La vita e la morte di Rocco Scotellaro
RACCONTO DELLA MADRE
Il 1923 – il 19 aprile, la mattina del giovedì, ore 7 – nacque il mio caro Rocco. Appena nato era come se l’avessero ravvolto in un velo; glielo tolsero: era grande come un tovagliolo, lo misero ad asciugare, e il padre se lo mise nel portafoglio, ché dicono: chi nasce velato è fortunato.
In quel mattino che lui nacque, girava la musica nel paese: andavano al cimitero a mettere il segno della croce a tutti quelli che erano morti in guerra, e suonavano giovinezza primavera di bellezza. Io avevo al mio lato il mio angioletto Rocco: lo guardavo e dicevo: – Dio mio, che segno, questo! Proprio oggi dovevano fare questa festa … – Venne vicino al letto mio marito, e gli dissi: – Mi viene un pensiero, per questa musica che suona. Penso che quando sarà fatto grande questo figlio, si farà un’altra guerra, e andrà lui in guerra … – Rispose lui: – Ma quante cose ti metti in testa, quando ancora è appena nato. Piglierà il mondo come viene. Io pure ho fatto la guerra, quattro anni, dopo tante sofferenze mi sono ritirato in casa -. Risposi io: – Già, questo è nato velato e fortunato -. Ripetette il padre:
_ Questo sarà un grand’uomo, come Mussolini. Anzi, è segno buono questa festa. Pensa a stare tranquilla, non cominciare. Con questi benedetti figli tu perdi la testa.
Come poter descrivere com’era quieto e bello questo figlio! Era colorito, placido, non piangeva mai, dormiva sempre; chi lo prendeva, andava con tutti. Era per me e per la famiglia un tesoro. Il fratello, le sorelle, gli volevano un bene pazzo, tanto che la sorella Antonietta, la più grande, era essa come una madre: io lavoravo da sarta a rivettare scarpe e tomaie, e Antonietta guidava Rocco. Un giorno lo baciava e le fece pipì nella bocca: e quando Rocco fu grande la sorella gli raccontò tutto, e lui le fece la poesia.
Arrivato a tre anni, all’ improvviso gli venne il gruppo. Subito mando a chiamare il dottore, che mi disse che aveva la gola infiammata. Invece Rocco andava peggiorando: gli battevano i fianchi, si sentiva battere come il mantice con cui lavorano i fabbri. Subito chiamo un altro dottore che gli fece una puntura e disse: – Fra un’ora e più, o sarà salvo o morirà-. Veramente dopo più di un’ora era salvo, come se non avesse avuto niente, e noi eravamo tutti contenti in famiglia.
Giunto a quattro anni, cominciava a prendere carta e matita e scriveva segni che gli venivano in testa. lo gli insegnavo le vocali, e lui, subito, ascoltava e mi ri- spondeva. – Quante sono le vocali? – Lui, presto: – Sono 5 -, e le scriveva sulla carta: prima le scrivevo io, lui copiava e ci riusciva a scriverle. A cinque anni prendeva i giornali, se li metteva avanti, copiava lo scritto più grande, e faceva le lettere com’erano, maiuscole; lo scritto piccolo non ci riusciva. Nella gior- nata si metteva sulla mia gradinata, raccoglieva tanti ragazzi e l’insegnava: era lui il maestro di scuola. Tutte le persone che passavano lo guardavano e dicevano: – Ma ci vogliono proprio nascere … Così piccolo vuole insegnare! –
Così passava le giornate; quando doveva mangiare mi faceva spolmonare, mi rispondeva: – Aspetta, devo finire d’insegnare a queste teste d’a- sino – e con la bacchetta fra le mani gli dava le spal- mate, li mandava a casa e diceva: – Se domani non portate bene la lezione, vi mando fuori di scuola!
A sei anni non me lo vollero prendere a scuola, perché doveva compire sei anni in aprile. E lui sempre la solita vita, a fare il maestro. Andò a scuola di sette anni, ma poteva fare benissimo la seconda ché lui sapeva fare tutto: aveva imparato già a scrivere il nome suo e di tutta la famiglia. Ma in quei tempi ci tenevano che doveva fare per forza la prima.
Continuò per tutte le cinque classi elementari. Sempre il primo della scuola: era la meraviglia dei maestri, che sempre ci mandavano a chiamare per dirci di non fargli perdere gli studi a questo ragazzo, che è un valore. La sua pagella, i punti erano 9 e 10, specie alla condotta. Il padre diceva: – Come faremo per farlo studiare? Da mangiare va bene che non ci manca, ma a metterci un peso di pagare la mesata a mandarlo fuori, ché nel nostro paese non ci sono queste scuole … – Un sacerdote che aveva cresimato Rocco disse: – Scriverò io, lo manderemo nel convento dei Francescani, Lì si paga poco e studiano bene -. Si fece la domanda e subito risposero di sì. Ci mandarono la nota di quello che dovevamo fargli: tutto a quattro, cioè 4 lenzuola, 4 camicie, 4 guanciali, 4 mutande, insomma tutto il corredo che ci voleva, un materasso, coperta di lana, imbottita, coperta bianca, il vestito da frate – ché, benché se ne dovesse uscire, doveva andare vestito da frate -, i libri si pagavano, e 25 lire al mese.
Andò a Cava dei Tirreni. Partì tutto contento, e studiava con piacere. Noi mandavamo a domandare al direttore del convento, e ci rispondeva: – Beati voi, che ragazzo avete! Un figlio che Iddio vi ha donato. Studia poco, comprende troppo. Il ragazzo sta bene, scrive sempre poesie perché non si sforza a studiare, ché apprende subito e ci spiega tutto.
