La politica del mestiere di Alesssandro Leogrande
da RITORNO A ROCCO SCOTELLARO
La politica del mestiere
di Alessandro Leogrande
La politica del mestiere di Alessandro Leogrande, vice direttore della rivista letteraria Lo Straniero è l’ultimo documento della categoria Ritorno a Scotellaro del n. 162/163 della detta rivista e rappresenta un contributo fondamentale alla comprensione di Scotellaro.
La politica del mestiere, per Scotellaro, così come per Rossi-Doria, nasceva innanzitutto dallo studio non ideologico della realtà e dalla consapevolezza di aver pazienza circa i tempi dell’intervento.
Scotellaro scrive a Manlio Rossi-Doria “Mi sostiene ancora una profonda fiducia d’un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo”. Rossi-Doria risponde che un’epoca ormai si era definitivamente chiusa: “Per essere capaci di vivere utilmente quella che si apre o forse quella che seguirà a questa, bisogna prendere atto con assoluta chiarezza di questo fatto e bisogna cambiar vita. Di agitatori nessuno ha più bisogno e meno che mai i nostri poveri contadini di Basilicata.” Anche Rossi-Doria aveva profonda fiducia in un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo, ma da “una ribellione fredda; senza fumi, alimentata da un lavoro cocciuto e paziente che alla fine ce la deve fare a riuscire. È in questo senso che ho imposto tutta la mia vita. Dalla politica per ora mi sono ritirato e faccio la mia politica del mestiere.”
Quanta staticità intellettuale, quanta incapacità di capire un mondo in evoluzione e la crescita di Rocco Scotellaro da parte pur di un uomo come Tommaso Pedio, che racconta a Raffaele Nigro di aver incontrato Rocco qualche mese prime della sua morte e aveva notato che egli non aveva più gli interessi di un tempo, apparteneva a un mondo che a Pedio sembrava lontano, un nuovo mondo borghese. Non capiva, Pedio, se c’era rimpianto o distacco dal mondo del passato. Semplicemente, non era capace di capire Rocco. (Rocco Scotellaro, Lettere a Tommaso Pedio. Edizioni Osanna Venosa, 1986, p.23).
(N.d.r. Le evidenziazioni nei passi di Rossi Doria sono mie)
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A Palazzo Lanfranchi, a Matera, è conservata Lucania 61, la grande opera pittorica di Carlo Levi lunga 18 metri e mezzo e alta più di 3, che rappresentò la Basilicata alla “Mostra delle Regioni” organizzata a Torino nel 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia. Lucania 61 racconta in cinque pannelli, che probabilmente costituiscono la summa del Levi pittore, la storia della Lucania contadina e di Rocco Scotellaro, il poeta in bilico tra mito e oblio, che ancora ci interroga, non solo attraverso quel quadro.
Scotellaro nacque il 19 aprile del 1923 a Tricarico, da padre calzolaio e da madre sarta e “scrivana” del vicinato. Morirà il 15 dicembre del 1953, stroncato da un infarto, a Portici. Nei trent’anni della sua breve e intensa esistenza sono racchiusi tutti i segni del più grande sommovimento che abbia travolto il Sud nel Novecento: il ridestarsi di un mondo contadino e bracciantile per certi versi fino a quel momento “fuori dalla Storia”, o comunque relegato ai suoi margini. Scotellaro fu, come disse Carlo Levi che lo considerava un fratello minore più che un figlio, “il poeta della libertà contadina”: il narratore di quel lungo processo di liberazione, mentale non solo materiale, culminato nell’occupazione delle terre della fine degli anni quaranta, negli incerti successi e insuccessi della riforma agraria e, soprattutto pochi anni dopo la sua scomparsa, nell’emigrazione di massa verso il Nord. A differenza di chi aveva raccontato quel mondo dall’esterno, Scotellaro fu il primo a farlo dall’interno. Le poesie di È fatto giorno che vinsero il Viareggio, il romanzo incompiuto L’uva puttanella (che Levi riteneva superiore allo stesso Cristo si è fermato a Eboli), l’inchiesta altrettanto incompiuta di Contadini del Sud, pubblicati tutti nel biennio 1954-55, costituiscono il nucleo del suo lascito.
Ma Rocco non fu solo un giovane intellettuale meridionale del dopoguerra. Fu anche un politico, un amministratore: il giovanissimo sindaco socialista del paese in cui era nato, Tricarico, fortemente attraversato da quei sommovimenti. Della politica visse le gioia di una vittoria elettorale forse insperata, la difficoltà estrema dell’amministrare, le sofferenze della calunnia (per un accusa del tutto infondata di malversazione fu addirittura costretto a una quarantina di giorni di carcere, esperienza poi raccontata in alcune bellissime pagine dell’Uva puttanella).
Per chi si volge a rileggere la sua opera, a sessant’anni esatti dalla sua scomparsa, l’aspetto più interessate è proprio questo intreccio irrisolto tra letteratura e politica, tra l’individuare lucidamente i problemi, il saperli narrare, e il peso della loro risoluzione.
