Aria di Natale
(dal racconto ” Tempo d’inverno” di Enrico Buono)
C’è aria di Natale.
Il racconto di Enrico Buono procede limpido e attento ai dettagli. L’aria di Natale e annunciata da tanti segni e mi soffermo solo su quei segni sicuramente del tutto ignoti alle generazioni più giovani.
Il branco di tacchini che, spinto da Spacchetto, vanno in piazza a mangiare il granturco. Spacchetto è il soprannome di una generazione di macellai. Ai miei tempi c’era Mimì Spacchetto, figlio di Spacchetto evocato da Enrico Buono, che ricorda anche Fulmiodda. Questa era allora una giovane sposa che, col marito, gestiva una macelleria nel corso, di fronte alla casa dell’avvocato De Maria. Aveva l’età dei miei genitori, forse qualche anno di più, la vedevo ogni giorno passando davanti alla sua macelleria e la rivedevo con piacere, nel lento avanzare degli anni, salutandola cordialmente, io e mia moglie, nei giorni del nostro ritorno a Tricarico, fin quando non c’è stata più.
Fulmiodda arrostiva all’aperto gli “gnumiridd” (Buono li chiama “gnommirelli), che spandevano nel corso un intenso odore soave. Ha continuato ad arrostirli nel corso di tutta la sua vita e, quando tornavo a Tricarico, li comperavo, facendone la cena preferita per me e per mia moglie. Buono descrive gli approssimativi modi di pulire gli intestini con cui si avvolgevano le interiora degli gnumiridd, contrastanti con la cura maniacale con cui li puliva e disinfettava mia madre. Ma gli gnumiridd di mia madre non mi ci piacevano, scandalizzandola preferivamo quelli di Fulmiodda.”Sono meglio conditi” rispondevamo alle sue scandalizzate obiezioni.
Buono la macelleria la chiama beccheria, e chiama beccai i macellai. Avevano anche il nome di “vicciaria” e “viccir”, dal nome degli animali che si macellavano (becco = maschio della capra: vicc = tacchino). Quando andai via da Tricarico questi erano ancora i nomi prevalenti dei negozi dei macellai, molti dei quali avevano ancora l’insegna “Beccheria”, e le “beccherie” non ancora spacciavano carne bovina; bisognava acquistarla a Matera o a Potenza, e ultimamente, la si trovava anche a Grassano.
Buono ricorda anche i “fizz”. Stando seduti lunghe ore al braciere o al camino le gambe si cuocevano come salsicce arrostite alla brace in punta di forchetta e della salsiccia arrostita assumevano la forma.
Con questo, basta. Non voglio sottrarre altro spazio e tempo alla lettura del racconto di Buono, non senza prima avvertire la presenza di errori di stampa, che non alterano la comprensione del testo e non ho ritenuto opportuno correggere. .
≠
C’è aria di Natale in giro. Forse cadrà la prima neve, speriamo che ci sia la neve, perché il cielo la promette, nuvole così chiuse, così scure, e il poco vento che spira è freddino e fa rabbrividire. E poi, a dirci che torna Natale, c’è il branco di tacchini che Spacchetto , armato di un bastoncino e gesticolante, spinge ai margini della piazza, sulla spianata che guarda il “tuppo della Serra”, dove sparge manate di granturco, su cui i tacchini si avventano emettendo a tratti, quel glu glu glu classico che riempiva l’aria. Sì, è proprio la vigilia di Natale perché solo allora i tacchini vanno in piazza a mangiare il granturco. Hanno poi ammazzato i primi maiali: sono appesi nelle beccherie con la testa in giù ed un arancio in bocca, aperti sul davanti con le interiora ancora penzolanti, il lardo e la sugna intatti. Ciò vuol dire che siamo nel tempo del freddo altrimenti i maiali non si ammazzano. “Fulmiiodda”, arrostiva all’aperto pezzi di fegato avvolti nelle interiori del maiale. Dalla cucina di campagna si levava per l’aria un fumo denso profumato mentre gli involtini, gli “gnommirelli” sfriggevano piano piano fino a diventare dorati e croccanti. Molti avevano il coraggio di mangiarne, il fatto è che le interiora che servivano ad involgere il fegato non erano lavati ma soltanto spremuti fino a farne colare i residui putrolenti. Forse il fuoco purificava il tutto e non faceva avvertire il sapore greve.
I fichi secchi venivano riposti con le foglie di alloro negli scatoli di cartone che ancora odoravano di sapone; l’uva era rinsecchita quel tanto che bastava, l’olio nuovo era pronto per le grandi fritture della vigilia di Natale. Le “scherpelle” si sarebbero ammonticchiate, con non poca fatica, nei piatti grossi lesionati scheggiati e talora rappezzati con filo di ferro filato. Una deliziosa attesa quella del Natale!