Scriveva sempre; i frati e il direttore gli domanda- vano: – Che cosa fai, sempre scrivi? – Lui diceva: – Che faccio? Scrivo cose che mi vengono in testa-. Andavano a vedere nel tavolino, nella cartella, e non trovavano niente; un giorno al direttore gli venne in testa di vedere sotto il materasso del letto, e là trovarono tanti racconti e poesie, che rimasero meravigliati di quello che faceva. Dicevano: – Beato lui e i genitori. Che bravo ragazzo!
Mi scriveva: «Mamma cara, ti prego mandarmi sempre libri, di quel Santo, di quell’altro », e io mandavo e gli dicevo: «Scrivimi più spesso, mi rispon- deva: «Non si può, è ordine di scrivere una volta ogni mese >.
Il padre, cioè mio marito, andava spesso a trovarlo. Avevamo un piccolo negozio di cuoiami e pellame e calzature, e lui andava a Napoli a fare spese. Passava spesso e andava a vedere Rocco, e gli domandava: – Ti trovi contento? – Sì, come studio sono contento, ma il mangiare è un pò male -. Diceva il padre: – Io ti porto tanta roba quando vengo … – Ma si, non la mangiamo noi, meglio non portare niente. Avrò pazienza almeno di fare i cinque anni del ginnasio -. Disse il padre: – Tu sai che non devi restare qui: l’abbiamo fatto per risparmiare. Quando non ne puoi più, te ne vieni -. Lui rispose: – Io vedrò di resistere. Prendo la messa, e dopo mi faranno vescovo. Oppure me ne verrò: faccio la carriera militare, divento capitano-. Il padre rideva, lui rispondeva: – Ma perché ridi? lo sai che sono certo di diventare un pezzo grosso. – Spero, figlio mio. Pensa a studiare, ché se Iddio vuole ti farò avvocato o dottore. – No, disse lui, non mi piace. Se sono avvocato e perdo una causa, mi mandano imprecazioni. Dottore neppure: se un ammalato muore, la colpa è del dottore; se guarisce, dicono che ha avuto la grazia da qualche santo -. Il padre rideva e gli diceva: – Dopo vedremo.
Il primo anno fece l’esame: fu il primo; voti, tutti 9 e 10. Ci scrisse il direttore facendogli tante lodi, che era molto bravo. E così sempre continuava.
Io madre lo volevo vedere. Sempre piangevo. Glielo scrisse il padre: – La prossima volta che verrò a Napoli porterò la mamma -. Rispose lui: – Non la portare, dille che sarà peggio per essa e per me. Ormai mi sono persuaso di stare per ora lontano. Pensasse a stare bene, ché ci vedremo più in appresso -. Ma io non mi feci persuasa, volli andare. Arrivai al convento: non trovai nessuno. Mio marito disse: – Saranno in chiesa -. Mentre si parlava, vidi un gruppo di ragazzi che venivano da passeggio. Vidi lui in prima fila: sembrava un santo. lo guardavo e piangevo. Mi vide: voleva slanciarsi da me, ma doveva avere prima il permesso dal direttore. E così, dopo che ebbe il permesso, venne a baciarmi e disse: – Perché piangi? Ma io non volevo che tu fossi venuta -. lo dicevo: – Figlio mio, te ne vuoi venire?- Lui timido rispondeva: – Per ora mi farò un altro anno, almeno fino al terzo -. E mi disse: – Non era tanto necessario di fare questo viaggio, tu e papà, a spendere moneta. Va bene, hai ragione che avevi desiderio di vedermi -. Io dissi: – Tanto, tuo padre doveva venire a fare la spesa. Stasera partiremo per Napoli, vado pure io; oggi staremo per te.
Cercammo permesso al direttore di farlo uscire con noi, e disse di sì. Camminando, gli volevo comperare roba, ma lui: -Che ne faccio? La devo portare al convento, e a noi non ce la fanno vedere. – E cosa vuoi? – Che andiamo a un albergo, a mangiare. Tengo un desiderio di pasta asciutta, che mai la mangiamo -. lo dissi: – Come? Ti mando il formaggio tutto grattugiato, non te lo puoi mettere nel tuo piatto? – Ma zitta, che a noi non ci fanno vedere niente. – Perché non mi scrivi più spesso? lo ti metto i francobolli dentro per rispondere. – Ma le lettere le aprono prima loro, e poi le danno a noi; e quando ci spetta dobbiamo rispondere. – E tu non puoi trovare un compagno segreto che esce fuori e te la fai imbucare? – Sì l’ ho pensato pure io fare così.
Andammo, ripeto, all’albergo, comandammo pasta asciutta e carne. Ma quella donna senza cuore non mise formaggio: la sola salsa! lo dissi: – Sei stata gentile a fare come ti abbiamo comandato, ché questo povero figlio da tanto tempo che non la mangia. Volevamo pagare il di più, ma volevamo quello che abbiamo comandato -. Il povero figlio si mise a ridere. La lasciò nel piatto, e disse: – Dovevo venire a spendere moneta per mangiare la stessa qualità che mangio tutti i giorni.
Gli volevo dare la moneta. – Ma cosa ne faccio? Che mi compro, se denari non te li fanno tenere? Li devo prendere per darli ai frati?
La sera dovemmo partire per Napoli. Ci salutammo, col mio caro figlio. Dal pianto non ne potevo più; e lui sempre: – Te l’avevo detto! – diceva al padre: — Non portarla più -. Così ci allontanammo. La stazione era sotto il convento, dirimpetto. lo guardavo la luce del convento e dicevo: – Povero figlio, come si vede solo senza nessuno della sua famiglia.
Al terzo ginnasio cominciò a scrivermi segretamente qualche lettera di scon f’orto che voleva venirsene. Andò il padre, lo trovò un pò sciupalo. II padre gli domandò: – Che ti senti? – Lui rispose: – Pare che non ci vedo quando leggo -. Il direttore gli diceva: – Ma tu devi leggere quelIo che è necessario, non leggere tanti libri _. Il padre lo fece visitare da un dottore, e gli fece comperare gli occhiali. Ma inutile, non poteva più stare.
