Dal Racconto Tempo d’inverno di Enrico Buono: Febbraio corto e amaro
Febbraio corto e amaro.
Nel mese di febbraio, che segna il passaggio dall’inverno alla primavera, crescevano la preoccupazione e l’ansia della stagione invernale: perché le provviste scarseggiavano e anche gli animali soffrivano privazioni a causa della carenza di erba, di fieno e di mangime, e la prospettiva futura sull’andamento della buona stagione sembrava più incerta.
Numerosi, pertanto, erano i proverbi sul mese di febbraio riguardanti questo incerto stato d’animo. Tra questi, al racconto di Enrico Buono ben si adatta anche il proverbio Febbraio corto e malandrino: un mese birichino e monello, che lancia illusori segnali di fine dell’inverno, cui fanno seguito giornate tra le più fredde dell’intera stagione invernale. Il racconto, tuttavia, è ricco di episodi.
Mi piace ricordare l’episodio del ballo della comare Antonia, domestica del commendatore, e della comare Maria, domestica dell’insegnante, ossia di don Giulio Buono, padre di Enrico. Antonia aveva cinquant’anni e Maria era molto più giovane. Me la ricordo – e per questo segnalo questo episodio –, più avanti negli anni, intenta a far la spesa al mercato delle bancarelle sotto la casa di don Giulio o per negozi.
L’accenno alla masciara Liarella (voce “italianizzata” di Liaredda – come abbiamo già visto che preferisce Enrico Buono), aprirebbe l’argomento sterminato delle masciare o dei masciari, che non è il aso di affrontare, anche perché non ne ho la capacità. Mi limito a segnalare che questa “Liarella” la troviamo come “Liaredda” anche nei Contadini del Sud di Rocco Scotellaro, nel racconto dettato a Rocco da Antonio Laurenzana, il contadino che si sposa per la terza volta. La prima moglie di Antonio, giovane e in buona salute, senza mai una febbre, muore di un male sconosciuto. Cominciò con un mal di testa, che il medico e il farmacista diagnosticavano diversamente e la gente diceva che le era stata fatta una qualche magia a causa di una litigata con una ragazza vicina.
Antonio si recò a piedi a Genzano, settanta chilometri, «dove c’era una che dicevano era adatta per queste cose». La genzanese, una indovinatrice, gli confermò che alla moglie era stata fatta una cosa e gli predisse che ne sarebbe morta. Era passata una zingara, l’hanno chiamata in casa quelli contrari alla moglie, volevano che si facesse una cosa leggera, ma la cosa sfuggì di mano, fu più grave e portò alla morte della giovane moglie. «E subito dopo – lascio raccontare ad Antonio – io partii di nuovo per Genzano, correndo per sapere l’autore della morte di mia moglie. Arrivai in cinque ore dalla indovinatrice, che aveva una casa abbastanza buona, nuova, l’entrata e i pavimenti a mattonelle. Prese di nuovo il libro e volle indovinare prima me. lo mi ero levata la camicia nera di lutto prima di arrivare nel paese per non farmi conoscere. Figlio mio – disse – tu ci hai un punto che, di 33 anni, se vai in galera non esci più. Se io ti dico qualche cosa, forse sarà proprio questo punto e, se commetti una vendetta, non esci più da galera e la legge non ammette queste cose.
Volevo pagare, ma di nuovo mi disse: – Vai a mangiare, e te ne vai in pace -. Mi fu detto da altre persone che quando la ragazza vicina di casa e la madre seppero la morte di mia moglie si misero a piangere: – Uh, madonna che abbiamo fatto.
lo non ero sicuro, sospettavo in base alla lite fatta, e non feci niente. È rimasto l’odio ancora oggi: col padre ci diciamo « dove vai» e « dove non vai » , ma con le donne non ci parliamo.
Io certe volte non credo e certe volte dico che, in base a come è morta mia moglie (non era stata mai con una febbre), effettivamente sarà stata fatta qualche cosa. Chi ne capisce niente? Qualche cosa c’è da pensare quando vengono quelli che con gli occhi chiusi indovinano chi è una persona, l’orologio che ora fa, quanti denti gli mancano in bocca, e spesso sono ragazzi che indovinano, di sei o sette anni, non uomini di età matura e competenti di esperienza.
