DA TEMPO D’INVERNO DI ENRICO BUONO
L’inverno frattanto avanzava a passi da gigante
Dopo aver esposto i problemi del riscaldamento e del nutrimento, il racconto di Enrico Buono entra nel cuore duro dell’inverno e lo descrive nei minimi dettagli, regalandoci le pagine più belle di Tempo d’inverno, che sarebbe un peccato non leggere e gustare.
Mi concedo tuttavia una digressione sul trappeto di don Nicola. Le lunghe serate al trappeto davanti al grande camino carico di cataste di legna fiammeggiante, preparando uastedde immerse nel succo afrodisiaco di olive frantumate, sono tra i ricordi più cari e carichi di nostalgia della mia giovinezza. Alla nostalgia si è unito il ricordo che Trappeto (voce non del dialetto lucano ma in uso nell’Italia centro-meridionale, registrata nei migliori dizionari) è un comune in provincia di Palermo, famoso per l’opera sociale e culturale che qui svolse lo scrittore e riformatore sociale Danilo Dolci, dedicandosi al riscatto di una delle zone più depresse della Sicilia occidentale. A questo scopo mirarono le sue pubblicazioni in cui confluirono atteggiamenti cristiani, socialisti, liberali e “gandhisti” (metodo della protesta non violenta), da lui promosse. Motivi sociali e religiosi si fusero originalmente nella sua produzione poetica.
Il locale del trappeto di cui si racconta non è più adibito alla molitura delle olive, è stato utilizzato come centro di una associazione di artisti, che ha organizzato alcune mostre, e come laboratorio di musica popolare da Antonio Infantino. Non ho quindi bisogno di sforzarmi a descrive dove si trova il locale, ma devo ricordare che, girando a destra, una stretta stradina conduce in ripida salita allo slargo di via Roma / Rocco Scotellaro prima della Porta del Monte, di fronte alla casa di don Carmine Ferri, da ultimo abitata dal veterinario don Vincenzo Benevento, che ne aveva sposato la figlia donna Mimma. Da quella stradina veniva portato in seggiola il garibaldino novantenne, che Rocco Scotellaro ha immortalato in una sua bella poesia, Il garibaldino novantenne, di cui riporta la prima strofa, i cui ultimi versi descrivono il luogo.
Tra tutte le cose che ricordo
(come le bestie, chi ha la forza
chi lo stagno del piscio e chi una fontana:
io anche sono un muletto, scelto nelle fiere
che ha avuto già tre padroni)
quella che fra tutte più ricordo
e vive è un pezzo di stradetta
vicino a casa mia. Aveva ed ha
sempre una coperta bianca di sole
che viene da mezzogiorno: le case
davanti sono basse e scendono a valle.
Qui portavano in seggiola il vecchio garibaldino
novantenne.
Il racconto di Enrico Buono conferma il mio ricordo. Il trappeto non era di don Carmine, che pare fosse proprietario del locale, ma di don Nicola Ferri. Del quale ho già parlato e qui ripeto il gustoso episodio riferito.
Don Nicola Ferri è il sindaco che, forse fuori della leggenda, «fece» la piazza, che era un informe slargo dell’unica strada che attraversava il paese. Egli è stato l’amministratore di più lungo e proficuo corso del Comune di Tricarico e della Provincia di Matera. Indubbiamente un uomo di potere e del fare. «Don Tommà!» – disse al dott. Tommaso Santoliquido, nel 1932 commissario prefettizio del Comune di Tricarico, mostrandogli la «cimice», come veniva spregiativamente chiamato il distintivo del partito fascista che si portava obbligatoriamente all’occhiello – Vedete, don Tommà: qui c’è l’acronimo P.N.F. Oggi significa Partito Nazionale Fascista, ieri significava Partito di Nitti Francesco Saverio, ma ieri, oggi e domani ha significato, significa e significherà Partito di Nicola Ferri -. Questa boutade di don Nicola me la raccontò molti anni dopo lo stesso don Tommaso, che si era ritirato a Reggio Emilia, ultima sua sede di servizio, a godersi la pensione arrotondata con pareri in campo amministrativo, in cui aveva larga esperienza.
