con dedica in pectore 
     Non c’è nulla di più sbagliato dell’opinione che letteratura e burocrazia siano assolutamente incompatibili e che la prima si serva dalla seconda per produrre i suoi acuti spunti satirici. Tale opinione mi è stata attribuita per l’articolo «Sfollati a Tricarico con divagazioni dickensiane» pubblicato il 6 maggio scorso. Apprezzo la riservatezza della critica, rivoltami con una mail personale e non con un pubblico commento al suddetto articolo, anche se credo che non c’è nulla che di quell’articolo debba farmi perdonare, e mi affretto a chiarire l’equivoco.
     Ciò che scrissi di contorno al giuliano Toni rimane; ora posso aggiungere la compilazione di una lunga ma incompleta lista di impiegati scrittori: scrittori notissimi, di fama mondiale, premi Nobel, o meno noti o pressoché sconosciuti, adibiti a mansioni di massimo livello burocratico e, via via più basso, a scendere lungo la scala delle responsabilità e delle carriere amministrative, senza che, più o meno spesso, l’incarico impiegatizio corrispondesse alla fama letteraria.
     Non avrei potuto redigere questa bagatella se non mi fossi potuto avvalere degli studi del mio amico Luciano Vandelli, professore ordinario di diritto amministrativo all’Università di Bologna, autore di una  apologia letteraria del pubblico impiego, che con affetto definii – definizione da lui rifiutata – opera di un novello Prampolini. Formalmente il rifiuto è giustificato, perché il Prampolini è una enciclopedica storia della letteratura universale, un’opera compiuta che divorai negli anni giovanili, e gli studi di Vandelli sono propri di un giurista in costante ricerca, dalle larghe vedute e dai profondi interessi, che aprono interessanti e impensabili prospettive e suscitano ulteriori interessi. Devo aggiungere che Vandelli accettò volentieri il mio invito a partecipare a sue spese a un Convegno di studio sulla legislazione post-terremoto del 1980, che si tenne nella sala del Consiglio comunale di Tricarico.
     Nella lunga schiera di scrittori impiegati scelgo uno scrittore tra i più geniali e fantasiosi  che abbia espresso la letteratura mondiale e sorprenderà non pochi sapere che è stato impiegato modello quale ispettore preso l’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Alludo a Franz Kafka e ne parlerò dopo aver adempiuto all’impegno di compilare l’annunciata parziale lista di impiegati scrittori: Saul Bellow, François René de Chateaubriand, Ugo Betti, Leon Blum, Heinrich Boll, Jorge Luis Borges, Charles Bukowsky, Piero Chiara, Paul Claudel, Collodi, Emilio De Marchi, Fëdor Dostoevskij, Gogol, Pierre Chloderlos de Laclos, Benjamin Constant, Anathole France, Renato Fucini, Alphonse de Lamartine, Piero Jahier, Stephane Mallarmé, Joseph De Maistre, Guy de Maupasant, Herman Melville. Robert Musil, Pablo Neruda, George Orwell. Octavio Paz, Luigi Pirandello, Alexandre Puškin, Salvatore Quasimodo, Stendhal, Italo Svevo, Alexis de Tocqueville, Federigo Tozzi, Ivan Turgenev, Paul Valery, Paul Verlaine, David Foster Wallace. E, naturalmente, Franz Kafka, funzionario modesto, come ho già ricordato, ma che in letteratura fu un gigante, come pochi; ma non mancano altri impiegati che come scrittoti furono giganti: basta scorrere il suddetto elenco.
     Va anche detto che la letteratura deve molto al pubblico impiego come luogo di produzione e di sostentamento di scrittori, in quanto fornisce loro uno stipendio e il tempo per dedicarsi ad altre occupazioni, oltre a costituire una fonte inesauribile di ispirazione.
     Di Kafka dirò il minimo indispensabile per presentarlo come impiegato modello, quale è stato, lasciando da parte il tentativo, superiore alle mie forze e al carattere proprio di una semplice bagatella, di relazionare apologeticamente l’impiegato alla sua geniale produzione letteraria e scoprire, come è stato detto, che la burocrazia è ora e Kafka l’ha vista dal di dentro anticipatamente.
     L’orario di lavoro di Kafka era fino alle tre e, come testimonia il suo amico Max Brod, «quando si ritornava dopo le tre bisognava prima mangiare, poi riaversi un tantino dalla mortificante fatica dell’ufficio e mettere il cervello in libertà, per cui ben poco rimaneva della giornata».
     La divisione del suo tempo non gli permetteva, come avrebbe voluto, di dedicarsi liberamente alla passione dello scrivere. Si illuderà, quindi, di trovare l’indipendenza economica e, con questa, il tempo necessario alla scrittura, divenendo imprenditore, pare, peraltro, cedendo piuttosto al volere del padre. Fatto sta che, quando l’impresa iniziò ad andare a rotoli, la colpa fu fatta ricadere su di lui: si rese pertanto conto che la nuova attività non gli consentisse un tempo maggiore del pubblico  impiego per dedicarsi alla scrittura e, per di più, comprese quanto fosse inadeguato al nuovo lavoro.