Maghi, «masciari », ancora ci sono nel paese: il camposantiere mi ha detto che ci sono donne che vanno a prendere le ossa per fare le polveri e medicinali e le buttano o nelle bevande o sui capelli delle persone per far loro venire una malattia. Appena sposato, il figlio di Bambino dopo di tre giorni non consisteva più, non gli sembrava più che sua moglie era sua moglie; ma, quando andarono a trovare Donato di Capria, tutto passò, perché Donato lo toccò e disse: – È cosa di niente. Forse la zita vecchia lo aveva affatturato.
Conosco che sono « masciari » Donato, Giuseppe « ΄u sperdate », « ΄u seneche d’a Porta ΄u Monte » e Lacertosa Carmine e donne Carmela Circhione e Liaredda. Il medico per la malattia di mia moglie diceva sempre che era niente: – Anche se ve lo dico, che cosa capite voi? – diceva. Forse per questo motivo io penso che effettivamente poteva essere una fattura di « masciaro ».
La pagina più bella del brano di racconto relativo al mese di febbraio, che ho già riportato con un precedente post, riguarda Cartabianca. E’ la pagina più bella di questo brano e, a mio parere, dell’intero racconto e una delle pagine più belle dei racconti di Enrico Buono.
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“Febbraro, curto e amaro”. Febbraio non ha mai avuto buona stampa, presso tutti i paesi. Doveva essere quasi l’inizio di un attenuamento del rigido clima, e così tutti confidavano nella sua mitezza: quando giù una nuova e più forte nevicata, una borea più violenta delle altre facevano quasi gridare al tradimento. Il tempo impazziva, dicevano tutti, dimentichi di altre identiche annate, di tanti identici mesi freddi. Eppure, eppure, tu già avvertivi che quelli erano solo dispetti d’inverno, che non voleva ancora morire e dava la consegna malamente.
Forse non avevano sentito, un certo mattino, aprendo appena appena uno spiraglio del balcone, un uccello che cantava solo soletto? Un messaggero in anticipo, graditissimo, della primavera; e non avevi notato come, quel tale giorno, il cielo si era aperto di colpo ed una luce azzurrina più viva era piovuta dall’alto? Una luce diversa da quella dell’inverno. E’ vero, gli alberi erano spogli, nessun boccio, con quel freddo residuo, ma una promessa nascosta, avvertita più che vista, era nell’aria, il sole. Quando tornerà quel sole limpido, chiaro dell’estremo sud, quella luce che abbaglia, che stordisce, che annulla ogni pensiero, che ti svigorisce dolcissimamente. Quando tornerà! L’impazienza oramai ne allunga il tempo d’arrivo; ma Dio sa quello che fa, e manda ciò che deve quando deve: quanta legna si è consumata in tanti mesi! Una canna e mezza, è finita quasi. Bisogna raccomandarsi a qualche contadino che ci porta le frascelle, quelle più robuste, che resistono di più ed hanno più calore. Ma come si fa ad andare al bosco se ancora nevica, se ancora infierisce l’inverno? Eppure la legna arrivava, pagandola di più, anche bagnata, ma non c’era da sofisticare. I venti erano più frequenti, specie il ponente, quando cominciava, non la finiva più, e il fumo di nuovo rifluiva dal camino invadendo a folata larghe e continue la cucina che ne restava sommersa. Che pena quel fumo, che lacrime senza averne voglia, che occhi arrossati e che starnuti.
Dal commendatore si continuava ad andare ogni sera, cogli stessi cerimoniali, le stesse affettuosità, la stessa allegria. Stagnava nell’aria della sera una nebbiolina leggera che attenuava i contorni della casa.