Qui le digressioni sarebbero come le ciliegie: una ne tirerebbe l’altra. Da donna Mimma, alla figlia Pupettad (Vittoria) Nerilli, pediatra a Roma, a donna Giuseppina Santoro, moglie di don Nicola Ferri. Ma mi devo fermare, ho già rubato troppo spazio e tempo a Enrico Buono.
≠ ≠ ≠
Nel cielo cavalcavano nuvole grosse e nere, spinte da alti venti di settentrione. Scrosci di pioggia flagellavano a tratti i vetri dei balconi, la valle si riempiva come d’incanto di nebbia, di tanta nebbia che pareva un mare di ovatta impenetrabile. Dalla torre dell’orologio partivano rintocchi soffocati, poiché il vento portava via ogni suono. Il gallo di ferro sulla casa ducale strideva, si dibatteva nella direzione del vento. Il boschetto di acacia, lussureggiante nella buona stagione, aveva perso le foglie ed ora mostrava un “penno di groviglie” di rami e di fusti miserelli. Il casotto maleodorante, sotto la caserma dei carabinieri, non più nascosto dal fogliame, ora appariva in tutta la sua volgarità. Per la strada, i viandanti erano sempre più radi, avvolti nei cappotti a ruota gli uomini, chiuse negli scialletti le donne. Dietro i vetri del balcone guardavo per ore quello spettacolo quasi desolante, che pure mi attraeva oltre ogni dire. Per starmene più a lungo in contemplazione, trascinavo il braciere già pieno di fuoco vivo e sistemato nel supporto di legno verso il balcone: sistemavo la massa incandescente con la paletta raccogliendola al centro e ricoprendola di un velo di cenere perché non si consumasse così presto e covasse quindi lentamente; mi sedevo sulla sedia più bassa che avevo, malamente impagliata e con i piedi da me segati e tornavo a guardare la strada deserta e umida. Un odore di buona cucina si spandeva frattanto nella cucina. Il ragù, cotto a fuoco lento, gorgogliava nella pentola di rame rossa, lucente di fuori come oro. Sul tavolo c’era pasta fatta in casa, cavatelli piccoli, resi sottili dalla sapiente pressione delle dita, biancheggianti di farina spruzzata di fresco, allineati come soldatini di piombo, tutti uguali, tutti staccati l’uno dall’altro. Che fame, mio Dio! Quando si mangia? Non prima che papà torni dalla scuola, tra un’ora quindi e forse più. Che lunga attesa.
Nel camino le frascelle disposte a cupola in modo che l’aria vi circolasse liberamente ardeva con fiamma viva, lunga, si da lambire l’interno del camino di fuliggine annosa. Sprizzavano scintille come fuochi di artificio, isolate, a fasci e si perdevano verso l’alto della cappa del camino; e noi avevamo paura ch’esse incendiassero quella fuliggine provocando un incendio, come tante volte era successo. Che terrore quelle fiamme livide, che uscivano dal camino con ondate di fumo denso e nero, che pauroso rimbombo da fine del mondo quelle che sentivamo in cucina fino a quando non era tutto finito!
Un caldaio era appeso giorno e notte ai ganci della catena che pendeva dal camino, colmo di acqua che bolliva in permanenza tanto che dovevamo anche spesso aggiungervi acqua fredda. Quell’acqua ci serviva per mille usi, quando però non vi cadevano dentro grumi di fuliggine spinte in basso dal vento o dall’acqua. I grossi ceppi, ancora umidi di pioggia, venivano riposti nella parte posteriore del camino, ad una certa distanza dalle fascine, perché asciugassero lentamente. Quando soffiava ponente, il fumo rifluiva dal camino, a ondate continue, rendendo l’aria irrespirabile e gli occhi rossi e lacrimanti. Bisognava aprire la porta d’ingresso per rinnovare l’aria fumosa; ma da quella porta filtrava una lama d’aria fredda che “chiacciava” le gambe ed annullava quel tenue calore che le fiamme per tutto il giorno avevano diffuso d’intorno. Prima che arrivassero le grandi piogge, dall’orto di Ramagnulo erano stati portati a casa in grossi cesti larghi e bassi, carichi di pomodori “vernili”, i “pomodori”, che sarebbero durati per l’intero inverno. Colti prima che l’acqua li “infracidasse”, ora facevano bella mostra di sé, verdi come la bile, piccolini piccolini, raggruppati in cespi di cinque o sei unità, emananti un indefinibile odore di cose immature. La donna che li aveva portati dalla valle nelle cesti in bilico sul capo, ne tesseva l’elogio, mentre noi ne ostacolavamo l’entusiasmo, deprezzandoli in giusta misura, nella speranza di poter fruire una riduzione sul prezzo.
