Venezia è così bella: io non la vò lasciare

 “Venezia è così bella: io non la vò lasciare”: era il ritornello di una canzone che cantavamo in un paese Lucano della seconda elementare nell’anno di grazia 1915.

“Pronti: via!”.

Tutti e settanta quanti eravamo pigiati nei banchi minuscoli e lucidi per lungo uso, scattavamo come molle; quindi il capo rivolto a sud verso i grandi finestroni di Santa Maria, le braccia tese nella stessa direzione, le mani tremolanti come le ali di uccello in pieno volo, intonavamo a gole spiegate il canto della nostra strana nostalgia:

“Venezia è così bella”.

In quell’anno era scoppiata la grande guerra e noi lo sapevamo perché gli uomini partivano soldati ed erano accompagnati dai parenti in lacrime, come se fossero già morti.

LA DOMENICA DEL CORRlERE ci dava con vistose immagini colorate gli episodi di valore di nostri soldati e sui giornali comparivano in grassetto e sulla prima pagina i bollettini di guerra: “in Val Lagarina attività di pattuglia; sul Carso duello delle diverse artiglierie; in Val Sugana;”: ogni giorno così; mentre la guerra continuava, tanto lontano da noi che dovevamo fare uno sforzo per ricordarcene; una cosa grossa e difficile da capire, ma che pure inconsciamente, pesava sui nostri spiriti infantili.

Un giorno zio Ciccio tornò a casa palesemente afflitto si tolse il cappello con lentezza e scandì con voce cavernosa: “il nemico calpesta il sacro suolo della patria”.

La buona donna di mio zio ed io lo guardammo stupiti ma non sapemmo chiedergli nulla.

Frequentavo dunque la seconda classe elementare nelle scuole del convento di Santa Chiara, in un’aula a piano terra dell’antico edificio, subito a destra di chi varcava il portone d’ingresso: ampia e luminosa per cinque finestroni bene esposti, con il pavimento a mattoni verticali sistemati a spina di pesce, la volta a botte ed i ciclopici muri maestri. I vetri erano per metà rotti ed appannati da polvere secolare, ragnatele pendevano da ogni parte come drappi neri e grosse buche e terrose si aprivano nel pavimento. Un’aria fresca giocava in permanenza nello stanzone, portando il sentore della neve o l’odore degli orti in primavera.

Una predella con un tavolo penzolante di colore marroncino, una lavagna ribaltabile con i righi già tracciati, il ritratto dei sovrani, un braciere colmo di cenere bianca, una bottiglia di inchiostro fatturata con anilina, costituivano la dotazione dell’aula.

Sul tavolo una zampa di lepre, alcuni rettangoli di stoffa strappati dai campionari ed adoperati per la pulizia dei pennini, uno straccio, dei gessetti; sul braciere una palettina di ferro per rimestare il fuoco.

Nell’aula eravamo tanti che il maestro sudava sangue per tenerci a freno e ci riusciva, ma a qual prezzo!

Chi non ha posto mai piede in una scuola del meridione o non vi ha sostato nei pressi all’ora dell’uscita dei ragazzi, non potrà capire cosa significhi esuberanza infantile. Compressi nell’aula per lunghe ore, non appena liberi i bambini si riversano a valanga per le strade, si accatastano, si azzuffano selvaggiamente, urlano come piccoli ossessi ed il caos regna sovrano all’intorno: per poco, chè tutto da noi è tempestoso e non dura.

Il maestro che riusciva a portarci indrappellati fin sulla soglia della scuola indulgeva alle nostre intemperanze e fondendo la calca rissosa si avviava verso casa, salutato da tutti e salutando tutti.

Egli era un uomo probo e severo al tempo stesso.