Oggi è una giornata che sembra di primavera. Un sole caldo, un’aria di primo settembre, puoi uscire di casa senza coprirti e passeggiare sulla via nuova a tuo piacere. Che strana cosa! A sera: il cielo è azzurro. Poi spuntano rade nuvolette a pecorelle, le nuvolette si spandono per la volta celeste, si aggrumano, si condensano in un attimo, ma non impediscono alla luna piena di irrompere tra spazio e spazio e di illuminare come fosse giorno il nostro campo di giochi. La dolce insperata sera ci aveva chiamati fuori sotto il palazzo ducale, a giocare a “briganti e carabinieri”, a “Fra Girolamo a mazza e mpossa”. Passavano le ore e l’aria era sempre dolcissima. Ma il domani la luce stentava a filtrare nelle stanze, sulla strada non si avvertiva rumore alcuno; gli zoccoli delle bestie non battevano come sempre sul selciato. Dunque, era arrivata la neve, candida, fitta, soffice, che nella notte si era adagiata sulla terra asciutta e l’aveva coperta dolcemente, senza un alito di vento, ed era cresciuta cresciuta in poche ore fino a rag giungere tanti centimetri. Il mondo sembrava ovattato: fiocchi grossi pacatamente cadevano continuamente cadevano, tutto era avvolto in bianco violento, uno spettacolo bello e gioioso insieme. Gli uccellini affamati svolazzavano sui fili della luce, sui rami smuovendo una polverina di neve, saltellavano sulla terra in cerca di cibo. Qualche cane randagio con la coda arrotolata, sfiaccato e con la testa bassa, trottava in chi sa quale direzione . La torre di Santa Chiara, la torre dell’orologio, i tetti, la valle, tutto era sepolto dalla neve. Facciamo il sorbetto, raccogliendo con un cucchiaio la neve cristallina del davanzale del balcone, ci mettiamo dentro mezzo bicchierino di vincotto, rime- stiamo e mangiamo. Poi giù a fare a palle, e con le mani rosse per il freddo, il naso rosso, i pomelli rossi. Tira, tira, dai addosso, lancia palle enormi bene arrotondate e giù sul capo del malcapitato, ma bisognava non farci caso, tanto la neve non fa male, a meno che non ti arrivi una palla sulla faccia o sull’orecchio: Nicola, Rocco, Potito, Pancrazio, Giuseppe sono sulla breccia, con gli abiti laceri e le scarpe rotte. Stracci per giacca, straccio il berretto a sghimbescio da cuispuntano icapelli, a pezzi le scarpe, con ipiedi che sbucano da tutte le parti e le calze che non ci sono. E ridono, incuranti del gelo, felici della battaglia incruenta.
C’è anche chi salta come un canguro, lo vedo lontano: forse, anzi certamente non ha scarpe. Con la neve senza scarpe? Con la neve senza scarpe: l’ho visto io tante volte e ora quasi non ci si credo, non cicredo io stesso!
Lo spettacolo fiabesco miattira, mi avvince e scordo ogni cosa. La pignata, sul focolare, brontola, con cavoli neri messi a stufare, con l’olio crudo: ci sarà poi per secondo piatto il bianco delle uova tenuto in serbo, da friggere all’ultimo momento con i peperoni secchi, quelli che diventavano croccanti: avremmo concluso il pasto con un finocchio e due castagne arrostite. Ce ne avevano portate alcuni giorni prima, erano piccole ma dolcissime e le mettevamo, dopo di avere incise con un coltello, nella varola bucherellata, sulla fiamma che ardeva in permanenza, girando e rimestando fino a quando non le vedevamo abbrustolire a dovere, da potersi schiacciare d’un colpo solo per mangiare la polpa annerita, morbida ancora cocente. Il fuoco del camino è alto, iceppi bruciano ch’è un piacere perché sono ormai asciutti; a tratti senti un piccolo schioppo, vedi lingue violacee che sibilano come fossero fiamma ossidrica. “male lingue, male lingue”, diciamo in coro quando ciòavviene. La cenere calda, che è sparsa per tutto, viene pazientemente raccolta con la palettina e messa in circolo a delimitare la brace accesa. Ora non occorre più alimentare la fiamma che è tenue ma uniforme.
Il caldo rimbalza dal muro del camino e batte violentemente sui nostri visi che sembrano congestionati. lo nascondevo la faccia al riverbero ed allungo solo le gambe al tepore, ma anche alle gambe il calore faceva certi scherzi strani: si disegnavano su di esse quei segni che chiamavamo “fizzi” e che consistevano in un complesso arabeschi strani quasi deformavano le gambe. L’aria calda, si perdeva attraverso la cappa del camino e si stabiliva una corrente d’aria tra casa e camino invisibile e tanto più nociva e tu avvertivi con brividi, che la presenza della grande fiamma non riusciva a contenere. E bisognava mettere allora sulle spalle uno scialletto, una giacca di lana, una sciarpa che ti coprisse la schiena ed equilibrasse il calore eccessivo che veniva davanti. Dopo pranzo ci vinceva una sonnolenza piacevole. La poltrona serviva per mio padre; mia madre tornava ad accudire la casa: noi ci arrangiavamo alla meglio, utilizzando due sedie, occorrendo, per appoggiare il capo. Ci bastava poco, in verità le mollezze non erano per noi.
Passavamo le ore lente, in silenzio. “Annottava” presto, alle quattro era già scuro e bisognava perciò accendere la luce. Quando mancava la luce elettrica, ci servivamo dei lumi a petrolio, uno appeso sul tavolo della cucina ed altri, all’occorrenza, sotto mano. Il lume centrale veniva tratto in basso da un sistema di carrucole molleggiate: si toglieva il tubo delicatamente, si ripuliva, si pareggiava il nastro imbevuto di petrolio, si accendeva il nastro riducendone la fiamma al massimo per poter rimettere il tubo senza fastidio e senza che si affumicasse: quindi si alzava la fiamma al punto giusto e si rimetteva il lume al suo posto, regolando ne l’altezza. “Buona sera” dicevamo ogni qualvolta si accendevano per la prima volta i lumi. “Buona sera” ripetevamo tutti con grande serietà. Una tradizione semplice e buona. Avevamo a portata di mano candele, fiammiferi, in ogni stanza, sui comodini, c’erano le bugie con i mozziconi di candele, costellati di grumi di cera.
Erano le cinque ore del pomeriggio prepararsi per andare a casa del commendatore.
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