Poi ci si accordava, come sempre accadeva, anche perché si sapeva in paese cosa potesse costare quella merce. Cominciava quindi l’opera di svuotamento dei cesti, compiuta lentamente, con molta buona grazia, per evitare che i pomodori potessero staccarsi dai gambi. Li si spargevano sui tavoli, sulla credenza, sulla madia, dovunque ci fosse uno spazio libero e quindi si iniziava il lavoro paziente “dell’insertamento”: i gambi costellati di frutto venivano intrecciati attorno ad un solido spago abbastanza lungo si da formare una serta pronta da appendere. Nel quale veniva infilato la parte inferiore di un uncino, quindi l’altra parte dell’uncino, sostenuto da una lunga mazza biforcuta, la così detta “croccia”, veniva infilato su di una asse steso diagonalmente in alto, all’ingresso della cucina. La maturazione dei pomodori era lenta e più il freddo era intenso e più essa ritardava. Spesso qualche pomodoro marcio si staccava dal serto schizzando per terra o sul capo del malcapitato che in quel momento si fosse trovato a passare sotto i serti penduli . Quando i pomodorini diventavano maturi, erano acquosi e fragili, si aprivano con niente, non servivano per le insalate, contrariamente al parere di mio padre, ma solo per insaporire le minestre in brodo o i sughi. La conserva di pomodori era frattanto già stata preparata negli ultimi giorni di settembre, ricavata dai frutti a “fiaschetta”, ben maturi e succosi che erano stati spaccati a metà e messi a seccare al sole in grossi quadri in legno perché “asciugassero”. Quindi il frutto rappreso veniva passato al setaccio, la densa crema veniva bollita in caldai enormi a fuoco forte, ed a cose fatte, la conserva, rosso fuoco brillante, era riposta in recipienti di creta smaltata, ricoperta con carta oleata fermata da uno spago perché non filtrasse l’aria. Una faticaccia che teneva in ansia le massaie le quali consideravano un punto d’onore la buona riuscita del prodotto. La frutta era stata sistemata a dovere anch’essa. Se non la conservavi, non n’è avevi d’inverno, che non era in vendita al mercato, ed allora bisognava mangiare, per “sopra tavola” , ossia per frutta, sedani o finocchi, peraltro saporitissimi e rinomati, o qualche sorba matura o le lunghe foglie di lattuga freschissime.
L’uva malvasia, la prediletta, era stata insertata anch’essa con lo stesso procedimento dei pomodorini, e penzolava dorata e già lievemente appassita dall’asse appesantito al massimo da tutto quel ben di Dio. L’avremmo mangiata a Natale, aggrinzita e dolcissima, ben lavata, perché le mosche ci avevano lavorato ben bene sopra. Le mele costituivano la parte più economica e più vistosa delle provviste di frutta. C’erano le rosanelle, verdi-rosse, col gambo lungo, dolcissime quasi per farsi perdonare l’aspetto miserello che avevano, mele renette verdognole ed aspre; mele limonelle, le più gradite, dal sapore inimitabile ed unico, di colore paglierino chiaro, turgide di polpa bianca come il latte , buone sempre, lisce o aggrinzite, durevole nel tempo. Le mele venivano anche disposte su quadri in legno, sui davanzali dei balconi, sulle sporgenze più strane della casa. E l’abbondanza di esse consentivano a noi di mangiarne a volontà senza che ci avvertissero “vi fanno male”. Poche le cotogne, che arrostivamo sulla prima brace, dolcemente e che spaccavamo fumante per cospargerne la polpa di zucchero. Io gradivo la buccia abbrustolita, nerastra che crocchiava sotto i denti. Le sorbe erano pochine e quasi introvabili, di colore giallo rossastro, maturavano da un giorno all’altro e diventavano nere, morbide saporitissime.