Di media statura, tarchiato, impettito, con baffi e fluente barba brizzolata sempre umidiccia agli angoli della bocca, portava occhiali a stringinaso inforcati al limite estremo delle narici ed un nodoso bastone appeso al braccio sinistro. Camminava impettito come un militare e parlava con voce nasale accentuando le vocali di fine parola, proprio come fanno i maestri. Entrava puntualmente in aula e non era mai assente dalle lezioni. Tutti i maestri prima o poi si ammalavano, ma non lui, solida quercia che bloccava ogni vacanza fuori dall’ordinario. E così mai avemmo la gioia, comune a tutti i bambini del mondo, di poter gridare una sola volta, il maestro è malato e non si fa scuola!

Aveva un debole per il canto e per la ginnastica. Canto o ginnastica erano preludio e fine delle lezioni vere e proprie. “Mente che so sana in corpo che so sano”, sentenziava soddisfatto; oppure: “Il canto che so ingentilisce il che so animo”: parole chiare e sacrosante nella sostanza, ma oscure nella forma.

Va spiegato a questo punto che il maestro soffriva di una balbuzie così inceppante che gli avrebbe impedito di parlare s’egli non avesse creato un sistema tutto personale per rimediarvi.

Il sistema consisteva nel saldare i vuoti tra parola e parola con espressioni verbali di varia lunghezza, di cui le più comuni erano le seguenti: “Che so” “adacudda”” la quid della cosa” “come si mise che so”. Sarebbe del tutto vana ogni indagine sul valore etimologico, estetico, interpretativo delle suddette espressioni: erano tali e basta, suggerite forse da scaltrite tecniche e certo le sole adatte per “saldature di tal genere”.

Ogni discorso del maestro era come un aggrovigliato vivaio e rebus la cui chiave per fortuna ci era nota ed il seguirlo non era quindi impresa disperata. D’antronte i bambini di allora non erano forse maestri nel camuffare le parole infarcendole per gioco di lettere dell’alfabeto scelte di volta in volta d’intesa con amici? “Nefasofo scafazzafatofo” disse una volta mia sorella guardando una donnetta dal naso schiacciato che sedeva in casa nostra in attesa che mio padre rientrasse.

“Figlia mia, il naso: io lo tenevo buono; poi il Signore ha voluto cosi per disgrazia”.

E la donnetta sospirò tra la nostra generale costernazione.

Il guaio avveniva quando persone estranee per la prima volta parlavano col maestro. Disorientamento e sforzo di capire erano allora cosi evidenti, che ci sentivamo in obbligo di intervenire come volontari e pietosi interpreti per evitare con tatto eventuali malintesi.

Né deve credersi che gli intoppi di pronuncia consigliassero al maestro un uso più moderato della loquela o ingenerassero in lui alcun complesso: tutt’altro il brav’uomo parlava, parlava, di buona voglia, scherzando e benevolo sempre, del tutto immemore dello strano difetto.

Ma torniamo alla ginnastica.

Essa consisteva essenzialmente in un pestaggio ritmico, pesante, insistente di piedi sul legno base dei banchi, unò-duè-unò-duè con rumore di esercito in marcia che si espandeva per largo raggio sulle quiete case dintorno.

“Il maestro fa la ginnastica” dicevano le donnette di casa e parevano cosi regolarsi per le loro faccende ba- sandosi sul cronometrico inizio di quella lezione.

E quanta fierezza per i loro bambini che si “irrobustivano con quei sani esercizi .

Frattanto nell’aula nuvoli di polvere, svegliati dal secolare letargo, si avventavano dal basso verso l’alto ad ogni colpo di piede mescolandosi all’aria già pregna di fiati

caldi e di strani sentori. Masticavamo polvere amara, un bruciore irritante nella gola e nelle narici ci costringeva a tossire: ma nella caligine dai riflessi d’argento il pestaggio continuava inflessibile per il bene del nostro fisico.

Il maestro era soddisfatto e per meglio dimostrarlo disponeva che si continuasse a far ginnastica in palestra ch’era un sottoscala vastissimo, tetro, lurido da cui si accedeva dai piani superiori dell’edificio.

Inquadrati e passo cadenziato, imbracciando talora manici di scopa per esercitazioni più impegnative, irrompevamo fieramente in palestra per eseguire in forma più vistosa torsioni di busto e marcette in ordine chiuso.

