Cena lucana
Pane di Matera, salsiccia e butirro lucani
a a. c.
Lottai a lungo contro il sonno. Dormivo con mio fratello nel letto alto alla francese a una piazza e mezzo. Quando fui certo che tutti dormissero profondamente, mi lasciai scivolare lentamente lungo il fianco del letto col fiato sospeso e l’orecchio teso.
Il letto, molto alto, era formato di molti elementi sovrapposti: un alto fusto di ferro battuto, circondato da un giraletto di cotone bianco orlato di merletto, che occultava civettuolmente il vuoto di sotto, dove erano accatastate castagne cotte al forno e sorbe in maturazione, che emanavano un penetrante aroma. Sul fusto di ferro erano posate tavole su cui erano collocati il saccone e due materassi affiancati. Il saccone, alto circa un metro, era riempito con foglie di granoturco. Il saccone, in molte case, posato a terra, costituiva il solo giaciglio. A casa mia il saccone era invece un elemento di quel baldacchino di san pietro, che era il letto, costruito per consentire un sereno riposo su un morbido giacere, non so se in forma di supplenza delle reti metalliche o perché le reti metalliche non ancora si conoscevano. Sul saccone, infatti, erano infine collocati i due materassi di lana d’angora.
Mi venne in mente un episodio raccontato spesso da mio padre – e sorrisi. Mia madre una volta dimenticò di apparecchiare la tavola con i tovaglioli; mio padre, lasciando noi bambini a bocca aperta, nel mangiare la pasta al ragù, s’imbrattò ostentatamente il viso come una maschera rossa. Si alzò e andò a pulire il muso e dintorni al giraletto, avendo cura di lasciare tracce di sugo in tutta la sua lunghezza.
Nella stanza intercomunicante dormivano i miei genitori col fratellino appena nato. In un’altra piccola stanza dormiva la sorella oramai signorinella. Era la nuova sistemazione da quando eravamo andati a vivere in un altro paese, e il trasferimento mi aveva spezzato il cuore.
Il fratellino appena nato non piangeva. Tesi l’orecchio, si sentivano respiri pesanti. Mi lasciai scivolare lentamente lungo il materasso e il saccone; le foglie di granoturco emanavano un leggero fruscio, mi fermavo trattenendo il respiro e mi lasciavo scivolare per un altro piccolo tratto. Col sedere raggiunsi le tavole e con la punta dei piedi il pavimento. Mi staccai dal saccone e completai la discesa dal letto.
Mi vestii al buio e mi diressi a tentoni verso l’uscita. Abbassai lentamente la maniglia della porta, l’aprii e rinchiusi millimetro dopo millimetro, come il lento battito d’ali di una farfalla. Dopo un tempo infinito raggiunsi la porta d’uscita. Sudavo freddo, non capivo come avessi fatto a non inciampare e a non fare alcun rumore. Lentamente sollevai il pomello che incastra le scanalature della barra della serratura, la feci scorrere lentamente e aprii la porta. Uscito, accostai la porta. Non la chiusi, perché chiudendola avrebbe fatto rumore, non mi importava nulla che la mattina l’avrebbero trovata accostata. Mi dispiaceva che forse maggiore sarebbe stata la sorpresa e l’inquietudine per la mia assenza, ma non potevo farci niente, avevo preso la mia decisione.
Era una notte calma e serena. In un firmamento di stelle splendeva il faccione di una luna piena con Marcoffio, lunatico suo solitario abitante dal sorriso beffardo. La vallata a sinistra era illuminata dalle lucine intermittenti di milioni di lucciole. Il chiarore della luna illuminava le case sulla destra arrampicate come un presepe sul roccione.
Il dubbio mi assalì: perché fuggire da quel luogo incantato? Fu un attimo, non mi lasciai tentare e accelerai la corsa.
Percorsi tutta la strada che limita la vallata, raggiunsi il largo con la fontana. Nel nuovo paese non c’era acquedotto, l’approvvigionamento dell’acqua per i bisogni alimentari e igienici era effettuato alle fontane pubbliche, vi provvedevano le donne, che riempivano secchi e barili, e litigavano la precedenza con urla e scontri di secchi e barili. Il bucato si faceva al fiume, che scorre in fondo alla vallata, dove inizia la grande foresta. Tutto il paese dormiva, non c’era anima viva, neanche un cane, l’acqua scorreva dalla fontana con suono cristallino.