Il fatto è che non facevano in tempo a maturare, che noi le avevamo mangiate, con disperazione dei genitori che non sapevano proprio dove nasconderle per salvarle dalla distruzione sicura ed immediata. Stringevano il corpo, dicevano in casa, per impedirei di finirle o di farne scorpacciate. Ma a noi che importava?
La raccolta delle olive era avvenuta, nei primi giorni di novembre, quando il cielo era tutto grigio di nubi e spesso piovigginava. Era compito delle donne la raccolta. Sparse negli oliveti, con uno scialletto avvolto sulla testa ed il grembiule rimbiccato, minuziosamente coglievano i frutti , senza lasciarne uno dietro. Cantavano a tratti, strane nenie incomprensibili, di poche note pieno di rimpianti e quasi dolorose, più che cantare, strillavano con voci altissime e roche, si interponevano, riprendevano, seguite dal coro non sempre accordato. Smettevano a giorno inoltrato per riprendere la via di casa, spesso lunga e faticosa, poiché gli oliveti erano sparsi nella valle, verso “1′Aimara”, ossia verso il Basento. Anche noi avevamo ancora alberi di olive, residuo di una grossa proprietà distrutta dalle suddivisioni fatte a tanti figli sposati nella nostra casa antica. Pochi cesti ci venivano portati dal “partitario” che lamentava sempre, anche nelle annate fauste, la scarsezza del prodotto.
Olive piccoline, che venivano distese su quadrati di legno e messe al sole, al residuo sole dell’autunno. Rimpicciolivano giorno per giorno, si raggrinzivano, che a vederle era una pena, ma quando le mangiavi avevano un sapore unico, straordinariamente buone. Ti mettevi a mangiarle e non la finivi più. Pane e olive e ti tornava l’appetito, se per caso non ne avevi, e potevi anche saltare il pranzo o la cena ed eri soddisfatto lo stesso.
Anche i peperoni, i “cornicchi” rossi e verdi di Grassano erano stati appesi alle verghe. Li portavano al mercato del mattino i grassanesi in grossi cesti a dorso di muli. Pesavano il prodotto come se fosse oro con le stadere antiche nere e consumate dall’uso e litigavano con le donnette per un grammo di merce, per un soldo, per mezzo peperone.
“Brutti cocozzari rausci”, cosi li apostrofavano le donnette come per vendicarsi di quell’avarizia, al che replicavano i grassanesi “tricaricesi spaccachiazza, vocche torte, sfaticati” e la rampogna era giustificata come reazione all’insulto. E così ogni giorno, inevitabilmente. Ma guai se i grassanesi non ci avessero fornito di tanta verdura e di tanta frutta! In paese ce n’era pochissima e di non buona qualità. I grassanesi bisogna dirlo, lavoravano sodo, caparbiamente, su di una terra avara e desolata, e quanto ricavavano era frutto di sudore e di sangue. Aspri arcigni, pronti all’invettiva velenosa, funerei nei loro abiti di pan- netto scuro, meritavano tuttavia il nostro incondizionato rispetto. Dicembre incalzava. “I trappeti” lavoravano a pieno ritmo. La raccolta delle olive era terminata ormai, il trasporto del prodotto era già stato attuato. Trappeto di Ferri, a porta Monte, il più vicino a casa nostra, spremeva giorno e notte le olive. Il trappeto era come un antro immenso, appena rischiarato da due lucerne ad olio posto su un ripiano del camino, fumose e graveolenti. Un vivido fuoco misto di fascine e di ceppi ben secchi ardeva in permanenza nel camino ampio, che tuttavia non aveva un buon tiraggio sicché il fumo regnava sovrano. In fondo, la grossa macina tirata da un mulo che girava girava in permanenza tutto bendato, schiacciava le olive riposte nelle forme rotonde di giunchi. L’olio trasudava quasi dalle maglie dei giunchi, si raccoglieva in un canale circolare e quindi fluiva come una fontana da un solo getto, silenzio- so, verdognolo, grasso e finiva negli appositi recipienti. Si sentiva d’intorno solo un fruscio come di foglie pestate ed il rumore attutito