     Si accorgerà che l’ufficio gli mancava e che contava davvero molto nella sua vita. Nelle sue parole, questo ufficio diviene «un uomo vivo che dovunque io sia mi guarda con occhi innocenti, una persona alla quale sono stato unito in qualche modo che ignoro». E’ stato addirittura osservato che «dunque, Kafka, soffriva anche perché – così almeno credeva – il suo scrivere notturno non consentiva l’impegno personale che egli esigeva a sé».
     In questo Kafka non è un caso unico. Il lamentarsi del lavoro di ufficio quando c’è, e il rimpiangerlo quando non c’è, sembra, anzi, un atteggiamento ricorrente tra gli scrittori impiegati. Paul Verlaine, ad esempio, dopo aver sognato a lungo di avere più tempo da dedicare alla scrittura, quando viene destituito dall’impiego comunale (un modesto impiego presso il Comune di Parigi), sperimenta un blocco creativo, una sorta di interruzione del flusso delle idee: «da quando aveva tutta la libertà – annota la moglie – non aveva scritto un verso, mentre i precedenti erano stati scritti in gran parte durante le tranquille ore d’ufficio».
     Che Kafka fosse un impiegato modello è indubitabile.  Il suo superiore diretto dott. Pfohl annotava nelle note di qualifica: «instancabile, assiduo e ambizioso, egregiamente utilizzabile, il dottor Kafka è di straordinaria operosità, di spiccata intelligenza e di grande zelo nell’adempimento del suo lavoro». Chissà se il dott. Pfohl abbia mai immaginato che il mondo burocratico, così quotidianamente familiare, potesse trasformarsi, di notte, nell’inquietante, misteriosa, irraggiungibile organizzazione del Castello; che l’ansia di giungere puntuale in ufficio potesse condizionare il primo, preoccupato pensiero di Gregor Samsa risvegliatosi nella scomoda posizione di enorme insetto ne La Metamorfosi; che il senso di responsabilità e di autorità potesse tradursi nell’ossessiva, inafferrabile accusa che perseguita la sconcertato dottor K ne Il Processo.
     La valutazione positiva dell’impiegato Kafka era generalizzata sia soto l’amministrazione tedesca sia sotto l’amministrazione boema: «era benvoluto da tutti e non aveva nemici; il suo senso del dovere era esemplare, il suo lavoro molto apprezzato», al punto di ricevere una serie di promozioni, passando rapidamente da «impiegato ausiliario» a «tirocinante d’istituto», da «impiegato di concetto» a «vicesegretario», sino a divenire, oramai gravemente ammalato, «segretario superiore».
     Le mansioni che l’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori gli aveva affidato riguardavano la prevenzione degli infortuni e il disbrigo dei ricorsi circa le assegnazioni delle aziende alla singole categorie di pericoli. Dell’attività esemplare, perfettamente consapevole dell’interesse pubblico che era chiamato a perseguire di contro interessi privati degli imprenditori, si sa molto: si conoscono le sue relazioni tecniche, i pareri giuridici, i documenti ufficiali.
     Incaricato di scrivere il discorso per l’insediamento del nuovo direttore, Kafka trovò l’occasione per delineare i caratteri che, secondo lui, doveva possedere il funzionario ideale: non vantare «altri titoli di merito se non quelli che gli vengono dal proprio lavoro»; «essere irremovibile nella sua imparzialità e giustizia»; mostrare «sensibilità intensa e viva per la condizione dei lavoratori», ma sempre nel rispetto dei «limiti posti ai suoi sforzi ina questa direzione dalla legge».
     Erano passati secoli da quando poeti e artisti potevano permettersi una vita sfarzosa e potevano dedicarsi esclusivamente alla loro passione col solo onere di adornare la corte con il loro prestigio. Ora gli scrittori impiegati dovevano vivere del loro stipendio, come i loro colleghi. Ma non mancava chi fosse convinto del proprio diritto di vivere di versi, come ad esempio Puškin, e come ancora riteneva un valido poeta lucano, mio coetaneo, recentemente scomparso, non mio compagno nel Convitto Quinto Orazio Flacco di Potenza..
     Molto umilmente Kafka, come altri, chiede aumenti di stipendio presentando istanze, argomentando, documentando all’«Illustrissima Direzione» dell’Istituto di assicurazione di «voler prendere benevolmente in considerazione i seguenti motivi …», che erano motivi di ordine economico (il calcolo dell’inflazione), equitativo (l’andamento degli stipendi nelle altre amministrazioni), giuridico (il sistema di inquadramento dei funzionari dell’Istituto).
 
     Delle principali opere di Kafka è possibile leggere il testo integrale su internet.
 

4 Responses to L’impiegato modello Franz Kafka

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Perfetta e preziosa questa tua nota. Te ne dobbiamo essere particolarmente grati….

    • Antonio Martino ha detto:

      Grazie a te, caro Gilberto. E’ una grande soddisfazione per me sapere che un filo invisibile ci tiene ancora uniti.

  2. m antonietta carbone ha detto:

    Bello, dovrebbero leggerlo tutti quelli che vivono con sofferenza il proprio dovere…grazie

  3. Antonio Martino ha detto:

    Mi fa molto piacere che tu l’abbia letto e ti sia piaciuto.

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