Francesca Armento, Il Vicinato (terzo racconto sconosciuto della madre di Rocco Scotellaro, con cenni introduttivi tratti dall’opera poetica del figlio)

      Mi pare bello e significativo introdurre il bel racconto Il Vicinato della madre di Rocco con un paio di accenni almeno, in cui il tema ritorna nell’opera del figlio. L’accenno alla poesia-racconto Nel trigesimo di mio padre, secondo l’edizione Levi, dove la scena è delle famiglie del vicinato riunite.

In quei viottoli neri
una serata di queste,
sedevano le famiglie dopo cena
ai gradini delle porte,
contavano i defunti e i nati
dell’estate che correva.
E il contadino tardo che trascorse
per i monti sul mulo
con l’ultimo raccolto
passava salutando i suoi compari.
Una porta era deserta
del compare scomparso un mese fa.

 

     “Il vicinato che da ambito spaziale diventa istituto sociale con le sue norme, le sue tensioni e la sua funzione di comunicazione interna, ricorre come motivo formulare nelle serenate tradizionali lucane e con la stessa funzione ricade nel racconto de L’Uva puttanella del fidanzamento della madre:

« Andò alla finestra:

Vicini che dormite, risvegliatevi
Ho contrattato di vendere, ho già venduto
L’ultima figlia mia, risvegliatevi
Bella nottata fresca, Francesca se ne va.     
« Erano parole che uscivano tra le corde.
  « I compari del vicinato vennero e le canzoni del fabbro, fatte più  allegre e piccanti, durarono fino al mattino. »»

 Veramente bello il racconto della madre di Rocco, che descrive il vicinato con efficacia e sequela di scene divertenti, quasi esilaranti, e ce lo presenta come istituto sociale: « nei nostri paesi questi sono i divertimenti: liti, chiacchiere, sentenze, mormorazioni, e anche noi abbiamo cinema e varietà senza pagare nulla ».

 

Testo del racconto di Francesca Armento

     Ritorna la primavera del 1953. Tutti lasciano il focolare, cominciano uscire vicino alle loro porte e ognuno dice: – Finalmente possiamo vedere qualche giornata buona, quest’ inverno ci ha fatto rimanere ciechi accanto al focolare, le giornate così corte non si può arrivare a fare tante faccende; e più è che non ci possiamo vedere fra vicini e farei un discorso, una chiacchierata, una quistione fra ragazze, e cosi passano le giornate.