L’uva puttanella parla della sua infanzia, della famiglia, della morte prematura del padre, della miseria nera della Lucania, delle sue esperienza di sindaco, del movimento dei contadini e dei braccianti per la terra… Le pagine più commuoventi sono quelle in cui si racconta della morte di Pasquale, un fuochista che ha perso il poco di cui viveva, e dell’impotenza di un sindaco di fronte al suicidio di un povero, di fronte a tutte le povertà cui non si riesce a mettere mano. Un tema doloroso, questo, che ritorna anche nella riflessione, e nella vita concreta, di tanti amministratori del Sud di oggi: proprio del Sud nascosto dei piccoli paesi di provincia, in genere non raccontati, benché attraversati da una crisi profonda.
L’ultimo Rapporto Svimez, ad esempio, parla di una società meridionale in decomposizione, attraversata da una feroce recessione, dalla desertificazione industriale, dal non-lavoro dei giovani, del ritorno dell’emigrazione verso l’esterno, proprio nel momento in cui il Sud sembra espulso dell’agenda politica, dagli slogan dei leader emergenti, e il meridionalismo dei Levi, dei Rossi-Doria, dei Salvemini e dei Fortunato è stato accantonato – sommerso dai latrati dei neoborbonici, che di esso sono l’esatto contrario.
Nel Sud che si decompone riaffiorano tante storie di povertà, solitudine, impossibilità di andare avanti, che andrebbero raccontate al di là del medium giornalistico, al di là della concentrazione (e, quindi, anestetizzazione) in poche righe superficiali, come accade in genere sui giornali. Anche per questo, i libri di Scotellaro sono un esempio letterario su cui meditare: un esempio complesso, sfaccettato, poliedrico, come tutte le narrazioni che sorgono seguendo mille rivoli, e che per giunta, come nel suo caso, restano incompiute. Eppure queste strutture narrative stratificate sono oggi un modello con cui fare i conti, un modello signi- ficativo di inchiesta, di costruzione di biografie di uomini e donne sconosciuti, di rielaborazione di racconti ascoltati a voce o raccolti “in presa diretta”, persino di autobiografia politica, tra pubblico e privato. Si coglie in ogni pagina in prosa di Scotellaro il tentativo di trovare una soluzione letteraria all’organizzazione di questo materiale complesso, la riflessione costante sul medium della scrittura (prima o terza persona singolare, italiano o dialetto, lingua parlata o scritta…) affinché esso non strozzi la vita di cui si vuol dire, ma la faccia invece scivolare nelle pagine.
Rocco Mazzarone, medico epidemiologo che gli fu amico, tra coloro che hanno condotto nel materano la lotta contro la malaria e la tubercolosi, ha ricordato più volte come Scotellaro fosse pienamente consapevole della complessità del tessuto sociale del suo paese, e del Sud in generale. Non era solo il poeta della libertà contadina. Lo fu innanzitutto, certo. Ma fu anche consapevole, da sindaco, della necessità di creare alleanza sociali molto più ampie e complesse; come fu cosciente dell’importanza di uscire (per un po’ di tempo) dal proprio mondo, per meglio comprenderlo con uno sguardo allo stesso tempo interno ed esterno.
Anche per questo, conclusa amaramente l’esperienza di sindaco, Scotellaro si trasferì a Portici, all’Istituto di Agraria diretto da Rossi-Doria, con l’idea di acquisire strumenti maggiori per intervenire sul Sud in trasformazione. È in quella fase che nasce l’idea di realizzare l’ampia inchiesta sui Contadini del Sud, raccogliendo storie “sul campo”, in tutte le regioni del Mezzogiorno continentale.
In una lettera a Rossi-Doria del luglio del 1948, all’indomani delle elezioni politiche, Scotellaro scrisse: “Mi sostiene ancora una profonda fiducia d’un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo”. Rossi-Doria gli rispose che un’epoca ormai si era definitivamente chiusa: “Per essere capaci di vivere utilmente quella che si apre o forse quella che seguirà a questa, bisogna prendere atto con assoluta chiarezza di questo fatto e bisogna cambiar vita.
Di agitatori nessuno ha più bisogno e meno che mai i nostri poveri contadini di Basilicata.” Aveva anche lui profonda fiducia in un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo, ma da “una ribellione fredda; senza fumi, alimentata da un lavoro cocciuto e paziente che alla fine ce la deve fare a riuscire. È in questo senso che ho imposto tutta la mia vita. Dalla politica per ora mi sono ritirato e faccio la mia politica del mestiere.” La politica del mestiere, per Rossi-Doria, così come per Scotellaro, nasceva innanzitutto dallo studio non ideologico della realtà e dalla consapevolezza di aver pazienza circa i tempi dell’intervento. In un Sud mutato rimangono – ancora oggi – l’estrema fatica di intervenire sulle cose, sulla materia dei rapporti umani, per trasformarli, e l’estrema fatica di raccontare le linee di frattura, la complessità delle tensioni sociali, che spesso mutano (come rilevava Scotellaro) da paese a paese all’interno della stessa provincia, la cultura e la politica, i comportamenti elettorali, le alleanze elettorali, gli immobilismi vecchi e nuovi, il ruolo dei luigini.
Rispetto a sessant’anni fa, proprio perché il Sud, più che il resto d’Italia, ha vissuto una fase di crescita e decrescita infelice, di accesso alla società dei consumi e poi di ripiegamento nell’assenza strutturale del lavoro (e sovente di una cultura del lavoro, soprattutto dopo il fallimento dei grandi poli industriali), serpeggia un rancore maggiore, a volte difficile da afferrare.
Una collera, mista ad apatia, su cui è complicato edificare qualsiasi cosa.
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