Venne la settimana di Pasqua. Scrisse: – Venitemi a prendere, altrimenti me ne esco e mi vado a buttare sotto un treno -. Figuratevi sentire quelle parole! Il venerdì santo partì mio figlio Nicola. Appena giunto non lo trovò; domandò e dissero: – È in chiesa -. Lui cantava la lezione che dicono in quella settimana. Il direttore disse a Nicola: – Che cosa sei venuto a fare? – A prendere mio fratelIo Rocco Scotellaro. – Che dici?, disse il direttore, sei matto? Qual’ è il perché?-. Disse Nicola: – Siccome io devo partire soldato, mia madre ammalata vuole che il figlio lasci per lei. Come voi sapete, mio fratello non è venuto nel convento per restare, ma per studiare fino a quando poteva resistere. Ora si è sciupato tanto, la mamma non prende pace-. Preso Rocco, uscirono fuori, e lasciò quello che aveva tutto nel convento. Lo portò in un negozio, lo vestì. e partirono.
Arrivarono a casa sabato mattina. Come arrivò, cominciò a guardare. Io gli dicevo: – Perché guardi? Non li ricordi più oppure non ci vedi con gli occhi? – Disse: – Non vedo tanto bene, sono un pò debole. Quando sono stato otto giorni a casa mia, passa tutto -. Io gli domandavo: – Perché non ti sei mangiato tanti pacchi che ti ho fatto, paste biscotti sfogliatelle formaggio salame? Ho mandato denaro, senza dire niente a tuo padre, al direttore che ti doveva comperare l’olio di fegato di merluzzo per rinforzarti: te l’ hanno dato? – Ma non mi dire più niente, per ora non voglio sen- tire né preti né frati. Sono tanto tanto malvagi, più peccatori di tutti. Predicano che bisogna fare l’elemosina, ma non pensano ai poveri, sfruttano il popolo per conto loro.
Tutta la roba di mio figlio era ancora al convento, e mio marito andò a prenderla. Non trovò niente; disse: – Non voglio altro che il materasso e le coperte -. Dissero: – Si trovano a Sicignano -; credevano, loro, che mio marito non sarebbe andato a prenderli. Andò là e se li prese: se l’era portati un frate che doveva stare lì e voleva goderseli lui.
Ora si lascia il fatto dei frati; prendiamo di nuovo quello di Rocco. Doveva dare l’esame di terzo ginnasio a giugno, ma quei due anni del convento non valevano, doveva fare l’esame per tutti i tre anni. Gli trovai un professore per prepararlo; andò otto giorni, e il professore gli disse: – Tu non hai bisogno d’insegnamento, sei a posto -. Dette gli esami a Matera del primo, secondo e terzo, e li superò tutti. La quarta classe l’andò a fare a Matera, abitando presso una famiglia che gli voleva un bene pazzo. Noi scrivevamo sempre di volergli bene e di sorvegliarlo per farlo studiare; ci rispondevano: – Non abbiate pensiero, che è un ragazzo molto bravo. È proprio dono di natura che appena prende il libro gli basta leggere una volta che spiega tutto-. Fece l’esame e fu promosso in quinta. Quell’anno misero il ginnasio al nostro paese, e la quinta stette a casa. Tutti gli studenti lo venivano a trovare, e lui gli insegnava. Povero figlio, quanto era bravo! Tutti i professori gli volevano bene.
Dopo l’esame di quinta andò a fare il primo liceo a Potenza. Erano le stesse storie, del padre che lo raccomandava a quelli che lo tenevano in casa, ma sempre le stesse parole rispondevano: – È bravo di tutte le qualità, di studio e di educazione -. Il secondo anno di liceo andò a Trento dalla sorella, che aveva sposato un maresciallo dell’esercito; e là stava bene, aveva anche giovani cui insegnava. Dove andava si faceva volere bene. Nel mese di maggio scrisse mio genero dicendo : – Rocco vuole fare il salto, seconda e terza, ma è troppo tardi, doveva pensarlo prima. Non mandate a dire niente a lui, ché vuole fare una improvvisata -. Infatti ci riuscì, e ci fece il telegramma che era stato promosso con bei punti.
Arrivò il tempo di segnarsi all’università. A tenerlo fuori di casa ci voleva molto denaro; il padre, che ci sapeva riuscire con la sua bontà, andò a parlare con un signore e raccontò il fatto dicendo: – Mio figlio vuole continuare a studiare, ma non posso mantenerlo fuori di casa -. Disse quel signore: – Lascia continuare. Scriverò io a Roma che è un ragazzo studioso, se può avere un posto nell’ istituto a fare l’istitutore. Gli venne accettato, lo mandarono a chiamare e partì a Tivoli. Gli davano 350 lire al mese, mangiare, dormire, pulizia e studiava anche per conto suo.
Stava bene, ma cosa avvenne? Il 14 maggio 1942 il padre fu colpito di 57 anni da una paralisi, per un dispiacere. Era andato a Napoli in aprile a comperare la merce. A quei tempi c’era la guerra, fu bloccata la merce, per L. 60.000 che allora erano soldi, e non la ricevemmo più. Stette quindici giorni che non si sentiva bene, fu colpito a morte, ma non morì all’ istante, stette dodici ore. E il povero Rocco dovette venire a casa. Stette otto giorni, e ritornò a Tivoli. Ma c’erano tanti bombardamenti; a stento potette resistere a fare gli esami, dove prese 30. Come i professori lo interroga- vano rispondeva il colmo; gli dissero: – Quante volte l’ hai studiato? – Rocco rispose: – Interrogatemi dove volete -. E così fecero; e poi gli dissero: – Beata la tua famiglia, che tiene un valore di figlio e dono di Dio.