Nei paesi che tutti stanno fuori non è come le città, che ognuno nelle loro case escono a fare spesa e le lunghe passeggiate e divertirsi. Il divertimento del paese è questo. La primavera del 1952 ci facevamo delle belle risate, cominciando dal maggio fino a ottobre, tra primavera estate autunno, quando sono le belle giornate.
L’anno scorso tre famiglie vicine la sera dopo avere cenato si mettevano fuori le porte, gli uomini giocavano alla morra, le donne come il solito discorsi, chi di figli, chi di marito, chi dei fatti degli altri, e passavano le serate. Una sera dovevano beversi il vino; presero ognuno un po’ di pane, un po’ di cipolla, un peperone, il companatico dei contadini, e uno di questi prese il coltello per tagliarsi il pane. Questo coltello sparì, non si trovò più, nessuno lo aveva visto, nessuno lo aveva preso. La moglie del padrone del coltello, come posso spiegare che faceva? La sera, mattina presto, ogni volta che suonava la campana, gridava: – Campana santa, tu te ne devi pagare. Dov’ è il coltello di mio marito che per comperarselo è andato un giorno a zappare schiena per terra e con pane e cipolla? Chi tiene il coltello deve spezzarsi una gamba, se lo deve mettere alla gola dalla disperazione.
Questa tragedia durò più di quindici giorni, e sera e mattina faceva la risveglia al vicinato. Poi non si sentì più di parlare. Si vede che il marito aveva la tasca rotta, cioè lacerata, lo mise nella tasca e se ne uscì pel buco rotto. Ognuno le diceva: – Perché non parli più del coltello, non dici sentenze e non lo nomini più? – Rispose il marito: – Se quella invece di chiacchierare rattoppava la giacca, non ne perdevo un altro. Invece
di uno sono due.
Non passarono otto giorni, stavano al fresco, alla sera tutti andarono a dormire, essa si alzò e se ne va anche lei lasciando la sedia fuori. Una vicina, che andava alla stalla a governare l’asino, la prese e se la portò a casa sua; e questa donna se ne andò in campagna.
La donna padrona della sedia riprese a fare le stesse storie del coltello. – Chi tiene la mia sedia e non me la dà devono portarlo sulla sedia morta, deve andare all’ospedale sulla mia sedia. Campana santa, tu te ne devi pagare, campana, suonando a morto passando ed io strillando: «Chi se n’è pagato della mia sedia? s .
Quella che la teneva era in campagna. Quando ritornò la padrona della sedia e conobbe la sedia: – Mio Dio, quante offese di Dio mi hai fatto fare! – Quella rispose: – Che ne vuoi da me? Anzi, questo è il ringraziamento! Te l’ ho presa, te l’ ho conservata; le sentenze vengono sopra di te che sei sfaccendata. Prima non la sai custodire e dopo fai la cicala da mattina a sera.
Nei paesi l’estate rappresenta una rivoluzione. Chi si serra coi figli, quello mena uno, esce un altro, e, stretti, chi si mena bastonate, chi manda sentenze a destra e a sinistra, su e giù nelle vie, nelle strettuole, non si sente altro che fracasso, marito con la moglie, fratelli con le sorelle, la madre coi figli.
Ora vi racconto di una madre e un padre che hanno un solo figlio che ora fa trent’anni. Questo giovane non bello, però alto, si, ma neppure svelto, capisce tutto, lavora un pò muscio, ma però tiene il libro del rotilio che spiega quando uno nasce o femmina o maschio seconda la data della luna, e spiega che fortuna tiene; e vanno tutti a indovinarsi, e lui e anche il padre spiegano quello che il libro dice.
Lui, arrivato a venti sette anni, cominciava a trovarsi qualche fidanzata; poi andavano prima a vedere sul libro se era giornata bene o male per mandare l’ imbasciata, cioè la dichiarazione. Il padre diceva: -Adesso no, sono giornate malamente, dice il rotilio -. Poi si facevano dire che giorno era nata la ragazza, la vedono sul libro: – Ma no, diceva il padre, tiene una brutta fortuna.
Senza prolungare, ognuna che pensava di dichiararla andava a finire così. Arrivò a ventotto anni, si trovò una che dichiarò. Mentre erano decisi di sposare (questa ragazza aveva per dote una terra), questa gente, cioè del fidanzato, sempre furbi dissero: – Andiamo prima a fare l’ istrumento di questo terreno, e dopo si cominciano a cacciare le carte per sposare.
L’ istrumento non si potette fare, ché questo terreno era della madre della ragazza, gliel’avevano dato i genitori per dote e non si poteva dare agli altri. Cominciarono a fare guerra gli sposi, cioè i fidanzati (noi ancora andiamo agli anni di sessant’anni prima: dicevamo sposi i fìdanzati, dopo sposati marito e moglie). Sicché i genitori di lui dissero: – Se loro possono avere le carte che la possono dare la terra, si sposa; altrimenti ognuno resta a casa sua -. L’avvocato disse di poterle avere, ma il tempo passava, non potettero fare niente, e questo giovine per contentare i genitori non andò più dalla fidanzata. La povera ragazza aspettava se si persuadevano: macché, non c’ è stata più speranza.
Il giovane ha preso in odio il padre e la madre; non voleva più lavorare, stava sempre senza parlare, mangiava quando gli piaceva e dormiva. I genitori andavano in campagna, lui se gli piaceva andava, lavorava un po’ e si metteva a dormire; lo chiamavano: – Vieni a lavorare -, non li rispondeva.
I genitori dissero: – La fidanzata gli ha fatto la fattura -. Lo fecero vedere, i fattucchieri per fare moneta dissero: – Si, è fattura -, e spendevano moneta. Il padre andò in un altro paese e gli dissero: – Ti sei trovato fortunato a venire adesso che si può guastare la fattura -. E spendevano moneta, ma era sempre lo stesso.
La madre mandava imprecazioni tutti i giorni: – O Dio, tu te ne devi pagare! Come mi fa consumare moneta, i nostri sudori – (veramente, stanno bene, tengono la proprietà), ma il figlio era sempre così. La madre poveretta piangeva.
