GENNAIO
dal racconto TEMPO D’INVERNO di Enrico Buono
Divagando in Premessa:
U sartascinidd e Un venditore di setole di porco

     

     A gennaio – freddissimo – soffia forte e impetuoso il vento di tramontana, che porta tempo asciutto e cielo sereno, talvolta con sole vivissimo.
     La macellazione casalinga e il carnevale caratterizzano questo mese. Enrico Buono li racconta col gusto suo proprio dei dettagli, ma con qualche piccola distrazione.
     L’essenza della festa di carnevale è cristiana: precede la Quaresima, uno dei tempi forti penitenziali, di quaranta giorni (ma di fatto i giorni sono un po’ di più, quarantaquattro), che la Chiesa cattolica e le altre chiese cristiane celebrano lungo l’anno liturgico in preparazione della Pasqua. Prima della Quaresima bisogna togliere di mezzo le carni, da cui bisogna astenersi durante il periodo quaresimale: carnem levare è l’espressione da cui deriva carnevale, che in alcune regioni meridionali si chiama carnilivari.
     Buono descrive ovviamente la festa di carnevale dei suoi tempi, che con gli stessi riti e le stesse modalità si protraeva anche ai miei tempi ed è il Carnevale che qui interessa conoscere, che non ha nulla a che vedere col moderno carnevale tricaricese. Premetto al racconto di Buono la bellissima descrizione di Carlo Levi: «… andai apposta a Tricarico, con Rocco Scotellaro. Il paese era svegliato, a notte ancora fonda, da un rumore arcaico, di battiti di strumenti cavi di legno, come campane fessurate: un rumore di foresta primitiva che entrava nelle viscere come un richiamo infinitamente remoto; e tutti salivano sul monte, uomini e animali, fino alla Cappella alta sulla cima …. Qui venivano portati gli animali, che giravano tre volte attorno al luogo sacro, e vi entravano, e venivano benedetti nella messa, con una totale coincidenza del rituale arcaico e magico con quello cattolico assimilante».
     Passando, ora, al rito crudele della macellazione del maiale, e alla festa che accompagna il lungo rito della preparazione delle carni, Buono sostiene a ragione che le salsicce e le soppressate che si preparano in quelle serate di festa sono le migliori del mondo, ma limita la preparazione dell’insaccato per le salsicce e soppressate al semplice taglio della carne in minuscoli pezzi, omettendo la parte essenziale del loro condimento con spezie ed erbe aromatiche. Nonostante che questa operazione si giovi dell’esperienza di secoli, si effettuano prove mettendo a friggere un po’ della carne condita e aromatizzata nel sartascinidd. U sartascinidd è momento importante della festa: tutti i presenti sono chiamati ad assaggiare u sartascinidd, accompagnando l’assaggio con commenti, consigli e abbondanti libagioni. Non riesco a capire come mai Enrico Buono, invece di sartascinidd, adoperi la voce tianello,  per giunta in forma corrotta dal tentativo di “italianizzazione” della voce dialettale tianidd.