Il secondo anno non potette andare più a Roma, per i bombardamenti. Si segnò a Napoli; stava a casa, studiava, e andava a dare gli esami. Ma nel paese non lo facevano stare un pò in pace. I socialisti avevano visto che lui era bravo, e cominciarono ad andargli appresso e lo fecero mettere nella politica. Cominciò ad andar facendo discorsi; l’onorevole Milillo di Matera l’aveva preso tanto a ben volere che lo mandava sempre in giro per i paesi. Dove andava, rimanevano incantati. Nel nostro paese quando sentivano che doveva parlare Scotellaro, si rivoltava il paese. Non aveva un grande personale, ma la voce si sentiva; sapeva esprimere bene le parole, che incantava il popolo. Ogni parola che usciva dalla sua bocca, battevano le mani e lodavano il suo nome. Facevano il corteo e l’accompagna- vano a casa. E per questa politica e per la guerra abbandonò un pò lo studio, mentre a ventidue anni già poteva essere laureato.
Il terzo e quarto università si segnò a Bari, ché a Napoli c’era fuoco di bombardamenti tutti i giorni. Stava a casa a studiare, andava solo a fare gli esami. Erano rimasti solo sei esami: il popolo lo fece sindaco, a ventitré anni era sindaco.
Povero lui, in quei tempi di crisi, povertà, miseria, disoccupazione, che non gli facevano prendere pace. Lui era così affliggevole : voleva aiutare e dare soccorso a tutti, tanto che se avesse avuto proprietà per suo conto l’avrebbe consumata per i poveri. Allora non era come adesso, che il sindaco prende la paga: lui niente. Ma quel poco che io gli davo in tasca, lo dava ai poveri. lo dicevo: – Ma figlio mio, chi ce la deve dare la moneta? Pensa che anche da noi non c’ è chi guadagna -. Ma era nato così. I poveri, non solo lo seccavano al municipio, ma lo venivano a trovare a casa. Come si metteva a tavola – sempre la porta aperta! – salivano sopra. Gli faceva mangiare anche la nostra porzione, e noi per tenerlo contento – ché gli volevamo bene – facevamo quello che lui diceva. Se aveva una camicia, calzoni, scarpe, giacca, a chi una cosa a chi un’altra li dava.
Venivano le donne a trovarlo, gli dicevano: – La guardia mi ha fatto la contravvenzione per il maiale. Come devo fare? Se per carità me la fai togliere, non ho dove prendere cinquanta lire -. Lui diceva: – Ma cosa mi devono dire, che vado contro la pulizia? Per- ché non li tenete chiusi? – e prendeva le cinquanta lire e le dava: – Vai a pagare -. Venivano vecchi poveri a dire: – Come devo mangiare? – Rispondeva lui: – Ma hai l’assistenza. – Sì l’ ho finita – e quello che aveva in tasca, duecento trecento lire, lo dava. Io madre dicevo: – Ma vedi che anche noi non ne abbiamo. – Facciamo debiti, li pagherò io -. E così era: prendeva i premi e pagava a tutti.
Venivano a trovarlo gli americani. Lo volevano conoscere, ché era il più piccolo poeta d’Italia. E lui mi diceva: – Prepara qualche cosa -. Io, sempre pronta: preparavo quello che c’era, o uscivo a comprare da mangiare o cenare. E lui diceva: – Mandate pacchi di roba vecchia che non vi mettete più: scarpe, vestiti -. E gli americani mandarono quasi dieci pacchi, e lui mi faceva venire contadini, poveri artigiani… come posso descrivere quanta gente vestì! I pacchi non vennero tutti in una volta: arrivavano uno, due per volta, li andavo a prendere io, pagavo il trasporto; e come arrivavano, venivano donne e uomini e gli dava quello che c’era.
In quell’anno davano la merce per conto del muni- cipio, cioè l’ UNRRA, per dare ai poveri tela, merce per farsi calzoni e lui che era sindaco dava a ognuno i biglietti per andarsi a prendere quello che gli spettava. Ma i signori che stavano all’ UNRRA facevano il loro comodo: davano poco a chi gli spettava, e si approfittavano tanto sul mangiare tanto sulla roba di vestiario. La gente che non capiva niente si prendeva quel poco, ma quelli che capivano cominciarono a fare ricorso. E mio figlio era sindaco, doveva dare conto. Ma diceva: – Io gli faccio i biglietti: posso stare vicino a loro a controllare che fanno? – Intanto per la rabbia e per la gelosia che sempre hanno tenuto per mio figlio, andò carcerato, sempre per la gelosia di partito. Fu nel mese di febbraio, e stette quaranta giorni; usci fuori il 24 marzo.
Come posso descrivere che cosa fu per me e per la famiglia e il popolo? Ma specialmente per me, una madre che tanto lo amava. Quella sera io non sapevo niente, ma veniva tanta gente; io dicevo: – Cosa vogliono? – non sospettavo niente. Venne una guardia e mi disse: – Stasera il sindaco parte per servizio. Non l’aspettare -. lo sapevo che il sindaco ogni tanto partiva; non pensai a male. Ad un tratto venne mio figlio Nicola, si mise a piangere disperato. Io gli dicevo: – Che ti è successo? – Lui voleva dirlo ma non aveva coraggio; e così singhiozzando disse: – Rocco l’ hanno preso carcerato!
Povera me, una mamma, in questo momento. Sbattevo la testa contro il muro, non mi potevano tenere, i capelli non mi rimasero in testa. La casa piena di gente a piangere, e mi confortavano.
