Un viaggio in Rolls-Royce

Arrivo a Tricarico. Sono solo, mia moglie e i miei figli erano rimasti a casa, a Modena, dove allora vivevamo. Scendo dall’autobus nella piazza desolatamente deserta, spazzata da un vento gelido. Noto una sola presenza, con le mani  nelle tasche del cappotto e la testa infossata tra le spalle.
Mi vede, estrae la testa dalle spalle e le mani, nude, dalle tasche. Mi rivolge un largo sorriso, tende il braccio destro, divaricando le dita, e mi viene incontro.
Ci diamo ma mano. Mi abbraccia. Lo abbraccio. Mi chiedo chi è. La faccia mi è nota, ma il nome non riesco a ricordarlo.
– Come stai? Tutti bene in famiglia? Quanto ti trattieni? –
Rispondo a ciascuna delle domande. Me ne fa altre due:
– Perché non sei venuto con la macchina? Che macchina tieni? –
– Non tengo la macchina. Non ce l’ho, non l’ho mai avuta. E non tengo neppure la patente -.
– Ah. Statt bbun! – Non mi porge la mano, mi gira le spalle e si allontana.
Lo segue il mio saluto scettico: – Ngi vrim -.
Mi tolse il saluto, mi ha sempre ignorato quante volte ci siamo incontrati in occasione dei miei ritorni a Tricarico. Sempre senza la macchina e la patente, che non ho mai avuto e non ho.
Mi capitò qualche tempo dopo di fare un viaggio ospitato in una macchina che aveva il predellino come quello della Balilla a tre marce, ma capii subito che non era una Balilla a tre marce. Quando presi posto nell’ampio abitacolo mi sembrò di sprofondare in una poltrona Frau. La mia indifferenza cedette, non potetti fare a meno di chiedere con che macchina stavamo viaggiando. Fui informato con un tono di commiserazione: – Antò. Stai viaggiando su una Rolls-Royce! -. Pensai a quell’incontro nella piazza vuota di Tricarico, spazzata da un vento gelido.
 

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