Serate nel cuore dell’inverno
(Dal racconto TEMPO D’INVERNO di Enrico Buono)
Erano le cinque ore del pomeriggio:
prepararsi a passare le serate nel cuore dell’inverno
Segnalo le seguenti parole di questo brano: I conversari erano variatissimi, spiritosi, intelligenti. Era una gara a chi le diceva più carine; le ore passavano …
Mi guardo bene dal tessere l’elogio del bel tempo passato, che ricordo bene le lunghe solitarie serate d’inverno che non sapevi che fare, t’annoiavi da morire, arrostendo le gambe al braciere o al camino, mentre le spalle ghiacciavano. Ma è vero che non si è mai finito di rimpiangere le serate passate al focolare a conversare, quando si aveva la possibilità di radunare una bella compagnia. A me non capitava di rado, ci riunivamo al focolare di casa Albanese, un appartamento in affitto nel palazzo di donna Giuseppina Santoro in via Rabata, subito dopo la casa del prof. Gagliardi, quando Rocco Scotellaro non aveva altri impegni e Benì Cataldo non trascorreva la serata a casa della fidanzata Celeste, io. Nicola e Antonio, almeno, c’eravamo sempre o quasi, col padre Rocco e qualche amico di questo. Si arrostivano le patate sotto la cenere calda e si discuteva. Poi arrivò la televisione e cambiò il mondo. Ma noi eravamo già vicini ai trent’anni.
In questo brano Buono racconto le serate trascorse a casa del “commendatore”, un notaio oriundo di Salandra, che guadagnava più che bene e aveva messo su una considerevole fortuna. Il commendatore era il notaio Francesco Rivelli, oriundo di Salandra. Era il solo notaio del posto e uno dei pochi del distretto. Lavorava molto e guadagnava bene. Abitava una bella casa, che veniva chiamata Palazzo Rivelli, di fronte all’ex cinema Carolillo, aveva dotato di beni i suoi discendenti e favorito buoni matrimoni. Io non l’ho conosciuto, ma ricordo gli eredi che a Tricarico trascorrevano periodi di vacanza. Erano ragazze o signore un po’ snob, che, ad esempio, segnavano su una lavagnetta in cucina il menu del giorno dagli strani nomi: Rari Nantes, pastine naviganti nel brodo o Mare dei Sargassi, che doveva essere una zuppa bianca di pesce; di tanto in tanto veniva anche un ingegnere, con la moglie e un figlio della mia età, vivevano a Milano, ma lui era richiamato e a Tricarico veniva in divisa da maggiore. Poi, i Rivelli furono una delle famiglie estinte di Tricarico, il palazzo, per un certo periodo, fu adibito a sede del fascio e in quell’occasione ebbi modo di frequentarlo. Pare che qualcuno dei discendenti si sia affermato, se non ricordo male, nel mondo della televisione.
Il commendatore tornava dal circolo quando le signore erano già riunite in folta compagnia attorno al focolare. Su appunti dell’avv. De Maria leggo che al circolo si giocava, perché l’ambiente non permetteva altre distrazioni e a sera, quando ci si riuniva, qualche cosa si doveva fare … per ammazzare il tempo. Il batuffo dei vecchi era una vera seduta accademica: discussioni su un piombo non accusato, su un asso non passato sul busso del compagno, e l’ultima parola a Chitarella; le sgridate di don Pancrazio per un cappotto dovuto alle ‘fesserie’ del compagno; le mortificazioni del commendatore Rivelli. I più famosi batuffisti e calabresisti costituivano la ‘Cassazione’ ed il primo presidente ne era ritenuto il cav. Avv. Don Pancrazio Lorigi.
Di tanto in tanto uscivano dattilografate le “Cronache di batuffo”, dove si consacravano le giocate e gli incidenti più interessanti. Eccone un saggio riguardante il commendator Rivelli:
SU UNA IMPRUDENZA DEL COMM. NOTAR RIVELLI AVV. FRANCESCO, PRESIDENTE DELLA SEZIONE ‘CALABRESELLA’ COLLOCATO A RIPOSO, IL QUALE DA SPETTATORE VOLLE GIUSTIFICARE, EGLI UOMO ACCORTO E SAGGIO, LA FESSERIA DI UN GIOCATORE, SOSTENENDO UNA FESSERIA ANCORA PIU’ GROSSA.
E chi di voi non ha, com’io sovente,
sentito pronunziar proverbi belli
d’alta saggezza dal notar Rivelli,
che tutti noi sappiam se sia prudente?
E fra le tante massime e sentenze,
che ad ora ad ora ci ripete a iosa,
a chi di noi è la sentenza ascosa,
che vieta all’accort’uomo le imprudenze?
Inver, la sorte d’ogni Bertoldino
è quella stessa, piena di gran sale:
“Predica bene e razzola po’ male”,
che si racconta del fra’ certosino.
A mostra di sua dubbia valentia,
volendo il nostro buon commendatore
giustificare un grave altrui errore,
più grosso di costui fe’ fesseria.
