I RACCONTI SCONOSCIUTI
FRANCAESCA ARMENTO vedova Scotellaro, nata nel 1895
Casalinga, artigiana, Tricarico, Matera

  La «Nota» di seguito pubblicata è la presentazione di Rocco Scotellaro ai lettori di « Nuovi Argomenti» del testo d’una lettera-racconto scrittagli dalla madre, ripubblicata nella prima edizione di «Contadini del Sud» come introduzione a quattro racconti sconosciuti: la suddetta lettera-racconto della madre, intitolata «Lettera al figlio» e «L’amore», «Il vicinato» e «Il giorno dei morti» (dal pag. 193 a pag. 219 del libro).

     Dopo la «Nota»  pubblicherò separatamente i quattro racconti per facilitarne la lettura e, infine, li unirò in un unico testo.  
     Il testo definitivo dato alla stampa s cura degli «amici di Rocco» rispetta quanto più si è potuto – come attesta nella Prefazione il prof. Manlio Rossi-Doria –i testi già preparati da Rocco, introducendo solo piccole correzioni e una più abbondante punteggiatura
  
NOTA DI ROCCO SCOTELLARO.
     Francesca Armento, che ha scritto questa lettera al figlio, è una casalinga lucana, ha 68 anni. Frequentò le scuole elementari che ai suoi tempi avevano un sesto corso di cultura generale e di applicazione per contabilità, corrispondenza e pratiche amministrative.
Fece la moglie e la madre e la comara come tutte le altre donne del suo paese, Tricarico, stando in casa tutto il giorno a cucire e a cucinare, uscendo le sere di estate sulla porta a chiacchierare.
Aveva le discepole, ragazze che venivano da lei a imparare a cucire a mano e a macchina i loro corredi nuziali, e aiutava il marito calzolaio a «rivettare» a macchina le tomaie delle scarpe.
Nei giorni fausti delle nozze, dei battesimi, delle compravendite e dell’arrivo della posta dai paesi d’America, come nei giorni atri delle malattie e delle morti, ella si trovò a svolgere il suo compito di «assistente sociale» per un grosso gruppo di famiglie di parenti, di compari e di vicini. Come lei, in un paese che si mantenne, con i suoi ottomila abitanti, in un certo equilibrio demografico, perché contrastò il flusso emigratorio con un maggior numero di nascite, assistenti sociali furono una diecina, comprendendovi qualche buon maestro elementare.
Il notaio, che aveva il suo palazzo vicino alla casa di Francesca, la chiamava spesso a sostituire lo scrivano e sempre a mettere la firma chiara e tonda di testimone.
Imparò presto le piccole pratiche mediche ed ebbe in volto quell’ indifferenza beata con cui si guardano i malati, ma spesso, in casa, per la malattia di vermi dei suoi figli, arrivava a strapparsi i capelli come le altre donne e, alla vista del medico, scappava a preparare il catino nuovo e l’asciugamani del corredo, e poi, con- versando col medico, si riprendeva.
Figlia di un fabbro ferraio che aveva pezzi di terra a vigna e a seminativo, andava anche in campagna.
La sartoria, la calzoleria, la scrittura di lettere, l’assistenza per medico e notaio, e il trasporto di pesi per la campagna, la vendemmia e la cura del vino nelle botti furono le sue occupazioni permanenti.
Oggi, alla vecchiaia, non vede più molto, ha comprato finora tre paia di occhiali sulle bancarelle delle fiere senza farsi mai visitare la vista, e ci vede con quelli e li tiene vecchissimi anche con un filo al posto della stanghetta di celluloide, bruciata al ferro da stiro.
Ancora scrive lettere in America e le legge e le spiega, scrive anche, ma in casi eccezionali, lettere di amore per ragazzette ai giovani soldati.
Ha un figlio che le hanno detto vuol fare lo scrittore, ma lei non lo legge mai e arriccia il naso per dire che ne sa abbastanza o piega il capo sconsolata per dire che avrebbe preferito il figlio con i soldi in tasca che aiutasse la sua misera vita e saldasse una volta per sempre il suo bilancio disastroso di debiti.
Il mestiere di raccontare Francesca Armento lo ha imparato ed esercitato scrivendo le lettere per gli altri. Fa delle vere e proprie sedute: prende dal grosso fascio di buste della comara la lettera ultima, la rilegge ad alta voce e con svelta cadenza, fissa poi con gli occhiali il foglio bianco da scrivere; allora comincia il ragionamento della comara sui fatti da mandare a dire e lei scrive seguendo le parole dell’altra con un orecchio. Capita che quando scrive, così impegnata, non vede più ciò che può succedere in casa, se viene qualcuno, se la chiamano dalla strada, se piange un nipotino, e quasi trema tanta è la corsa che fa fare al pennino da un bordo all’altro del foglio. La sua punteggiatura è scarsa perché lo scritto segue il parlato, che è precisamente il parlato eletto che si usa per fatti avvenuti, importanti e necessari, o per comunicare lontanissimo o per cercare certe spiegazioni alla vita. Raccontare, per lei, è mettere in testa a un altro ciò che si tiene in testa propria.
Questa lettera, che è appunto un racconto, si riferisce a un caso pietoso veramente capitato a Francesca per essere stata parte attiva: si è commossa parlandoci della comara Nunziata, nel cui destino di madre ha saputo toccare e vedere il suo e quello delle altre madri.
Nel presentare al lettore questo scritto c’erano problemi di punteggiatura e di ortografia da risolvere. Ci siamo limitati a mettere un certo numero di virgole e quattro o cinque punti in più senza rompere il ritmo della pagina originale. Facilmente si sarebbero apportate delle correzioni di ortografia per singole parole e verbi che risultano ora esatti ora errati nella stessa stesura originale, ma si correva il rischio dell’arbitrio là dove il suono errato ha una sua rilevanza linguistica e poetica per la stretta relazione con il linguaggio parlato che più conserva quelle desinenze arcaiche che si riscontrano in questo scritto.
E, d’altra parte, era necessario conservare, per così dire, la doppia scrittura che Francesca ha usato: non mancano infatti i richiami scolastici della lingua appresa per farei accorti dei mezzi espressivi di cui ella si è avvalsa.
Carlo Levi ha giustamente spiegato l’influenza del- l’ideofonema nell’ambito delle «altre» civiltà. La lingua lucana, allo stato in cui è, ha dato una certa cadenza anche al suo «Cristo si è fermato a Eboli », perché quella lingua è la misura di tutto il paesaggio, degli uomini e delle cose di quella regione.
Perciò non si crede che sia da farsi luogo al discorso sul realismo, leggendo questo e i mille altri racconti sconosciuti, ma solo si vuole credere all’ infinita molteplicità della parola nell’infinita varietà del mondo, come lo vedono le creature umane che sanno amarlo e cercano di capirlo
 

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