Un giorno le disse una commara: – Ma non andare appresso alle fatture, fallo vedere dal dottore -. Ma lui non si voleva fare vedere, si voltava con brutte parole verso i genitori. Un giorno un compare vicino, che si volevano bene, disse a questo giovine: – Domani mi devi fare un favore -. Quello poco rispondeva, ma riprese il compare: – Rispondimi, me lo devi fare, devi venire a un servizio con me -. Lui rispose: – A che ora? – Alle otto di mattina.
Cosi lo prese e lo portò all’ospedale e lo fece vedere per bene dai dottori, gli fece fare pure i raggi. Ma non aveva niente, era un dolore di testa. Gli ordinarono le iniezioni di vitamina, la madre l’andò a comperare e gli disse: – Te l’ ha mandate il compare da Napoli -. Andò una vicina, anche commara, e disse al giovine: – Ti devi fare queste iniezioni, te l’ ha mandate mio figlio -. Lui rispose di no, poi lo persuase, disse: – Si, ma devo vedere prima quando me le posso fare. – Sì, quando vuoi – disse la commara, e gli trovò un infermiere per fargliele. Dopo otto giorni la commara tornò a dornandargli: – Quando deve venire a fartele? – Lui rispose: – Adesso, ho visto al rotilio, sono giornate malamente, le farò nella settimana entrante -. Arrivammo alla settimana, tornò a domandargli, e lui rispose: – Non me ne voglio fare, non sto ammalato. Mi devo far pungere per restare zoppo? – E non se ne volle fare.
Cominciava andare in campagna, quando gli piaceva lavorava, non parlava mai. Noi, i vicini, lo chiamavamo: – Ma perché sei cosi? spiegalo a noi. Se tu non puoi vedere i tuoi che non ti hanno fatto prendere quella ragazza, noi li facciamo persuasi, i tuoi, e tu la vai a sposare; oppure ti troveremo un’altra -. Lui si faceva una risata e diceva: – Come mi devo sposare, se ora fra breve faccio trent’anni? Non tengo denari, ma se io lavoravo per conto mio mi potevo fare una casa e potevo sposare, non stavo soggetto ai genitori. Vedo se mi fanno fare il seminato a conto mio e vigne, mi faccio la moneta e mi trovo una fidanzata, e sposo.
Ma la madre gli dice: – La diamo a te e la lavori per conto tuo, ma quella non te la devi sposare, ché ti ha fatto la fattura -. Non si fa persuasa che il figlio tiene la fattura che non può vedere i genitori.
Ora si miete, pare che cominci a lavorare. Fanno tutto come dice lui, i genitori dicono: – Ci vuole un po’ di tempo, ché quello che leva la fattura ha detto che se ne va di tempo,
– Adesso lavora, dice la madre, ma noi genitori non ci rispetta -. Ma noi vicini tutti le diciamo: – Non vi può vedere perché non l’avete fatto sposare quella che aveva preso affezione.
Ora ci dice a noi vicini: – Vedrò di sposare con un’altra quando ho trentun anni, ora ne ho trenta: il rotilio dice di sposare di anni trentuno.
Mentre scrivo sento una quistione nella strada. Dio mio, è buona l’estate, ma nelle strade sempre liti! Due donne, una ha tre figli, l’altra ne ha una sola, la prima è più grande, l’altra sono due anni che è sposata, ma tutte e due si volevano bene, tanto i mariti che le mogli. Il marito della più grande era andato ad aiutare con il mulo ad arare la terra per seminare, a questo marito della più piccola e, arrivato che si mieteva, ancora non l’avevano pagato. Ha chiamato questo, ha detto: – Ora devo andare a mietere, vuoi venire ad aiutarmi che sconti quello che mi devi dare? Giacché è quasi un anno che ti ho dato l’aratro per seminare, ora fra breve devo mietere; aiuta prima me, che è arrivato· prima che è l’avena; a te è grano, ci vuole un altro po’ di tempo-. Il debitore ha detto di si: – Mi devi dare lire mille al giorno-.Ha risposto quello che doveva avere: -Vanno a settecento lire, tu vuoi mille. Quello che vuoi ti prendi -. E ha lavorato tre giorni: erano lire tremila, doveva dare di resto altre lire millecinquecento, più altre millecinquecento perché gli aveva dato un chilo d’olio.
Voleva essere di nuovo aiutato per mietere grano.
Ha risposto il debitore: – Ora non posso, devo mietere il mio che vuole essere fatto. – E va bene, non venire.
Sono passati più di dieci giorni. Questo debitore andava agli altri, aveva guadagnato. Disse quello che doveva avere, cioè la moglie: – Dammi la mia moneta, ora guadagni -. Ha detto: – Si, domani te la fai dare da mia moglie.
Il domani mandò una ragazza, cioè la figlia di cinque anni, erano vicini. Rispose la donna: – Non te la posso dare -. La madre era seduta vicino alla porta, la ragazza disse: – Mammina, ha detto non te la vuole dare -. Esce di fuori la donna che doveva pagare e dice: – Non te ne posso dare: a mio marito gli devi dare millecinquecento lire al giorno, e stiamo pace, e se parli ti dò il resto con le mani -. Esce fuori, tante parolacce che le diceva.
Ma come si volevano bene! Mangiavano insieme quando i mariti erano in campagna. Questa che doveva avere sta bene, tiene tutto. Il debitore era più povero, ma siccome, dice il proverbio, tre sono i più potenti, il Re, il Papa e chi non tiene niente, questa più povera – aveva avuto del bene – si menò addosso alla donna che doveva avere e se ne dettero bastonate fra tutte e due! Avevano tutte e due i figli in braccio, di cinque mesi; li lasciarono in braccio ai vicini, e loro si lacerarono i vestiti che indossavano e i capelli. Quella che aveva sempre da mangiare chiamava: – Schifosa, sozzosa, non sai fare niente, sono venuta a mangiare e mi hai fatto guastare lo stomaco! – Ecco come va a finire, dopo dato a mangiare e dati i muli a seminare, questo si merita!
L’inverno ci vediamo malamente col freddo, ci vogliono molte legna, ma almeno stanno tutti dentro, si sta più quieti, più calmi, ognuno ha il suo focolare, qualche giorno va qualche vicino a fare un discorso:
– Sai commara che è successo? Quella donna tiene l’ amante, quella ragazza se n’è scappata col fidanzata -. Ma la primavera, l’estate, l’autunno ci divertiamo. Nelle città vanno al mare, alle montagne, ai teatri, i cinemi, passeggiate; nei nostri paesi questi sono i divertimenti: liti, chiacchiere, sentenze, mormorazioni, e anche noi abbiamo cinema e varietà senza pagare nulla.
 

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