L’abito nuovo
Un racconto di Enrico Buono
L’abito nuovo
Tornavo da Grassano cavalcando un muletto garantito senza vizi e mi pareva di stare sopra una montagna, tanto era alto il docile animale. Incastrato nello scomodo basto, dondolavo con ritmo largo ad ogni passo del mulo, avendo tra le mani la cavezza ben ferma ed i piedi infilati nelle “cocchie” o staffe di corde annodate quanto bastava.
Era un giorno d’aprile fresco e luminoso con bianche nuvole vaganti nel cielo.
Un esile pesco fiorito sorrideva tra le crete del colle già riarso dalla siccità, attraverso cui passavamo seguendo la via più scomoda ma più breve per portarci al bivio ed oltre sulla strada del ritorno.
Avevo con me, ben stretto tra il basto e il ventre un fazzolettone giallo, annodato agli estremi, in cui era stato accuratamente riposto il mio nuovo abito blu alla marinara.
Mi era stato affidato come una preziosa reliquia al momento di partire con cento raccomandazioni.
“Attento figlio mio, a non perderlo. Stiamo freschi!”
A Grassano eravamo piovuti proprio tutti, l’intero parentado ed io, per assistere alle nozze di un mio caro cugino. Nessuno di noi, per tutto l’oro del mondo, avrebbe rinunziata a quella unica, fausta occasione che segnava un punto di luce nel grigiore stagnante della vita paesana. Bisogna proprio dire che quelle giornate furono davvero memorande per giocondità e spensieratezza e più ancora per le tavolate funzionanti in permanenza, durante cui veniva servito tutto con tanta larghezza di mezzi e con così pressante insistenza da destare il nostro divertito stupore. Piatti di lasagne imbottite di agnelli al forno con patate butirri, mantecbe, frutta, vini, torte con la ricotta dolce, tutto spariva per incanto nei ventri nostri che proprio non ritenevamo capaci di tanto, forse per via della spartana dieta cui ci avevano con tanta sagacia allenati in famiglia.
“Bisogna mangiare poco se vuoi stare bene” ammoniva mio padre.
“Attento che ti fa male troppa carne. Stipala per stasera” diceva di rincalzo mia madre. .
Era un richiamo continuo alle norme spartane di vita, e noi avevamo finito per credere che il santo vitto fosse quasi un nemico dei bambini. Solo un fatto mi pareva strano; perché ci veniva lasciato libertà piena di ingozzare ciò che volevamo tutte le volte che mangiavamo in casa d’altri.
Zio Gaetano, padre dello sposo, combinatore del matrimonio, era esultante. E ne aveva ben ragione il povero uomo. Quante ansie prima della conclusione!
Il figlio viveva in una grande città dell’alta Italia, si era “imbarcato” con una fraschetta da “quattro soldi” e quasi non si faceva più vivo. Bisognava correre, ed al più presto, ai ripari.
“Carissimo figlio, gli scriveva, gli anni passano, tu stai solo come un cane e devi pensare di metterti apposto. Ho travato per te una ragazza buona, faticatrice, onesta, una vera donna di casa, con una buona dote, ricordati figlio mio che moglie e buoi dei paesi tuoi, non farti abbindolare da gente che ha solo un poco di saper parlare”.
Fu un tira e molla che solo Dio lo sa.
Un giorno zio Gaetano ricevette una lettera dal figlio “Carissimo papà, poiché ci si è prossimo all’inverno ho deciso di prendere subito moglie: almeno così lesse il poveretto. Fu una tragedia!
“e che, ha preso la moglie come una focagna? Lo maledico se fa una cosa simile, lo maledico”.
Tutti di casa non sapevano cosa dire e cosa fare stupiti per la stranezza della decisione, finché fu chiarito dalla figlia Maria, che volle rileggere bene la lettera.:”qui è scritto maglia e non moglie! Non sappiamo più leggere!”.
Ma torniamo a noi?
“Avete sentito che biancherie”, ossia che latticini, andava ripetendo zio Gaetano.
“E le mozzarelle dite niente? Altro che la “chipulla”; così chiamava per gioco la cipolla nei momenti dì buon umore.