dagli zoccoli fasciati del mulo. Persone si muovevano come ombre in quel buio, affaccendate nell’opera della spremitura: un’aria caldiccia, densa stagnava nell’antro. Chi entrava, chi usciva, chi si sedeva, come per diritto sulle chianchette di legno grezzo, chi su qualche sedia spagliata e contorta per il lungo uso. E si parlava, si discuteva, si raccontavano storie, fatti di campagna, di rac-olto, di caccia, di caciare terribili. Intanto si mangiavano larghe fette di pane nero abbrustolito sul fuoco e messe ad affogare nell’olio appena spremuto. “Don Nicola, quest’olio è buono e con vostro comodo me ne mandate un quintale”, “ne capite, don Giulio, provvederò subito”. La fornitura dell’olio era assicurata, così, da un minuto all’altro, con saggezza e con la sicurezza del prodotto fine: un olio fragrante, limpido, vergine! Si era a metà dicembre e il cielo si chiudeva sempre più. A giornate talora inspiegabilmente miti, succedevano giornate di tramontana, di freddo vento che spazzava le strade e le spopolava. Era tempo dei panni più pesanti. Fuori, allora, dai cassettoni, gli abiti di pannetto di Lagonegro, ruvide e pesante; fuori le coppole pelose e sformate dal lungo uso e certi berretti di lana i cui bordi potevi tirarli dove volevi per proteggere le orecchie, la fronte, il naso, la faccia; fuori i calzettoni di pesante cotone nero, fatti in casa con i quattro ferri, scanalati e duri da far lasciare il segno; i mutandoni di tela grezza, con i lacci alle caviglie: fuori le mantelline militari tinte in grosse caldai, spiegazzate definitivamente che la- sciavano il segno del nero dovunque toccavano; cappotti a ruota col bavero spelacchiato: strane giacche-paletò a mezza gamba, miserelle, sbiadite, sciarpette di colore schiampagnino, di “cauzoni” che si sfilacciavano ad ogni contatto, e scialli, scialletti, “sparani” gonne pesanti, colletti alti di velluto, soprabiti attillati e lunghi e stivaletti di forma bizzarra.
Sui letti erano state accatastate tutte le coperte disponibili nella casa, la casa diventava ogni giorno più fredda, si può dire che immagazzinava gelo su gelo e bisognava difendersi. Le coperte erano di qualità scadente: figuravano di lana ma non erano di lana. Facevano peso da pazzi tanto che si faticava a rivoltarsi nel letto; ma il calore era poco e bisognava quindi, ogni sera, aggiungere alle coperte, una razione straordinaria di altro materiale, cappotti, paletò, scialli, scialletti per fronteggiare il maggiore bisogno.
Ero anch’io in pieno assetto invernale. Gli scarponi rigidi, spalmati di sego perché l’acqua non facesse presa, erano già ai piedi. Creazione di mastro Achille, fatti per durare chi sa quanto, duravano invece pochissimo. Si sfacevano come se fossero state di cartone, erano dure al punto che la tomaia non aveva una grinza. Le” centrelle” disposte a raggiera sotto la suola spesso se ne cadevano giorno per giorno. Le calze le avevamo tirate fin sopra il ginocchio, dove venivano legate con uno spago o trattenute con un elastico rosso, tratto da un copertone di bicicletta, i pantaloni cadevano oltre il ginocchio e sembravano segmenti di tubi di stufa, la giacca, fatta in casa con uno scampolo di stoffa della ditta Xollentuex, terminava dietro a coda di rondine, era strettina, con dei grossi bottoni che arrivavano al collo, donde partiva un colletto rigido alla militare, sotto cui dovevo mettere una fascia bianca che girava varie volte al collo. In testa, quale copricapo di lana, mandato dalla ditta Mele e Riccio di Napoli, che aveva un bottone nel mezzo, ed una grossa banda ai lati capace di abbassarsi e di coprire quindi ogni parte del volto. Tutto era rigido, teso ed io quasi non mi potevo piegare. Ma mi sentivo importante, protetto com’ero da quei panni congiunti.
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