“Dest -riga” – fissi!”

“Sinist -riga – fissi!”

Le nostre teste ignare di destra e di sinistra sembravano giroscopi impazziti, alla vana ricerca della parte giusta.

“per quattro: doppia distanza!”

Erano di scena i bastoni e noi ci studiavano di evitare almeno che non ci fracassassimo a vicenda il cranio.

Alla ginnastica seguiva il canto a gole spiegate, con note acutissime e sostenute sì da renderei paonazzi per lo sforzo. La mimica si accompagnava al canto come crea- zione indubbiamente originale, se non proprio artistica del maestro. Il primato toccava sulla canzone su Venezia, la città mitica vagamente immaginata e lontana come l’astro più lontano ma bella tanto che non potevamo abbandonarla, e l’altra dolce canzone.

Sentite: “una goccia o nuvoletta; sitibondo un fiore gridò; or non posso ho troppa fretta; le rispose e via passò”; triste storia di una canagliata di una nuvola fretto- losa e di un piccolo fiore che non soccorso a tempo, inaridì.

A mani giunte invocavamo la nuvoletta; con l’indice teso con la mano destra in moto di reciso diniego indicavamo la disumana risposta; con la testa reclinata sul- le spalle e le mani penzoloni imitavamo il fiore inaridito.

Una scena superba.

Le salutari esercitazioni avevano termine e si passava alle lezioni vere e proprie, come la lettura, l’aritmetica e il dettato; con esse ritornava il silenzio in classe, non imposto, ma frutto del comune timore di buscarle in caso contrario.

“Sei per sei? Otto per otto?”

Le interrogazioni sulla tavola pitagorica fiaccavano e Rocco se ne stava a bocca chiusa inebetito. La tavola Pitagorica proprio non voleva entrargli nella zucca. “ciuc- cio, scartapello” gli gridava il maestro esasperato nella vana speranza di svegliarne l’amar proprio. Ma lui niente. Abbassava il testone, atteggiava il viso con falsa compun- zione e se ne stava fermo come una statua.

Le spalmate erano i colpi che i maestri di allora davano sulle mani degli alunni discoli o asini con la paletta, ossia con un oggetto di legno o di ferro avente la parte termina- le arrotondata, simile per forma a quello che usano i capi- stazione per dare la partenza dei treni.

Il numero delle spalmate era commisurato alla en- tità delle manchevolezze ed il rito nel somministrarle non variava mai: l’alunno piagnucolante tendeva la mano a palma aperta e la ritirava fulmineamente ad ogni accenno di colpo, ed il maestro, per non tirare a vuoto tratteneva l’estremità delle dita la mano tesa e faceva giustizia.

Il ragazzo, soffiandosi nelle mani arrossate, torna- va al suo posto col viso torvo mormorando oscure minacce.

Si passava quindi alle esercitazioni più impegnative sulle quattro operazioni: addizione e sottrazione a varie cifre; moltiplicazione e divisione a varie cifre.

Il maestro pretendeva che ragionassimo nelle eseguire tali operazioni per poter dimostrare a chiunque che eravamo padroni del meccanismo aritmetico. Aveva quindi ideato un originale sistema di auto ragionamento ad alta voce che doveva in ogni momento comprovare l’esattezza dell’assunto.

Facciamo conto di eseguire una sottrazione. L’alunno doveva esprimersi suppergiù in questi termini “quattro meno cinque non si può; si fa imprestare una de- cina dal sei, che messa davanti al quattro fa quattordici; quattordici meno cinque si può.

” Per la divisione il procedimento logico variava di poco: “il sei nel tre non si può; si abbassa un’altra cifra che fa trentasei; il sei nel trentasei si può; il sei nel trentasei centra, c’entra, c’entra quattro, no, cinque, no, sei volte; sei per sei trentasei; numeri in colonna: sei meno sei, paato; tre meno tre, paato”; Per “paatao” bisogna intendere “pagato” cioè zero.