     U sartascinidd, si è visto, è uno dei momenti importanti della festa, e non c’è festa se u sartascinidd diventa tianello. Sartascinidd deriva dal latino sartago; il poeta satirico Aulo Persio Flacco, in una delle sue satire, coniò l’espressione sartago loquendi, che possiamo liberamente tradurre “frittura di parole”, per dare forza, da aderente allo stoicismo, al suo attacco alla cultura a lui contemporanea. Sartago loquendi è espressione che rimanda metaforicamente al rumore che fa l’olio che frigge o la carne che in essa è messa a friggere, e, con un salto di metafora, al parlare incomprensibile, affettato, inconcludente, criticabile. Nella polemica politica è prevalsa l’espressione «aria fritta», che udii la prima volta pronunciare dal prof. Manlio Rossi-Doria in un suo comizio.
     Tornando a bomba, come si dice, è oramai chiaro che u sartascinidd, e solo u sartascinidd fa la festa.
A casa mia non si è mai consumato il rito della macellazione del maiale. Meno male, perché a causa dell’orrore provato per i riti della macellazione domestica e della cacciagione, io non mangio carne di polli, galline, conigli, lepri, ecc; e forse non avrei mangiato neppure la carne di maiale, che preferisco e trovo che subisce una gratuita calunnia dal punto di vista salutista. Non abbiamo mai macellato il maiale in casa, perché mio padre non mangiava grassi animali, lardo e strutto, e preferiva l’olio al burro, quasi bandito dalla nostra tavola. Condividevo e condivido questa scelta dietetica, ma, non macellando il maiale, non facevamo neppure il sanguinaccio, sperando che ce lo regalassero per assaggiarlo. Mio padre comperava dal macellaio un certo quantitativo di carne per preparare insaccati e una parte del rito si celebrava quindi anche a casa mia col momento culminante du sartascinidd.
     Del maiale non si butta niente, neppure le setole, ed Enrico Buono non manca di ricordare questo estremo utilizzo delle parti del maiale, a cui mi permetto di aggiungere il mio personale ricordo di un venditore di setole di maiale a piazza Carità di Napoli. In una cassetta che portava appesa al collo esponeva una ventina di mazzetti di setole legati con filo di cotone colorato, mai bianco, e reclamava la sua merce con scettico cantellinare bisbigliato: Setole e’ puorc – Setole e’ puorc. Confesso che talvolta mi sono soffermato anche a lungo ad osservare l’andamento di quello inusuale commercio e non ho mai visto nessuno fermarsi a comperare setole. Passavano i mesi e passavano gli anni, piazza Carità era un luogo dove mi capitava di passare spesso e il venditore di setole e’ puorc era sempre al solito posto, con la sua merce esposta e con la sua stanca cantilena.
     Le setole di maiale le utilizzavano i calzolai, e le ho utilizzato anch’io al panchetto di scarparo di mastro Peppe Scerr, che aveva bottega in piazza di fronte al fontanino, in una bottega bella fresca d’estate. Nelle ore più calde, fatto più o meno il nostro dovere sui libri, ci riunivamo attorno a quel panchetto a litigare su Coppi e Bartali e ci rendevamo utili preparando lo spago impeciato per cucire tomaie e suole delle scarpe. Alle punte dello spago si innestavano due setole di porco, che fungevano da ago  per far passare lo spago impeciato nei fori delle tomaie e delle suole delle scarpe praticati con la suglia. Suglia è altra voce dialettale con nobili ascendenze latine. Ma in italiano non si dice suglia, bensì lesina, che ha anche altri significati ruotanti attorno alla taccagneria. La voce dialettale suglia deriva dal latino “subula”, contratta in “subla”, con la tipica mutazione di bl in gli (ad esempio: nebula → nebla → , neglia).
 