Il giorno della cerimonia indossai per la prima volta l’abito nuovo. Mi era stato confezionato da zia Concetta, nostra sarta ufficiale, che aveva le mani d’oro come dicevano tutti. La poverina aveva lavorato notte e giorno per potermelo consegnare in tempo e ci riuscì per non deludermi, non senza intima soddisfazione.
Il vestito, eccezionalmente di ottima lana era di colore blu oscuro, morbido e consistente; venne fatto alla marinara secondo la moda del tempo, con i pantaloni a sportello, ossia con d’avanti attaccati con quattro bottoni direttamente alla casacchiana; aveva un ampio colletto filettato di bianco, una pettorina e un cordone bianco, che pescava nel taschino sinistro. Finita la cerimonia, l’abito venne accuratamente messo da parte, non era cosa di tutti i giorni e quanto giunse l’ora della partenza mi venne affidato con trepidazione.
“State tranquilli lasciate fare a me” andavo ripetendo soddisfatto e sicuro. “L’abito arriverà Sano e salvo a destinazione”.
Cammina, cammina, arrivammo come Dio volle verso il tardi in paese. Annottava ed il freddo della sera l’avevamo già nelle ossa e così la stanchezza: una stanchezza greve, arrivata di colpo che ci aveva tolto finanche la parola.
Scesi dal mulo sorretto da brave persone e mossi verso casa. Ero sul punto di varcare la soglia quando mi folgorò un atroce pensiero: “il fagotto? dov’era il fagotto?”
Il grido di allarme inconsciamente lanciato impietrì tutti.
“l’hai perso, naturalmente”.
La calma studiata di mia madre aumentò la mia pena.
“Chi si corica con i bambini, che peccato! Era fatto così bene, ora che lo sa zia Concetta! Ne ha perso di tempo la poverina” .
Ero avvilito e avrei voluto sprofondare piuttosto che trovarmi in quella penosa situazione, non sapendo fare di meglio, scoppiai a piangere per trovare sollievo e difesa al tempo stesso. “Ma che volete farci ormai” ripetevano i buoni vicini. “Il povero bambino non l’ha mica fatto apposta si troverà, si troverà” dicevano così per calmare l’ira e l’amarezza dei parenti. Si troverà? E come? e dove? Ormai.
Parenti, amici, estranei mi si erano fatti frattanto intorno, tutti con visi compunti, ognuno a dire la sua, a commentare l’accaduto e scagionare la povera creatura, io, che non aveva proprio nessuna colpa.
Di certo, sostenevano, la stanchezza e la monotonia del viaggio avevano giocato il brutto tiro. Don Giulio non vi mortificate più e pensate alla salute ch’è la base principale, ormai quello che è fatto è fatto” e mi guardavano con aria di compassione e mi tenevano d’appresso quasi a proteggermi da chissà quale castigo.
“E adesso piuttosto cosa si fa!” intervenne zio Ciccio autoritario e severo come sempre. “Il bando: meniamo il bando” propose qualcuno.
“Giustissimo: il bando!” assentirono tutti.
“A Tricarico ed anche a Grassano e non basta: bisogna farlo dire anche in chiesa, durante la messa, dal pulpito; chi sa qualcuno non ci mette la mano sulla coscienza!”.
La proposta venne attuata immediatamente. Qualcuno corse alla ricerca di Totonno l’ubriacone, un rottame di uomo, distrutto dall’alcol, che pure riusciva a conservare come per miracolo una voce alquanto chiara di basso profondo.
Senti Totonno, vuoi menare un bando stasera stesso? Si? Bene. Devi fare il giro processionale tutto quanto a gridare in questo modo : “sentite il bando! Chi avesse trovato sopra la strada che porta a Grassano un fazzoletto giallo con un abito blu dentro, lo portasse a don Giulio che gli darà un bel premio”.
Totonno già fatto a vino, si avviò ondeggiante, parve che dovesse crollare da un momento all’altro, ma sempre restava miracolosamente in piedi, vicolo per vicolo menò il bando, e sfoggiò il meglio delle sue residue capacità vocali per fare buona figura. La gente sentiva e commentava.
“Gesù mio! Un abito nuovo nuovo”.
Furono avvertiti i parenti di Grassano i quali disposero anch’essi nel senso da noi desiderato, sicché nel giro di poche ore non c’era abitante dei due paesi che non fosse a conoscenza del fatto.