Sorpassai la villa comunale col monumento ai caduti di tutte le guerre: la lapide con l’elenco dei morti e ai piedi della lapide una vecchia madre seduta su uno sgabello, che su un quaderno annota i nomi dei morti. Svoltai la curva e finalmente giunsi all’ufficio postale. Mi fermai per riprendere fiato e calmare l’emozione, respirando lentamente e profondamente.
Mi decisi. Con i pollici mi aggrappai ai due lati della buca delle lettere, scaricai tutta la mia energia sui pollici, spiccai un salto e precipitai nella buca, risucchiato alla velocità del vento in un budello senza fondo in un volo senza fine. Lettere e pacchi mi colpivano come lame e proiettili: le lettere mi tagliavano le carni, penetrando come coltelli nel burro, i pacchi mi spezzavano le ossa, le mani, con le quali cercavo di proteggere gli occhi, erano ridotte a una poltiglia. Piangevo ed ero pentito. Sari morto senza essere tornato al mio paese, dai miei compagni.
D’improvviso la corsa si arrestò e mi trovai in una buca per le lettere di un ufficio postale. In fondo erano depositati di giornali con la fascetta col nome del destinatario, un paio di cartoline, e tre o quattro lettere.
Non avvertivo alcun dolore, mi guardai le mani, non avevano ferite, nessun graffio né segno di contusione. Mi alzai, mi aggrappai con i pollici alle estremità della buca, sporsi la testa dalla stretta fessura e detti uno sguardo intorno. Vidi il corso diritto come un rettifilo da un capo all’altro del mio paese da cui i miei genitori mi avevano portato via. In quel corso giocavo con i miei compagni alla guerra francese, e sarei tornato a giocare. Il mio paese ha un moderno asilo infantile donato da una ricca emigrata in America, un castello, che era stato residenza di caccia di un grande re, una pinacoteca privata, che chiamiamo quadreria, aperta gratuitamente al pubblico. Fui felice come mai lo era stato.
Strisciando uscii dalla cassetta delle lettere a testa in giù, quando le mani toccarono il marciapiedi mi lanciai con un balzo fuori della buca delle lettere. A sinistra c’era il cinema di Mifuffo e, oltre, la galleria degli orinatoi con le mattonelle alle pareti, che unisce il corso a una strada parallela a questo e, quindi, i campi e gli spazi dei nostri giochi felici.
Il paese si sviluppa su un basso piano lungo strade parallele con file di case a piano terra, tinteggiate di calce bianca, con due stanze, una su una strada e l’altra sulla strada parallela.
Tutti i miei compagni erano al campo sopra la stradella e la gola profonda delle grotte da dove il colonnello si era buttato. Pioveva a dirotto. « Ma proprio con questo tempo il colonnello deve andare a prendere il vino?» dicevano le donne vedendolo passare sotto un ombrello che reggeva malamente alle raffiche di vento.
Il colonnello, senza lasciare la presa dell’ombrello, si lanciò dall’alto della gola. L’ombrello, all’inizio rallentò la caduta finché fu capovolto dalla forza del vento. Il colonnello non morì sul colpo, riportò numerose fratture, molto gravi, che gli procuravano dolori atroci e morì dopo alcuni giorni d’insopportabili sofferenze.
Donato, il nostro capo, con i capelli rossicci che cadevano sulla fronte e gli occhi cilestri e la faccia piena di pidocchi (efelidi), comandava il gioco.
Il campo era grande: le galline razzolavano e i maiali grufolavano indisturbati dai nostri giochi e dalle nostre corse.
Giunto al campo vidi i miei compagni col naso all’insù che guardavano l’abbaino dove vive Pinocchio attenti a scorgerne il naso lungo e il cappello a punta. Mi accolsero come se non fossi andato via, ma arrivato un poco in ritardo.