Tutto il paese corse a Matera a fare da testimone: – Il sindaco ce l’ ha dato giusto il biglietto di quello che ci dovevano dare. Sono stati quelli che distribuivano, che hanno portato a casa loro tanta roba – (che dopo andarono a trovare nelle loro case quello che avevano preso, e anche loro andarono carcerati). Da tutti i paesi corsero per Rocco. Come passarono per una madre quaranta giorni, mio figlio carcerato innocente! Rocco mi scriveva e mi diceva: – Non piangere, devi solo pensare che io a casa non ti ho portato niente, e questo mi basta. Io qui sono allegro, e così devi essere pure tu -. Ogni giorno andavano persone a trovarlo: il custode del carcere di Matera diceva che non poteva prendere pace. Tutti gli avvocati di Tricarico, Matera, Potenza volevano vendetta che gli altri si erano fatti i soldi e il povero Rocco carcerato. Come posso descrivere quello che fece il dott. Carlo Levi? Fece fare la causa presto a Potenza, non ricordo chi fece venire da Roma, mandava denari a Rocco, a me. Da tutti i paesi Rocco aveva moneta, nel carcere mandava a prendere roba ai carcerati e, quando se ne venne, il denaro lo lasciò a loro. Il maresciallo del carcere, dopo, gli voleva tanto bene che lo teneva sempre in casa sua, e lui, Rocco, gli insegnava a un figlio che studiava. Da allora ogni qual volta veniva a Tricarico, mandava a vedere, quante persone erano carcerate tanti pacchetti di sigarette portava. Diceva alla madre: – Manda il vino ai carcerati.
Quando fecero la causa, mi arrivò un telegramma da Pignataro dove diceva: «Rocco in libertà»). E De Ruggiero andò al carcere con la macchina; entra nel carcere e dice – Andiamo a casa -, Rocco non sapeva niente che si era fatta la causa; e me lo portarono a casa con tanta grandezza. Il bravo e buono De Ruggiero mi baciava le mani; Rocco così coraggioso mi diceva: _ Ancora piangi? lo non mi sono scoraggiato, ché sapevo di non avere commesso niente.
Non posso descrivere che festa fece la popolazione. Fecero un corteo, come lui Rocco scese dalla macchina l’abbracciavano, lo baciavano, buché di fiori, le mie stanze erano tutte piene come se era sceso Cristo dal cielo, i miei figli non facevano altro che andare a met- tere vino tutta la nottata, si consumarono cinque barili di vino, ogni barile era di quaranta litri, e più dieci litri di liquore e da mangiare quanto ne volevano. E alla fine che avrò finito questo racconto, saprete dove sono andati a finire tanti sacrifizi della povera madre.
Andiamo di nuovo a Rocco. Lo fecero di nuovo sindaco, e lui accettò, per fare vedere come la popolazione lo ricercava. I signori l’avevano fatto mettere carcerato per questo motivo: che dovevano fare di nuovo il sindaco. Pensarono di chiudere mio figlio in carcere fino a quando facevano le elezioni dell’altro sindaco; ma quello che loro avevano pensato non gli riuscì: fu peggio per loro.
Si mise in testa che doveva mettere l’ospedale civile in Tricarico, e ci riuscì. Quanti viaggi faceva per fare sottoscrizioni, per fare versare denaro; quante lettere faceva per l’America del Nord, del Sud! E mandavano denaro, ferri per operazioni, medicine; a Roma ebbe letti, materassi; andò dal Vescovo per farsi dare le stanze provvisorie, fino a quando avrebbero fabbricato l’ospedale: e gliele dette in affitto pagando, lo fece accomodare e subito si mise a posto tutto. Insomma, dove si metteva ci riusciva. Quanta povera gente che stava male e moriva perché non c’era aiuto d’ospedale per fare l’operazione … mentre adesso quanta gente si salva! Tanti poveri che non potevano cacciare moneta per operarsi, e lui faceva ricoverare tutti. l dottori dell’ospedale gli volevano tutti bene. Lui sempre accorto a visitare gli ammalati, ché lui era presidente. Quante cose ha fatto fare, strade, case costruite; insomma quello che lui cercava, di fare bene al paese, tutto gli era concesso. Era amato e voluto bene da tutti.
Smesso di fare il sindaco se ne andò a Roma; e fino a quando doveva finirsi il tempo di fare il sindaco lasciò il vice sindaco, e lui veniva ogni volta che dovevano fare consiglio. Quando lo vedevano nel paese facevano festa.
Carlo Levi lo fece conoscere al dott. Rossi Doria, il quale lo prese così a ben volere che gli voleva bene. E tutti e due lo amavano come un figlio e Rossi Doria se lo. portò con lui, a Portici, all’ Università Agraria. Lì stava con piacere, e mi scrisse che aveva trovato un padre, e lavorava per l’osservatorio di agraria, e quando aveva finito di lavorare a quello che doveva fare, la notte faceva racconti e poesie. Scriveva sulle riviste, e guadagnava a tutt’ e due le parti. Io gli dicevo: – Ma tanta moneta cosa te ne fai? – Quello mi rispondeva: – Ai poveri. – E non pensi per te? – lo voglio essere povero come gli altri, purché né a te né a me manchi da mangiare -. E mi diceva: – Mettiti a scrivere anche tu; tanto, che devi fare? Tanto, ti divaghi -. Io rispondevo: – Spìegami che devo fare e io faccio quello che tu vuoi -. Quando gli facevo qualche racconto, come era contento! Faceva leggere ai suoi compagni: – Vedete mia madre, quasi di settant’anni, come mi sa fare questi racconti! – E io, per ubbidirlo, ché gli volevo bene, avevo tutta la pazienza a scrivere, e gli dicevo: – Hai visto? Io alla vecchiaia perdo la testa per ubbidirti. Così tu devi fare contenta me, che ti devi laureare. Abbiamo fatto tanti sacrifici, e ora non mi dai questo piacere -. Lui mi rispondeva: – Te lo darò, ma l’avvocato io non lo posso fare, perché mi dispiace chiedere moneta; e se una causa non si può vincere io gli dico la verità. Perché chi deve fare l’avvocato deve essere imbroglione: io non lo sono. La prenderò per farti contenta -. Io dicevo: – La terrò per ricordo -. Lui rideva; e mi disse: – A cent’anni che muori te la metteremo al capezzale sotto il guanciale, e la porti al- l’altro mondo -. E mi diceva: – Quello che faccio adesso sarà sempre meglio. Ti farò fare una bella vecchiaia, stai contenta.