Dai pulpiti intanto don Pietro e don Alfonso, con parole di occasioni, spiegavano ai parrocchiani cos’era accaduto ed invitarono l’ignoto ritrovato re del fagotto a restituirlo subito, per amor di Dio, al legittimo proprietario. Don Pietro in modo particolare si distinse per amichevole zelo verso di noi. Come ci riferirono esattamente gli spontanei informatori, il buon prete pronunziò testualmente questo sermone: “fedeli! Il figlio di don Giulio ha perso l’abituccio nuovo verso la serra. Chi l’ha trovato e non lo restituisce, va all’inferno immerso al fuoco eterno. Sia lodato Gesù Cristo! sulla efficacia dello spunto oratorio pos- sono ben nutrirsi seri dubbi: ma non sulla sincerità che l’ispirarono.
Passato che fu la burrasca e con essa la iniziale amarezza mi rasserenai ben presto. Fatto anzi segno alla persistente generale attenzione, cominciai a trovare la situazione piuttosto divertente e finii per assumere inconsciamente il ruolo di piccolo eroe paesano.
Ripetevo fino alla nausea al primo arrivato lo stesso racconto con particolari sempre diversi suggeriti dalla mia fertile fantasia, il che aveva l’effetto di rendere per plessi i miei ascoltatori.
Ma la più alta messe di onori la raccoglieva sempre mio padre, cui non pareva vero di recitare anche in quel occasione la parte della vittima.
“don Giulio, beh?”
“niente, caro Rocco”
“è la mia sorte, caro Pancrazio !”
Guardate un poco dove riusciva a ficcare la sorte mio padre!
Passarono i giorni, venne la calda estate, sfiori l’autunno dolcissimo: ma l’abito non fu mai più trovato.
Possibile? ” dicevano tutti increduli. ” chi potrebbe indossarlo? Nessuno! E allora tanto varrebbe restituirlo … ”
Il fatto un po’ per giorno divenne leggenda. Nei sogni della povera gente l’abito nuovo venne trasfigurato: splendeva forse inafferrabile e lucente come la divisa di un cherubino.
Tornai ai miei poveri vestimenti senza speranza di avere altro.
La festa di San Pancrazio si avvicinava e già il comitato promotore era all’opera.
Don Rocco chiamava a raccolta tutte le persone dì buona volontà perché la festa riuscisse degna del paese e del santo. Se si raccoglievano soldi sufficienti, sarebbe venuta niente meno la banda famosa di Gioia del Colle. Si montavano frattanto gli archi nella strada principale, il palco in piazza, i pali fuori porta per i fuochi artificiali.
Cosa avrei indossato in quelle serate di festa? Non avevo nulla, nessun capo decente per ben figurare. Il meglio che avessi era una giacchetta marrone quadrettata, di foggia militaresca, ricavata da uno scampolo di vestito, sotto il cui rigido colletto si annodava una specie di cravatta di piquet bianco ben stretta fino alla gola. I pantaloni più nuovi erano di pannetto nero di Lagonegro, rigidi e lunghi, fin sotto le ginocchia, una precauzione contro il raffreddore; completavano il tutto spesse calze di filo nero lavorate a mano straordinariamente resistenti, fermate sopra il ginocchio con una fettuccia, la capisciola, che lasciava un segno rosso e profondo sopra le carni e scarponi fatti personalmente da mastro Achille, con la suola spessa costellata di centrelle disposte a raggiera, opache e dure come fossero di ferro. Tutto qui! Una pena davvero.
Se il freddo fosse stato pungente, in quella sera di festa, capitava spesso a San Pancrazio, avrei potuto indossare la mantellina, un capo a cui tenevo moltissimo, che avrebbe parzialmente coperto quei poveri panni: ma la mantellina era anch’essa una povera cosa, un ricordo della vita militare di mio padre, tinta di nero in un grosso caldaio, personalmente da mia madre con il prodotto “ideal”’ che sporca solo a guardarlo, terribilmente spiegazzato dopo il duro trattamento la mantellina era ormai ribelle ad ogni stiratura e sbiadiva sempre più ad ogni stagione e soffondeva di un velo nero il mio collo e le mie orecchie al contatto diretto del mio bavero.