Le rondini, in folti stormi, oscuravano il cielo e le immagini che riflettevano sui vetri della finestra dell’abbaino generavano l’illusione che Pinocchio si fosse mostrato. Si accendevano vivaci discussioni tra chi giurava d’aver visto una fugace apparizione del burattino e chi smentiva. Ma nessuno dubitava che Pinocchio vivesse in quell’abbaino, come Marcoffio abita nella luna e lo si vede nelle notti di plenilunio. Ma Marcoffio è uno scienziato serio e Pinocchio un burattino dispettoso.
Il volo delle rondini disegnava volute nell’aria: si abbassano fino a toccare quasi terra e rapidamente s’impennavano verso il cielo.
Una rondine s’impigliò nei miei capelli folti lunghi e ricci come quelli di un bambino dell’Abissinia. Io e la rondine eravamo terrorizzati. Liberarono la rondine tagliando un lungo ciuffo dei miei capelli e io esibivo il taglio dei miei capelli come prova che avevo mangiato il cuore vivo della rondine. Chi mangiava il cuore vivo di una rondine appena uccisa diventava, infatti, molto coraggioso. I miei compagni non dubitarono che io avessi mangiato il cuore vivo della rondine e il mio prestigio crebbe. Forse avrei potuto togliere il comando a Donato, ma scacciai il pensiero, Donato era il solo indiscusso nostro capo.
Il pomeriggio, quando il sole era alto nel cielo e il caldo asfissiante, il nibbio, con le ali curve, immobile, avvistata una preda, un topo un serpente, gli piombava addosso e se lo portava via tra gli artigli. Nell’ora più calda ci recammo sul campo per catturare il nibbio, prima con le buone, poi con le cattive. Cominciammo a cantare in coro una nenia «Nigghio nigghio, scinni ‘nterra che c’è tuo figghio». Il nibbio non scendeva. Allora passammo all’azione. Scavammo una buchetta, la riempimmo d’acqua, vi versammo una manciata di acetilene e infine coprimmo la buca con un barattolo vuoto, bucato al centro. Quindi ci giocammo la sorte, per designare quello di noi che, rischiando di farsi trinciare la mano, doveva tentare di abbattere il nibbio. Toccò a me. Mi sdraiai a terra e avvicinai una fiamma al buco del barattolo, che, per la reazione dell’acetilene, schizzò in aria come un proiettile. Io avevo ritirato in tempo la mano, il nibbio restò immobile, con le ali curve, nell’aria calda.
Donato ci raccontò un fatto. Così dovevamo fare noi se le nostre mogli ci avessero fatto le corna, quando saremmo diventati grandi e ci fossimo sposati.
Un giovane marito aveva il sospetto che la moglie lo tradisse. Finse di partire per affari, ma entrò a casa dall’altra porta, che immetteva nella camera da letto, dove si nascose. Vide entrare l’amante e la moglie raggiungerlo dall’altra stanza, dalla porta che metteva in comunicazione la stanza d’ingresso con la camera da letto. Lasciò che si spogliassero e, lentamente, con tutte le effusioni che si fanno in simili circostanze, che andassero a letto. Uscì dal nascondiglio e con due colpi di fucile uccise gli amanti. Raggiunse la casa dei suoceri e riferì che cosa era accaduto. Il suocero, la suocera e i cognati lo abbracciarono e baciarono, il suocero e un cognato lo accompagnarono alla caserma dei carabinieri.
Scontò la sua non lunga pena, perché ebbe riconosciuta la causa d’onore, e tornò al paese. Al castello, dov’era l’ingresso al paese dalla parte della stazione, fu eretto un arco di tronfio con fiori, rami con foglie verdi e le bandiere e lì lo attendeva tutto il paese, con la famiglia della donna uccisa e la banda in testa.
La storia veniva raccontata con orgoglio negli anni successivi e ancora negli anni successivi per lasciare testimonianza di quanto il paese ci tenesse all’onore.
Mi svegliai. Non ero nel letto a baldacchino di san pietro. Mi strofino gli occhi. Guardo l’orologio. Era passato mezzogiorno, avevo dormito più di dodici ore. Come era stata possibile una notte senza i tormenti della mia insonnia, come erano stati possibili un sonno così sereno, profondo e lungo e quel carosello di sogni?
A cena avevo mangiato una larga fetta di pane di Matera, salsiccia e butirro lucani. Mancavano i peperoni ruschi per completare una cena da re. Ma come un re avevo dormito più di dodici ore.
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