Venne da Portici il mese di settembre del 1953, e mi disse: – Ora verrò a lavorare un pò qua; devo andare un pò un giro, perché devo fare un lavoro -. E io ero contenta, però dissi: – Che dirà il dott. Rossi Doria? – Lui mi disse: – Pure lui è contento di quello che devo fare.
L’ 11 novembre ebbi un telegramma da Palermo, era indirizzato a lui. Io lo lessi e diceva che aveva preso un premio Borgese e doveva partire presto perché il giorno seguente si doveva fare la cerimonia. Il fratello gli telefonò a Portici, e rispose dicendo: – Ch’ è successo? – Niente, disse il fratello, è arrivato un telegramma -. Se lo fece spiegare, e disse: – Partirò domani, mi trovo a tempo -. Disse: – Salutami la mam ma, e stia calma.
Giunto a Palermo, scrisse una cartolina illustrata coi saluti. Giunto di nuovo a Portici, mi scrisse la lettera scusandosi che non aveva scritto presto, perché era stato a Roma. Nella lettera mi diceva che il premio era poco perché c’erano altri tre professori d’università. – Ed io disse, non ho pensato a niente, solo sono contento di avere visto la Sicilia; e ho avuto molta accoglienza: non ti posso spiegare che albergo di lusso. Mi hanno fatto parlare per radio. Tutto a spese loro. Mi hanno conosciuto tanti professori, e questo mi basta. E mi manderanno cinquantamila lire: appena le ricevo te le mando a te -. E diceva: – Verrò fra breve.
Il 29 novembre venne. Stette pochi giorni, ma sempre a scrivere. Allora me lo disse: – Debbo fare un libro per l’editore Laterza. Spero poterti fare contenta, ché tengo la moneta e andrò a prendere la laurea. Perché ci vuole la moneta: devo stare un pò senza far niente, devo lavorare per conto mio per finire gli esami e fare la tesi. E dopo me ne vado di nuovo a Portici, dove resterò sempre col dott. Rossi Doria, lavorerò per lui e per me a fare libri, e troverò una casa perché tu devi venire con me -. E partì di nuovo.
Stette una settimana. Ritornò presto a casa. Il 5 dicembre partì per Irsina, un paese vicino. Io dissi: – Quando ritorni? – Mi rispose: – Domani sera. Però, non mi sento tanto bene -. Io risposi: – Non andare, figlio mio, non ti curi per niente la tua salute -. E mi disse: – Ma che ne sai! Devo consegnare il libro nel mese di febbraio. Io lo so quando lo dovrò finire-. E partì.
Portò con lui un compagno che doveva aiutarlo a scrivere. Io gli domandai: – Quando vieni? – Mi rispose: – Domani sera -. Invece di venire la sera, venne che era l’una e mezza dopo pranzo; e mi disse: – Che hai preparato? – Io risposi: -Io ho mangiato. Tu mi dicesti che venivi stasera. Ma faccio presto a cucinare -. Il compagno che aveva portato con lui, Antonio Albanese, disse: – Vieni a pranzare con me. Siamo digiuni da ieri a mezzogiorno. Dopo mangiato ci mettemmo a scrivere, tutta la notte, fino alle dodici di mezzogiorno, ché abbiamo trovato una casa con un braciere, con la carbonella. Mi fa male la testa.
Se ne salì sopra, alla sua stanza. Lo vide il fratello, disse: – Entra qua -. (Era a fianco la sua stanza.) – Ecco, gli disse, ora stiamo facendo i piatti, c’ è la tua porzione, ti sei trovato al punto -. Mentre entrava si sentì male; disse: -Io vado a letto -. Dopo un poco lo sentirono di rovesciare. Entra il fratello, la cognata, e io che salivo le scale: – Ch’ è successo? – Mi viene da rimettere, ma non ho niente da rovesciare, ché non ho mangiato e non ho preso neppure un caffè. Mi sento stringere la gola.
Nicola corse a chiamare il dottore. Lui aveva le smanie: dal suo letto venne giù sul mio letto; si sforzava ché gli veniva il vomito, e lo straziava. Io vidi il suo strazio, mi misi a strillare: – Figlio mio, che ti è successo? – Non sapevo che fare; caffè, camomilla, non voleva niente. Se ne scappa di nuovo al suo letto. Arrivarono due dottori, Mazzarone e Barbieri, il direttore dell’ospedale. Gli domandarono: – Cosa hai mangiato? – Nulla, sono digiuno da ieri. Ho lavorato tutta la notte. Tengo il pensiero che in quella casa c’era accesa la carbonella, e ho fumato sempre durante il viaggio -. I dottori gli domandavano: – Ti avessero fatto qualche scherzo nel vino … – Ma se dico che non ho mangiato, e ieri neppure vino abbiamo bevuto. Io mi sento sempre svenire, mi manca l’aria, mi stringe la gola -. Lo visitarono; dissero: – Non c’ è niente, un pò infiammato. Per un paio di giorni mangerai in bianco -. Disse lui: – È stata una fortuna che non mi sono trovato ancora a Irsina: siamo venuti adesso per- ché abbiamo trovato Mario Gaetano con la sua macchina e ci ha detto ‘ve ne volete venire’, e ci siamo messi in macchina senza mangiare.