Eravamo al sette di maggio. In paese già si aspettavano i pifferi di Albano che ci avrebbero dato all’alba l’annunzio ufficiale della festività padronale: pifferi, piatti, tamburo, grancassa, un caro baccano, che atterriva i porci liberamente vaganti per le strade ed attirava masse compatte ed esultanti di bambini di ogni età e condizioni.
Al mio vestito nuovo quasi non pensavo più. Ero ormai preso anch’io dall’atmosfera della festa, dolce indefinibile, gioiosa atmosfera che vari giorni non mi avrebbe abbandonato un sol minuto.
Quella sera mia madre mi chiamò da parte con aria di mistero e mi annunziò sorridendo che una bella stoffa grigia era pronta per me, per il mio abito; che non c’era da perdere un solo minuto per andare da mastro Luigi per pregarlo di confezionarmi l’abito per San Pancrazio.
C’è l’avrebbe fatta il sarto, con tanto lavoro che aveva per le mani proprio in quei giorni? Mastro Luigi compare di famiglia, compagno d’armi di mio padre durante la grande guerra, era un uomo mite, lavoratore, che alternava le fatiche dell’ago a quelle più redditizie della bottega di merce varie che gestiva.
Aveva letto i reali di Francia, Guerrino detto il meschino, la cieca di Sorrento e altri libri del genere ed aveva l’ingenua pretesa di parlare pulito, come allora si diceva, adoperando parole a sproposito disastrosamente di nuove.
Il bravo uomo non seppe dire di no alla nostra richiesta sebbene fosse oberato di lavoro e fissò per il giorno seguente l’appuntamento per la prima prova. Ci andai col pacco della stoffa sotto il braccio e per prima cosa mi toccò di ascoltare la consueta paventata raccomandazione che il genitore fece a mastro Luigi: di tenersi largo nelle misure “perché il ragazzo cresce”, in parole povere bisognava che giacca e pantalone fossero confezionate con una dimensione superiore alla mia con maniche da rimboccare, con pantalone da rimboccare e così via.
In quella occasione, tornato per le prove successive, dissi risolutamente al sarto: “mastro Luì se l’abito me lo fai più grosso, te lo metti tu!” fu una ribellione inattesa ma non sgradita per l’artigiano che a dire il vero male si adattava, non fosse altro che per l’attaccamento al suo buon nome, alle esortazioni paterne di tenersi “largo”.
E mastro Luigi mantenne la parola, si attenne cioè alle misure mie e iniziò il capolavoro, come lui stesso amava ripetere.
Fu scelto per la giacca un modello complicatissìrno, sportivo, con quattro tasche sovrapposte, una mezza martingala da cui partivano a destra e a sinistra due spacchi verticali che raggiungevano nella parte alta della spalla una cucitura orizzontale e ben marcata. Completava il tutto una imbottitura decisamente mostruosa che mi faceva le spalle di un lottatore o di un rachitico, a scelta. Il pantalone venne fatto da cristiano senza l’abituale sportello anteriore, con una piega tagliente come lama e tasche laterali a sghimbescio: insomma il capolavoro.
Attesi con impazienza il giorno della festa per cambiarmi tutto.
Sapevo bene che non avrei dovuto ne potuto giocare, ne sedermi per terra, ne muoverrni troppo per non guastare l’abito: avevo già assodato che per alzare le braccia avrei dovuto prima abbottonare la giacca per consentire che questa potesse seguire i movimenti ascensionali a scanso di distacco delle maniche; sapevo inoltre che ad ogni sforzo, gli spazi laterali si aprivano come soffietti e che il cavallo del pantalone era tanto alto che quasi mi segava la pelle: tuttavia consideravo quisquilie tutti questi difetti, e mi sarei sentito ugualmente un re tutto chiuso nel mio fiammante abituccio, c’era però nella diffusa mia sod- disfazione una nota stonata; avevo un solo berretto, ed era alla marinara, con la scritta” R. Nave Duilio”. Come conciliano con l’abito sportivo? In verità avevo inutilmente tentato dì uscire di casa con una sorta di copricapo di lana grigia, ben calcato sulla testa, di stranissima foggia, con alto bordo lungo tutta circonferenza ed un grosso bottone al culmine, acquistato per catalogo, da una ditta di Napoli
che doveva avercela a morte con la Lucania se ci forniva di quella roba, la ditta ragionava così: tanto sono cafoni.