A fine serata la famiglia Buono (don Giulio con la moglie e i i figli Enrico e Maria) tornavano a casa in viale regina Margherita, lungo a percorso accidentato, con pantani e passaggi davanti a vicoli maleodoranti. Ne deduco che via Roma non fosse pavimentata. La descrizione del percorso indica case di famiglie estinte a Tricarico: i Zambrano, dei quali va ricordata la storica maestra Maria Zambrano, i Demma, i Cigliese, Gigli.
E’ vero che si cenava e subito si andava a letto, in ossequio al precetto della Scuola medica salernitana: Post prandium aut stabis aut lente deambulabis. Era il precetto per l’inverno. Ma i saggi medici salernitani non avevano mancato di prescrivere per l’estate la penichella postprandiale e la passeggiatina del dopo cena: Post prandium stabis, post coenam deambulabis. Che si cenasse anche a mezzanotte e subito dopo si andasse a letto, come sostiene Buono, lo escludo per il dopo cena d’inverno. Ricordo mio padre che diceva: Uè! Stasera hamm fatt l dic. Mangiam e sciamn a colc. La sera cominciava alle cinque ed era lunga a passare. I carboni nei bracieri e la legna nei camini si spegnevano, bisognava coprire con la cenere le braci accese per accendere nuovi fuochi l’indomani.
Buona lettura del seguente brano del racconto di Enrico Buono.
≠
Erano le cinque ore del pomeriggio prepararsi per andare a casa del commendatore.
Il commendatore era nato a Salandra tanti anni prima, aveva studiato da notaio ed era stato assegnato a Tricarico, che aveva la sede vacante. Gli anziani se lo ricordavano con un cappotto a quadretti. La fortuna gli arrise, anche perché , bisogna subito dirlo, lavorava tante ore al giorno, essendo solo ed avendo molti affari per le mani. Comperò case e terreni ebbe una bella famiglia sposò tutti i figli assai bene dando a ciascuno la Sua dote. Insomma una vita ben vissuta. La casa del commendatore era ospitale ed aperta a noi che eravamo amici, per lustri e lustri, ad una data ora, quando scuriva d’inverno, le nostre famiglie, come in pellegrinaggio obbligatorio, andavano in via Monte, entravano nel portoncino che aveva un solo gradino, salivano le due “rambe” di scala ed entravano subito a destra nella cucina illuminata a gas. “Buona sera, buona sera” e giù abbracci e baci ogni volta, come se si tornasse da un viaggio lungo e rischioso. Arrivavamo noi: mia madre e noi bambini, arrivavano le mie zie Carolina e Concetta, le mie cugine Mariuccia e Camilla, gli amici Demma e vari altri. Nel camino una bella fiamma alimentata da Antonia o da qualcuno di noi. Il cerchio attorno al camino di mano in mano che la gente arrivava “Buona sera, buona sera e giù baci e abbracci”, si allargava sempre più fino quasi a toccare il grande armadio a vetri in fondo alla cucina. I posti erano tacitamente assegnati ad ognuno secondo l’età, la salute. Nei primissimi posti, quelli che avevano a destra ed a sinistra due finestroni luminosi, sedevano gli uomini anziani, quando tornavano dal circolo, a tarda sera, e cioè il commendatore e zio Gaetano, l’uno dirimpetto all’altro, seguivano mia madre a sinistra, zia Concetta a destra, zia Demma e poi le cugine e poi ancora noi piccoli, che però preferivamo far compagnia alle don- ne di servizio che si raccoglievano intorno ad un braciere pieno di fuoco ardente, e dove si rideva e si dicevano fatterelli e storielle a base di lupo mannaro e di masciare ..