Dai comignoli il fumo si levava senza vento nel cielo meno aspro del consueto: nelle stalle si riunivano i compari, gli amici per godere del caldo umidiccio che emanavano le bestie, i buoi e le vacche specialmente, che ruminavano stancamente senza interruzione, al lume di una lucerna, nelle cantine, attorno ad un rudimentale scanno, si beveva un vino scuro, quasi solido, pieno di tannino, che lasciava, dovunque cadeva, una macchia bluscuro. In tante cucine poverissime, dove troneggiava un letto alto che a montarci su occorreva una scala. Si lavorava a “granare” le pannocchie di granturco, sparse intorno, ammonticchiate; ed in quel mare di giallo, tra una chiacchiera, un vociare continuo, una cantilena a tratti accennata, si udiva il grattare di una pannocchia vuota contro una piena, mentre nell’aria si spandeva appena visibile un velo di nebbia, la polvere delle foglie e dell’attrito. Liarella, la piccola donna incurvata precocemente e come scavata dalla fatica e dalle privazioni, ci accoglieva nel suo antro, che si apriva sotto un’arco altissimo da cui penzolavano in permanenza tutte le poche provviste che poteva appendere: peperoni, sorbe, granturco. Liarella godeva larga fama di “masciara”. Faceva fatture contro il malocchio, sentenziava sulle malattie, che attribuiva all’invidia e alle fatture di gente malvagia, faceva il segno della croce ripetutamente sulle fronti di chi aveva il mal di capo forte, pronunciava parole incomprensibili, di grande effetto e tutto con una vocina tremula, roca , inde- finibile, che sembrava un lamento. Ci raccontava che quella notte non aveva chiuso occhio perché aveva avuto la “chiummarola” sullo stomaco, una “chiummarola” brutta assai, aggiungeva la poverina, che non voleva scappare via e l’opprimeva da farla stare male.”Vattene, vattene, chiummarola mia” le aveva detto varie volte con buona grazia, tanto per non farsela nemica. “Vattene, vattene “aveva insistito, ma quella, niente. Allora, “mi è venuta la fisicità alla capa”, aggiungeva Liarella stranita e “l’aggia afferrata con le mani, era pesante pesante e l’aggia sbattuta a terra: putupunf, che rumore”. E nel raccontare la strana cosa, si infervorava, strabuzzava gli occhi, gesticolava, recitava. Zollarella guardava fisso la “masciara”, Castagnara , con i suoi baffi alla cinese, e il mento prominente approvava col capo, serenissimo volto, Piscinella, la rausca che vendeva i fichi più buoni del paese al maggior prezzo, affermava “in vero, in vero, pure a me è capitato, pure a me”. Ed un’aura di mistero si propagava nella fumosa cucina, il brio era finito, gli occhi luccicavano, tutti volevano sentire ancora e sempre le storie di Lia. Il lavoro per quella sera, era finito. “Buonanotte a tutti” e ce ne andavamo alle nostre case, a raccontare le fantastiche storie di Lia.
Sono due ore di notte. Non so come si facesse il calcolo delle ore “di notte”. Non l’ho mai saputo. Alto il silenzio per le strade. I contadini, stanchissimi, affranti, avevano già mangiato la minestra di patate nel piatto comune e i cavatelli e le cime di rape, o i peperoni forti da far piangere. Erano tutti intorno ad un tavolo rudimentale, ma a distanza ragguardevole da esso, come sembrava buona usanza. Fumava al centro il gran piatto. A turno, senza impazienza, pur con la fame nera che urgeva da sempre, mangiavano adagio, deglutivano a fatica, si avvertiva distinto il passaggio del bolo attraverso l’esofago con rigurgito. Una patata in bocca, una subito dopo in cima alla forchetta, pronta per il prossimo boccone. E poi, a letto, nell’unico letto senza lenzuola, tre a capo, tre a piedi in un groviglio inestricabile, senza possibilità di potersi voltare, cosi come avveniva in casa di Pizzilatello, dove tutti i figli: dieci ed i genitori erano sdraiati sull’unico letto e quando qualcuno doveva voltarsi e alzarsi, bisognava che desse la voce: “voltiamoci” e tutti si voltavano dalla parte giusta.
Dormono gli animali nella stessa casa, nella stessa cucina dei contadini: dormono gli uomini, caduti quasi in letargo, pesantemente; domani alle tre di notte bisogna andare alla Matina, a Malcanale, a Fonti, non si può perdere un solo minuto. Il russare si avverte attraverso le porte mal connesse.