Cominciarono a fare punture ogni due ore. I dottori stavano sempre vicini, e vennero anche gli altri: gli volevano tutti bene. La sera disse Mazzarone: – Dobbiamo vedere la pressione del sangue -. Vennero di nuovo Barbieri e Bruno, e acconsentirono con Mazzarone. Tutti e tre i dottori lo visitarono e gli trovarono la pressione a 60. Stavano un pò in pensiero, stettero fino a mezzanotte e gli facevano punture. Lui riposò un poco, e la mattina, lunedì, stava meglio: cominciò a prendere qualche cosa. II giorno seguente mangiò di più, i colombini arrostiti, e si alzò un pò, perché non era buono di stare a riposo, pensava sempre al lavoro. La gente a fargli visita non lo lasciava in pace. I dottori dicevano di non alzarsi e di non fare entrare nessuno: – Ci vuole il riposo, e stare calmo -. Ma c’era gente che per forza voleva vederlo.
La notte del mercoledì si sentì un po’ male: volle la borsa dell’acqua calda e stette meglio. Il giovedì alzò, andò a sedersi alla scrivania, voleva scrivere. Venne il dottore: – Ma tu non vuoi sentire, tu devi stare a riposo| – lui diceva: – Ma come faccio, tengo tanto da fare col pensiero del libro. – Ma non ti scoraggiare, pensa a rimetterti, chè quel signore, se tardi a consegnarlo, non ti dirà niente: è tanto buono, capirà la causa della tua malattia.
La pressione del sangue cominciò a mettersi a posto: era arrivata a 110. La sera dell11 dicembre, venerdì, venne da Portici il dott. Rossi Doria, con altri tre dottori in agraria amici e compagni di Rocco. Io quando li vidi corsi a chiamare Rocco. Lui era alzato; appena li vide, tutto contento e felice. – Io, disse il dott. Rossi Doria, sono venuto insieme agli amici perché tu domani devi venire con noi a Napoli a farti passare una visita. Starai a casa mia a Villa Giulia, ho preparato la tua stanza apposta per te, col lettino, dove nessuno ti darà molestia. Starai quieto, avrai tutto l’occorrente, mia moglie ti curerà -. Rispose Rocco: – Ma devo sentire che dicono i dottori, se mi posso muovere-. Venne il dott. Barbieri, gli vide la pressione – era a 120 – e disse: – Fà a tuo piacere. La pressione è quasi normale. Tanto, ti farai visitare a Napoli. Chissà, potrai stare meglio, che non ti verrà a seccare tanta gente che viene qui a farti visita -. Rocco non voleva rifiutare; diceva: – Sono venuti a fare questo viaggio perché mi vogliono bene, non ho coraggio di non andare. Sono persone per bene che mi danno tanto onore … E disse: – Domani vedremo -. Ma pensò al suo lavoro e disse: – E per questo libro come faccio? – Risposero tutti: – Ti aiuteremo noi: tu ci spieghi tutto e noi scriveremo.
La mattina del 12, sabato – che mai lo dimenticherò – partirono. Io stavo un pò timida; dissi ai compagni: – Prego tutti di non farmi stare in pensiero, datemi presto sue notizie, altrimenti io verrò a fare questo viaggio a trovarvì. – Benissimo, tanto piacere abbiamo se venite. Tanto, ce l’avete promesso tante volte di venire e non siete mai venuta.
Appena giunto a Napoli, trovò Rocco dei nostri amici di Tricarico, e gli disse: – Andate a dire a mamma i miei saluti, e che sto meglio -. Il giorno dopo mi fece telefonare: venne Nicola la sera, disse: – Mi ha fatto telefonare Rocco, sta meglio.
Stette alla casa del dott. Rossi Doria sabato e domenica e lo tenevano come un figlio. Il lunedì volle andare a Portici dove stava a pensione. Quando il dott. Rossi Doria e la moglie sentirono che voleva partire, rimasero male; disse il dott. Rossi Doria: – Ma che dici? Sono venuto apposta a prenderti per farti stare con noi e avere tutte le cure per guarire -. Ma lui disse: – Mi sento meglio, voglio andare un pò a lavorare -. E se ne partì, laddove già erano pochi i suoi giorni.
Stette lunedì e martedì, giorno per lui e per me traditore. Ma, mi dissero, era allegro, scherzava. Mi fece l’ultima lettera, dove mi diceva: «Cara mamma, sto meglio ma non tanto. Ti prego farmi trovare la stufa nella mia stanza: non badare quello che costa, ché spero in appresso non ti mancheranno. Ringrazio il fratello e la moglie che si sono prestati a curarmi ora che stetti a letto. Vogliatevi bene, baci a tutti. Rocco ». La ricevetti dopo: un ricordo per sempre.
Dopo scritto, cantava, ballava, e disse: – Stasera voglio cenare a tavola con i compagni -. Mentre la padrone della pensione metteva da mangiare a tavola, si mise la mano alla fronte, prese per mano la signora, e cadde a terra. La signora credeva scherzasse. Lo presero per portarlo a letto: aveva chiuso gli occhi per sempre alle otto e mezza.
Il dottor Marselli era a Matera, e gli telefonarono per venire a dirlo alla famiglia. Povero giovane, venne la notte, arrivò a Tricarico all’una e mezza di notte. Non ebbe coraggio di venire da noi; conosceva un mio nipote, che era suo amico: andò a bussargli e lo disse; ma anche quello non ebbe coraggio di venire, e andarono da un compagno, Antonio Albanese, che finalmente, preso coraggio, venne a bussare. Erano le quattro. Mi sentii chiamare: – Alzati, vieni ad aprire, devo dirti una parola. – Dio mio, che ne sarà di mio figlio! – Andai tremando alla porta: – Ch’ è successo? – Lui con coraggio disse: – Niente di male. Rocco si sente un pò male; vuole che andiamo io, tu e Nicola -. E venne pure Antonietta, mia figlia. Il cuore non fermava di battere, gli occhi piangevano; e gli dicevo: – Forse è morto, e voi mi dite che sta male. – Ma non pensare! – Tutta la famiglia, i parenti, credettero che stesse male; ma quando noi partimmo, alle sei di mattina, lo dissero. Figuratevi che fecero in casa, dicendo: – Perché non avete detto la verità? saremmo andati tutti a vederlo, il caro Rocco.