I conversari erano variatissimi, spiritosi, intelligenti. Era una gara a chi le diceva più carine; le ore passavano, l’ambiente si riscaldava, il vento soffiava da Santa Maria con forza contro i balconi che pareva dovesse da un momento all’altro spalancarsi ma che inspiegabilmente resistevano ai più grossi assalti. Tornavano poi gli uomini dal circolo, imbacuccati nei tabarri, col cappello calcato sulla fronte, infreddoliti ed ansanti per via del vento che spirava violentissimo. Mancava la luce per le strade, ed Antonia la fedele domestica del commendatore, portava, ad una certa ora, due grosse lanterne con dentro mozziconi di candele che ardevano al riparo dei vetri bene infissi negli angoli di latta. C’era pericolo che le tegole, le quali spesso venivano strappati dai tetti e scaraventate chi sa dove, cadessero sulla testa e ciò determinava una certa preoccupazione agli uomini anziani, costretti altresì a parlare, a farsi sentire mentre camminavano, per evitare qualche pioggia insalubre lanciata dall’alto di qualche finestra. Una sera anche le luci delle lanterne si spensero, non so per quale fatalità, e mentre i poveri uomini camminavano uno affianco dell’altro, s’impattarono in un contadino che portava sulla testa delle fascine secche. L’urto frontale fu inevitabile, e le conseguenze le vedemmo noi, quando comparve zio Gaetano e don Francesco conciati come lazzari, grondanti sangue dalla faccia. Una scena tragicomica, che mise di buon umore le mie sorelle e le mie cugine, ma anche le donne anziane cercavano di nascondere la loro ilarità sotto un falso velo di disappunto. Il commendatore si liberava dal cappotto e si avviava al posto fino a che gli veniva ceduto seduta stante. Per prima cosa toglieva le scarpe, era questa una consuetudine ormai acquisita che consegnava a qualcuno di noi, ed infilava le pantofole di velluto col ricamo a fiori, dopo averle fatte riscaldare, ponendole a fianco degli alari qualche minuto. Le pantofole glieli porgevamo noi bambini che facevamo a gara per avere questo onore. Intanto arrivavano gli altri della compagnia, chi prima e chi dopo, a meno che qualcuno e tra questi mio padre, non avessero fatto dire che non sarebbe venuto per non lasciare il gioco. Al circolo si tirava la “recchia del ciuccio” come si diceva per chi giocava con un certo impegno. Era uno spasso la conversazione così rinforzata da forze maschili fresche. Una girandola di doppi sensi, di storielle amene, di critiche facete sugli avvenimenti paesani. Poi, si toglieva il disturbo, come diceva mia zia Concetta sempre compita. Nuovi saluti, nuovi abbracci e baci e via a casa per la cena, che consisteva sempre in un piatto di cime di rape verdissime e dolci, portate dai giardini verso la fontana, un uovo o dei peperoni ed un sopratavola: sedano, finocchi, una mela. Era grossa impresa talvolta attraversare, in certe serate, il tratto di strada per tornare a casa. Per fortuna, la strada la sapevamo a memoria, ed anche all’oscuro riuscivamo a mettere il piede al punto giusto. Fino a casa di zio Gaetano, la strada non presentava difficoltà. Il brutto veniva dopo, c’era la discesa dopo la bottega di mastro Luigi; le buche enormi verso casa di Zambrano, il pantano lurido sotto la casa di Cigliese, il rialzo pericoloso se era “chiacciato” sotto la casa di Lopresto, il vicolo puzzolente che fiancheggiava la casa di Gigli. Poi la strada si metteva al meglio, finchè si arrivava in piazza, spazzata dal vento, ed il tratto di via nuova che ci portava finalmente a casa.
Si cenava alle nove, alle dieci, a mezzanotte, a qualunque ora. A letto si andava subito dopo e si digeriva benissimo. Giorno su giorno l’inverno marcia a passi da gigante. Siamo oramai alla vigilia di Natale, e sentivamo che la festa è nell’aria, nei cuori, come un dono dolcissimo. Se nevica, ben venuta la neve: Natale con la neve è una benedizione, ne arride il sole, ben venuto il sole a raddolcire l’aria e a rallegrare i cuori. Certo, l’attesa della festa era trepida. L’antivigilia si dava il via alla tradizione secolare che voleva la famiglia riunita davanti al camino, mentre le frittelle preparate con amorosa cura, la pasta era stata fatta crescere a dovere, l’impasto era enorme perché eravamo in tanti e bisognava farne anche per i giorni futuri, la fiamma ardeva altissima, l’olio fumava, il grosso padellone col manico lungo era ben fermo su trepiede alto. La pastaccia, lavorata di mano in mano veniva arrotondata a forma di biscotti, per la bisogna le mani erano bagnate spesso in acqua tiepida. La frittura cresceva a vista d’occhio, veniva sollevata con un mestolo forato, disposta in grossi piatti di coccio, e spariva di mano in mano che veniva accantonata: fino a quando, sazi di mangiarne noi smettevamo di toccarne. Ed allora le frittelle, le “schirpelle” come le chiamavamo, si ammonticchiavano e piatti su piatti venivano riempiti. La cena della vigilia era semplicissima: spaghetti aglio e olio e pomodoro, anguille o capitone arrostito sulla brace, a pezzi, che scivolavano continuamente sulla cenere, tanto erano ancora vitali, frutta e casatelle: rose di pasta frolla fritte nell’olio bollente, riempite di miele biondo e fatte raffreddare. Quando nevicava, a turno ci affacciavamo ai balconi per non perdere quello spettacolo dolce.
Passava anche Natale, e già se ne sognava un altro. Le scuole riprendevamo le lezioni, sciami di ragazzi ogni mattina risalivano la via di Sant’Angelo, per andare nel convento di Santa Chiara, dov’erano le aule. Furiose battaglie a palle di neve; nasi rossi gocciolanti, zaini a tracollo o borse di teletta cucite in casa, bottiglie di acqua, pane, pennini spuntati a centinaia, risse furibonde, urla da scalmanati, e la voce classica degli insegnanti, abituati a quei clamori.” Sette per sette quarantano?”ve”, otto per otto sessanta? “quattro”. Il maestro Ferri ci aiutava a ri- spondere ed era soddisfatto delle solo finali quando facevamo la tavola pitagorica. E le canzoncine deliziose? “Una goccia nuvoletta sitibondo un fior grido” , “Venezia è cosi bella”, “Cari maestri, care ombre ormai, noi vi abbiamo consacrato, nel profondo del nostro cuore, un sacrario di ricordi!”
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