle loro differenze.
C’è Di Grazia che dice: Io so che tra cinquanta piantoni d’ulivo uno deve essere il migliore, io so che siamo differenti e che dobbiamo restare differenti, ma che nella differenza ci possiamo rispettare, che nella differenza possiamo creare qualche cosa di cooperazione nel nostro interno.
Ed ecco quindi che hanno un’aspirazione alla scuola, un’aspirazione a uno sforzo di unione, a uno sforzo di liberazione attraverso l’organizzazione, anche se, e se ne hanno alcuni echi nello stesso libro, avvertono una profonda insoddisfazione per il carattere esclusivamente agitatorio che per necessità di cose la loro azione di classe ha avuto in questo decennio di democrazia e di libertà.
E sentono il bisogno di riporsi di nuovo a fare e a costruire una realtà nella quale la coesione civile, la collaborazione, la cooperazione tra loro sia essenziale.
Io non credo di aver visto troppo, cioè di aver visto i miei desideri nelle voci di questi contadini; credo che da questo quadro di contadini risulti con chiarezza che realmente le comunità contadine sviluppate e differenziate sono comunità di uomini liberi, cioè di uomini che sono diversi l’uno dall’altro e si rispettano come diversi l’uno dall’altro
Inoltre la caratteristica particolare è che ognuna di queste vite, pur essendosi sviluppate
nel medesimo ambiente, pur risonando di una serie di motivi comuni, hanno una impronta che è ciascuna diversa dall’altra, cioè hanno l’impronta fondamentale di un popolo libero, di un popolo colto: l’impronta della personalità.
Ora queste sono state le mie impressioni. E dal libro io penso che nasca un insegnamento e un motivo per tutti; perché effettivamente a queste profonde esigenze di liberazione dei contadini bisogna che tutti contribuiscano, in modo che essi possono realizzarle, e guai se viceversagli avvenimenti o le vicende dovessero contrastarli.
————
(da “Basilicata”, luglio 1954)
Ora in ORIZZONTI, n. 162/163 dicembre 2013/gennaio 2014 della r4ivista letteraria  Lo Straniero
 

One Response to RITORNO A SCOTELLARO
I contadini di Manlio Rossi-Doria

  1. Monica Palladino ha detto:

    Salve,
    vorrei citare questo articolo in una pubblicazione.
    Come posso farlo? Chi è l’autore?

    Grazie

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