Io, povera madre, sul treno sempre a piangere. Non vedevo l’ora che arrivassi. Credevo trovarlo vivo. Quando scendemmo dal treno, vidi Mazzarone scolorito, il suo viso malinconico; e gli dissi: – Portatemi presto dal mio figlio, lo voglio presto vedere -. Lui mi prese col braccio e mi disse: – Meglio che lo ricordi com’era-. Al sentire queste parole: – Allora è morto! Il mio tesoro! Portatemi presto!
Da Napoli ci misero nella macchina, Cl portarono a Portici. All’università trovammo il dott. Rossi Doria e la moglie che mi aspettavano piangendo. Io dissi: —-: Dov’ è mio figlio? – Senti, signora, stette due giorni e se ne volle andare dove stava a pensione. Io non volevo; dicevo’ Devi stare con me’, ma non lo potetti far persuaso. Parti, ed è morto ieri sera alle otto e mezza.
Di nuovo in macchina mi portarono a Portici dove era mio figlio. Sembravo l’Addolorata quando andava in cerca del figlio. Finalmente arrivammo là dove il mio Rocco era disteso sul letto di morte. Sembrava come dormisse. Al solo vederlo, se avevo un colpo di rivoltella ero contenta. Figlio mio che sogno lungo che ti fai, perché non mi rispondi, perché mi hai abbandonata? Come farò? Io vecchia debbo vivere e tu giovane sei morto. Come debbo fare? I suoi amici e compagni mi davano conforto: – Signora, ci siamo noi, non ti abbandoneremo.
Ho perduto il mio tesoro, il mio bastone, la mia speranza, la mia grandezza. Dove sono andate tante sue fatiche? Quanta gioia dava alla sua famiglia: anche solo quando prendeva i premi, che ne ha presi cinque volte, premio Roma, premio Monticchio, premio Borgese, non ricordo altri due, e pensava alla famiglia. Quante volte trovava i ragazzi che andavano a scuola piangendo, gli domandava: – Perchè piangete? – La madre non vuole comperarmi i quaderni, non ha soldi -. Li prendeva per mano, andava a comperarli, e diceva: – Dite alla mamma che bisogna fare sacrifizi per mandare i figli a scuola -. Non teneva mai denari per conto suo, pen- sava a tutti. E ora sono lasciata senza il mio caro figlio. Ecco dove e come doveva andare a finire quello che ho scritto prima.
Non poteva morire a tre anni col gruppo, non poteva andare altre dieci volte carcerato, ché tenevo la speranza di rivederlo! Dovevo andare a Portici per piacere, mentre sono andata a piangere. Che brutto dolore, che spine pungenti al cuore! Perché Iddio non me l’ ha fatto morire in casa mia, almeno a tenerlo un mese ammalato mi potevo più rassegnare.
Va bene che le cose belle che gli hanno fatto non le vedrà più nessuno. Quando mi portarono a casa la bara con il mio tesoro dentro, il corteo non finiva mai, nelle case di Tricarico non rimase nessuno, tutti ad accompagnare mio figlio, gente da tutti i paesi, macchine, corone di lusso. Il dott. Carlo Levi e il dott. Rossi Doria e i compagni ne fecero assai per mio figlio: nessuno potrà più vedere quel corteo; e quanta moneta spesero per Rocco, che gli volevano tanto bene.
Ricorderò sempre i giorni della settimana. Il lunedì dico: «Tanti giorni oggi mio figlio era a Portici» . Martedì: «Era vivo, cantava, rideva». Guardo l’orologio « Alle otto e mezza morì». Mercoledì ricordo: «Venne in casa nella bara morto». «Il giovedì andammo al cimitero a seppellirlo ». Il venerdì ricordo « Tanti giorni fa mio figlio era a cena in casa mia con il dott. Rossi Doria e i compagni per l’ultima cena che fece in casa ». « Il sabato – ricordo – partì per Napoli ». «La domenica era sulla terrazza del dott. Rossi Doria, che gli fece l’ultima fotografia che a guardarla mi sento morire, come stava con le mani incrociate fra le gambe; poteva dire: ‘Sarà l’ultima volta che sto in questa terrazza’ e poteva dire: ‘Mi sento male, mi vedo senza mia madre’ ». E così di seguito, finisce una settimana e comincia l’altra; e sempre con le stesse cose. Pazza posso andare ma non posso fargli niente: solo versare lacrime, che divento cieca. E dico: «Ecco dove sono andati a finire i miei sacrifizi, quelli del padre, e tanto suo lavoro: sono tutti sotterrati in un fosso, e non lo vedrò mai più ».
I dottori, dopo morto, dissero che non poteva vivere: si era otturata la vena principale del cuore. E io non faccio altro che pensare «E forse sarà stato il lavoro, forse lo strapazzo a fare viaggi, forse la carbonella di Irsina, il fumare; non si doveva alzare, come gli dicevano i dottori di stare a letto, non doveva partire per Napoli». Ma la testa posso perdere: solo Iddio potrebbe ridarmelo, che me l’aveva fatto nascere così bravo buono caritatevole, per lasciarmi un ricordo che anche dopo cent’anni morta non lo dimenticherò mai.
Peccato morire così giovine
non ancora compito trentun anno.
Tutto il popolo l’ ha pianto.
Lui è andato a godere l’altro mondo.
Restando tutto a lutto il nero manto.
Ecco la morte col suo falcione
che tira da lontano e da vicino:
come ha troncato il povero Rocchino!
Ha detto a tutti – Addio, mia madre,
fratello, sorelle, amici, parenti,
vado a godere il Cielo eternamente-.
Sono la madre afflitta sconsolata,
il mio figlio la morte me l’ ha troncato,
ho perduto tutte le mie grandezze,
il mio tesoro era lui, la mia ricchezza.
FRANCESCA ARMENTO ved. SCOTELLARO
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