Ad invero l’ armonia della moda: allora, sorvolavano senza afferrarla minimamente, la mia cara terra tutta chiusa in piccoli casali foggiati sul metro della miseria imperante, bastava a far colpo un solo pezzo dell’abbigliamento purché fosse nuovo: fattura, qualità, colore, contavano poco.
La vigilia di San Pancrazio feci finalmente la grande uscita; compunto, teso, attento, guardavo con occhi multipli da ogni parte per rendermi conto dell’effetto che facevo sui poveri sprovveduti miei paesani.
Girai per le case dei parenti, degli amici; percorsi chilometri di strada e mi fermai un po’ d’ovunque” che bel vestito” mi dicevano tutti” chi te la fatto donna Concetta?”.
“no, mastro Luigi”.
Tornai a casa stanco morto ma soddisfatto. Fui subito invitato a cambiarmi, raccomandazione superflua tanto ero convinto della assoluta necessità dell’operazione.
La tavola era già apparecchiata, il ragù pronto, la pasta di ziti, la mia preferita nel caldaio che bolliva sotto l’azione della fiamma viva delle frasche secche.
Saggiai un pezzo di maccheroni, scottandomi come sempre la lingua per l’acqua bollente nascosta nel cavo della pasta e detti in mio assenso con un cenno del capo: era cotta, ero l’assaggiatore ufficiale della casa.
E ci mettemmo a tavola proprio nel momento in cui il festoso scampanio della chiesa di S. Francesco annunziava l’avvicinarsi in piazza della processione.
Per ri- spetto, ci alzammo tutti un attesa che la processione avesse terminato il suo giro. Sentivamo il salmodiare delle congreghe di S. Antonio, della Madonna del Carmine, di S. Francesco. Il campanello dei chierici improvvisati, il gergo millenario dei fratelli: “appooo”, “Avè”, che significavano di volta in volta: fermiamoci, camminiamo.
Le verginelle vestite di bianco cantavano dirette da un prete; una donna con voce acutissima: Lucia sempre la stessa, intonava le laudi del santo ed il coro delle donne faceva eco in un disordine pittoresco e scontato, mentre le note della banda locale si confondeva col chiasso generale.
La processione girava lentamente per la piazza, i procuratori della festa con le guantiere in mano facevano la questua, ogni tanto la statua era fermata per consentire agli speciali incaricati di attaccare sulla stola del santo le carte da cento lire, poi veniva sparata la prima calcassa o mortaretto per avvertire che aveva inizio l’accensione dei fuochi; una sparatoria ininterrotta violenta, sostenuta che mi dava quasi malessere ed infine i colpi finali, tremendi, che facevano tremare la casa.
La processione si era frattanto allontanata e noi tornammo a sederci a tavola dove la pasta ormai fredda, ma sempre gradita e saporita, ci attendeva.
Poi venne la sera.
Una borea fredda, tagliente si era levata da un’ ora all’altra, quasi per non smentire la tradizione.
I lumi a gas degli archi fumigavano e gemevano sotto la spinta del vento; le signore vestite per l’occasione con abiti leggeri appositamente fatti tremavano dal freddo e dopo vane eroiche resistenze erano costrette a indossare sciarpe e soprabiti, mortificate di non poter ostentare le vistosissime tolette; al circolo dell’unione, i galantuomini, seduti all’aperto, rientravano uno per volta nelle sale interne borbottando e invitando i propri familiari a fare lo stesso.
La piazza era gremita, chiassosa, lucente; la banda suonava il Poliuto e i bambini si rincorrevano da un capo all’altro, urtando tutto e tutti ed infilandosi tra i pali sotterranei del palco su cui la banda suonava.
Io quella sera non potevo giocare ma partecipavo ugualmente alla festa comune, composto, con un bastoncino di ferro leggero tra le mani che facevo roteare con l’abilità di un giocoliere.
Sordo alle insistenze dei miei genitori non volli mettere la mantellina, sfidai come tutti la borea sempre più violenta ed attesi che la festa si consumasse fino all’ultimo con una segreta profonda gioia nel cuore.
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