Ma è tempo di dare la parola a Enrico Buono.
 
Gennaio, ghiaccio, vento di tramontana; sole vivissimo talvolta, ma raro. Si ammazzano dovunque i maiali, e  le urla delle povere bestie, scannate, assordano il quartiere,  si preparano i festini ogni volta, quando si inizia la lavorazione dei salami. Si comincia di sera, nelle cucine fumose e  calde, dove grandi quadrati di legno vengono riempiti di  pezzi di carne precedentemente scelta, parenti ed amici  hanno ciascuno un compito ben definito: tu tagliuzzi la  carne in tanti pezzettini con i coltellini taglienti, tu elimini  il grasso superfluo, tu hai in mano l’intestino da riempire,  applichi al collo dell’intestino un imbutino, e col ditone della mano destra vi spingi ininterrottamente la carne già  tagliuzzata, ogni tanto, quando lo ritieni opportuno, leghi  a tratti l’intestino con uno spaghetto e vai avanti fino a  quando lo hai tutto riempito. Quindi lo tempesti a colpi di  spillo perché l’aria vi circoli ed appendi salsiccia alla verga  appesa di traverso nella cucina. Così il lavoro procede alacre e passano le ore senza che ce ne accorgiamo. La padrona di casa ci invita a friggere i pezzi di carne nel “tianello”. La carne soffritta mandava un fumo piacevole che  invadeva tutta la casa. La si mangiava di qua e di là , in un  disordine pittoresco. Il sanguinaccio era già stato fatto:  sangue, latte, polvere di cioccolato, cannella, confettini  piccolissimi sparsi a casaccio, multicolori. Domani alcuni  piatti sarebbero stati inviati in omaggio ai compari ed ai  parenti e questi avrebbero ricambiato alla prima occasione.  Le costate di maiale venivano anche regalate, il lardo, mostrato con legittima soddisfazione tanto era alto, tagliato in  pezzi rettangolari, veniva appeso alla solita verga della cucina, la sugna, lo strutto liquefatto a dovere, bisognava stare attenti, diceva chi se ne intendeva, veniva colato nelle  budelle di maiale di cui nulla si perdeva: nemmeno le setole. La casa si riempiva di tanto ben di Dio, che bastava per  tutto l’anno. I salami, straordinari per sapore, assolutamente superiori a tutti gli altri del mondo intero, sì, del  mondo intero, veniva seccato all’aria: altri, le soppressate  specialmente, venivano poste nell’olio o nello strutto, e  duravano anni, sempre morbide, rosso fuoco, saporitissime.
Il 17 gennaio arrivava carnevale. Arrivava rumorosamente. Pittorescamente. Inconfondibilmente. All’alba,  dalla tempa di Santa Maria, con qualunque tempo, nevicasse, diliuvasse, tempestasse, scendevano a valle per venire in paese, passando per il monastero di Sant’Antonio, e  giù per la fontana vecchia: fino nella Rabbata, nella Saracena, nel Calangone, alcuni uomini, giovanissimi per lo più. con un campano enorme tra le mani, che suonavano a distesa dondolandosi a destra ed a sinistra, ininterrottamente, vestiti di grosso camice bianco fermato alla vita da un  laccio colorato, il capo coperto da un sombrero vero e  proprio da cui penzolavano trine d’ogni colore, fitte fitte  tanto da rendere irriconoscibili i volti. Suonavano, senza  sosta mai, dalla mattina alla sera i loro campani, si dondolavano senza sosta dalla mattina alla sera, a tratti urlavano,  ed erano lo spavento di tutti i bambini, che correvano a  nascondersi tra le braccia della mamma. I bambini volevano vedere ma tremavano dalla paura, taluni erano assaliti  dalla febbre. Al loro passaggio molte famiglie sbarravano  le porte; ma tante altre le spalancavano per accogliere le  maschere e per offrire, com’era usanza, vino, ceci fritti,  salame, pannocchie di granturco abbrustolite. E così fino a  sera , din, don, i campani sembravano che sonassero a  morte trascinati da quei giovani che non si reggevano più  sulle gambe, abbruttiti dal vino, dalla mortale stanchezza,  dal sudore di cui grondavano. Nelle domeniche di carnevale, c’erano le maschere isolate, quasi furtive, che prendevano ardire soltanto di sera. Figli di signori, in vena di  rompere la monotonia della stagione, progettavano di fare  delle improvvisate, si preparavano a dovere, si facevano  confezionare vestiti di seta, Pierrot candidi, maschere di  pulcinella, trine di gran dama, e comparivano quando meno te lo aspettavi, nella casa del commendatore, tappa di  obbligo, frusciando nelle scale con i loro vestimenti, trattenendosi ed evitando così la sorpresa almeno per buona  parte.
Poi, all’ultimo gradino, irrompevano nella cucina  con gridi di gioia, ed accompagnati da qualche suonatore  di organetto, di fisarmonica, iniziavano tarantelle vivaci,  polche altrettanto vivaci, tra la confusione e la gioia di  tutti, svanivano tutti d’un colpo, ad un cenno: proprio  svanivano e volavano per le scale, che la via da seguire era lunga e non si potevano indugiare.
Nonna, Giuseppina, Maria, Angelina, Giovanni,  Nicola, Raffaele, Luchino, Amedeo, Ciccio, Andrea e tanti  altri, tutti giovanissimi allora nel pieno vigore della giovinezza. La guerra, quanti ne falciò! facevano comunella, si  trovavano insieme per le mascherate, per i balli familiari,  per le cene in campagna, per le gite a Fonti, al Santuario  della Madonna.
Carnevale moriva in piazza, con una cerimonia  grottesca ed esilarante, l’ultimo giorno del Carnevale. Un  lungo corteo, un carnevale di paglia, enorme, portato su di  una barella, i medici attorno vestiti con occhialini, barboni,  mostruosi bisturi e forbici; il sarto Dinice era il capo medico. Quindi cominciava l’operazione sul moribondo, con  dottorali strafalcioni, gesti ampi e misurati, tagli nella pancia con coltelli affilati. Dalle parti basse del pupazzone,  erompevano sprazzi di fumo rumoroso, che attestavano  del disfacimento del corpo di carnevale; poi si apriva il  ventre e vi si cavava le budella costituite da un ammasso di  funicelle, e così via per circa un’ora buona: fino a quando,  si dava miccia al corpo già disfatto, che scoppiava tra  l’allegra sorpresa della gran folla che faceva cerchio, e che  urlava la propria sorpresa ed il proprio gradimento con  risate sguaiatissime.
 

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