Chiacchieriamo dal commendatore, come sempre, allegramente, vivacemente, quand’ecco, in quella pace che pare irreale, un grappolo di note vivaci, vivacissime, sempre più vivaci, si innalza nell’aria da un organetto. E’ Cartabianca, non si può sbagliare, Cartabianca, un maestro dell’organetto che suona, che dico, che ricama una tarantella indiavolata, leggera, armoniosa, trascinante, una cascata di note argentine che risuscita i morti. La quiete è distrutta, simpaticamente distrutta, il mondo vive in quegli attimi con il cuore più allegro, il ritmo indiavolato ti contagia. Cartabianca, curvo sul suo strumento che tocca quasi con l’orecchio sinistro, non sente, non vede chi gli è d’intorno. Un artista pago della sua arte, che segue con occhi socchiusi, con viso malinconicissimo, un viso triste che hanno solo certi cani di razza, che le note, quelle dita stranamente agili, dita che maneggiano accette, ascia, pesi enormi ogni giorno. La tarantella viene da dove? Non si riesce dapprima ad individuare: forse dalla casa di Rocco, quello che ha la mano storta, si, si, da Rocco, da una lucerna, avvolti da un denso fumo che il camino non tira bene, mai. Il miracolo delle note viene da Rocco.
Comare Antonia, andiamo? Comare Maria, andiano?
Le due brave donnette, la domestica del commendatore e quella dell’insegnante, sono fulmineamente d’accordo. “Permesso, permesso”.
“Andate pure ed attente ai giovanotti”.
Scendono a precipizio le scale: Antonia ha cinquant’anni, è tutta grigia, Maria è molto più giovane, seguite dai ragazzi felicissimi di quell’insperato divertimento. Fatta la prima rampa di discesa, pochi metri, entrano nel bugigattolo, a fatica, chiedono scusa, ma decise a trovare il loro posticino tra la ressa che a stento si muoveva. Attendono impazienti il loro turno, che subito viene. Prima comare Antonia, che è stata invitata da un vicino che la rispetta. Tarantella vivace, ma Antonia pare che sia impastoiata, le manca l’abitudine alla danza, non sente il ritmo, sente solo un confuso delle note che risuscitano. Saltella , saltella, fa dei passetti che nessun manuale prevede; perde l’equilibrio e come per incanto si raddrizza, compunta, gli occhietti piccolissimi e senza ciglia, fissi sui mattoni, il naso adunco butterato dal vaiolo, le labbra strette e prominenti. A tratti solleva un pizzico del suo grembiule seguendo gesti rituali, è intontita, povera Antonia, ma felice, tanto felice, tanto felice che sorride, lei che non conosce il sorriso. Accaldata, smette il suo giro e si pone da parte, la mente annebbiata dal caldo, dall’affanno, dal piacere della danza. E’ il turno di Maria, più misurata, più ritmica, serenissima anche lei, è la regola, ben presto sudata ed arrossata. La festa è al colmo. I giovanotti, e sono tanti, vorrebbero tutti entrare, ma non possono. Devono contenersi dei turni, e fermarsi frattanto sull’uscio, a commendare, a fumare mozziconi di sigarette “popolari” che ammorbano l’aria. C’è il direttore di sala che interviene e comanda: “Menza ciarla, cavaliere, come si coglie il fiore”, “come si vaje alla messa”, “cavalieri” era il ballo figurato. Ad ogni comando urlato con veemenza, le donne seguivano ciò che era stato ordinato: “menza ciarla iliìili .. .i” una mano sui fianchi Ciarla sana, due braccia sui fianchi, come si coglie un fiore: la donna faceva l’atto delicato di cogliere una rosa, come si va a messa: la donna raccoglieva le mani sul petto, faceva la faccia contrita, mascherava di portare sul capo uno scialletto e faceva dei passetti piccoli piccoli, lo sguardo a terra, era un piacere. Una disciplina mai sperata dai nostri paesani, alquanto anarchici. La festa durava ancora poco. Antonia o Maria, allegre, tenendosi per mano, tornavano sorridenti dov’erano ancora adunati i buoni amici, e si raccontavano le loro piccole avventure, le parole sentite, le impressioni della serata. Indimenticabile serata, se oggi è ancora viva nella mente e nel cuore. Cartabianca, re delle feste, menestrello inconscio, poeta dell’organetto, non ha mai saputo quanti sogni hai risvegliato nei giovani di quei lontani tempi, quanti matrimoni, quanti dolori attenuati, quanti grigiorni annullati, in un minuto. Che tarantelle, Cartabianca. Solo per questo, un premio lo hai meritato da chi tutto può. Una vita strana la tua, ma affettuosa, malinconica, miserabile, priva di astio, fedele. Non ci sono persone fedeli ormai, credimi , Cartabianca.
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