Con tale metodo non è chi non veda quale fosse il vantaggio per la nostra formazione mentale; anche se non poteva dirsi lo stesso per la nostra formazione sintattica, grammaticale.

Il maestro insegnava da anni nella stessa classe la seconda elementare.

Aveva conseguito il patentino ed era riuscito primo nel suo concorso, come amava ripetere; ma tale primato non convinceva i super critici suoi compaesani. Certamente il suo bagaglio culturale era esiguo, poco armonico l’eloquio.

Pur tuttavia egli riusciva a trarre dal suo lavoro assiduo risultati che stupivano. Gli alunni che uscivano dalla sua scuola erano ben preparati ed avevano, come si dice, solide basi e potevano camminare speditamente nelle scuole superiori. Il segreto del successo era da ricercarsi, ora lo so bene, nella tenacia con cui operava e soprattutto nell’amore che poneva nel lavoro appassionato di ogni giorno.

Era nato per insegnare, per vivere cogli alunni, per impartire, anche questa amava ripetere, il pane della scienza. L’opera sua non si esauriva nella scuola, ma continuava in casa, trasformata in perenne dopo scuola. La vasta cucina inondata di sole, col portoncino sempre spalancato era il solo posto accogliente della casa ed in essa si adunavano i bambini di ogni età e condizioni, affidate, dalle mamme alle cure del maestro e più ancora alle figlie dei maestro, tre buone zitelle diverse tra loro per fisico, indole, attività. La più anziana, cogli occhi bovini e i capelli crespi precocemente imbiancati, attendeva principalmente ai lavori domestici e poco si curava di noi; la sorella di media età, più dotata fisicamente l’unica che trovò marito, era di indole dolce, sorrideva con facilità e intratteneva piacevolmente; l’ultima era scattante, nervosa, rumorosa, facile al riso e al pianto e su di essa ricadeva tutto il peso della cosiddetta educazione.

Seduti su minuscoli panchetti o su sedioline spagliate, stavamo fermi per ore e ore, intronati dalle urla della educatrice, che brandiva in permanenza e non invano, un flessibile giunco capace di raggiungerci in ogni remoto angolo.

Io godevo di qualche privilegio nei riguardi dei miei piccoli compagni e ne approfittavo per riesplorare, sempre con la stessa segreta angoscia, le due stanze interne della casa, avvolte nel buio più profondo, fredde come obitori, con i pavimenti di granito a spaccata, esposte a borea e mai sfiorati da raggio di sole.

La moglie del maestro, come assente in quel caos, se ne stava rannicchiata nell’angolo più remoto della cucina e puliva di continuo rape, cicorie, l’insalata; poi friggeva peperoni, uova, baccalà, avvolto da una nuvola di fumo acre che dai tegami trepidanti si espandeva tutto intorno.

Pasti frugalissimi erano quelli del maestro stabiliti giorno per giorno sulla base di minor prezzo di mercato di generi alimentari più che sul valore nutritivo degli stessi. Bisognava che il bilancio famigliare quadrasse e la povera

donna ci riusciva coscienziosamente. Ma quanta tristezza in quel viso devastato da precoce vecchiaia, in cui faceva- no spicco tremolanti labbra prominenti ed i mansueti oc- chi appannati di pianto!

Le scuole si aprivano in autunno quando già le piogge avevano raffreddato l’aria al punto che bisognava coprirsi.

No che mancassero delle splendide giornate di sole ma si sentiva ormai che l’estate era solo un dolce ricordo.

Nei vigneti ferveva la vendemmia, le vetture: muli, asini, cavalli, andavano e venivano dalla campagna al paese con i barili colmi di mosto e nelle cantine tutto era pronto o in moto per la spremiture delle uve.

Le lezioni avevano inizio alle otto e duravano cinque buone ore, interrotte a metà dalla ricreazione che si svolgeva all’interno dell’aula se il tempo era cattivo e all’aperto negli altri casi.

La ricreazione era attesa con forte impazienza e si svolgeva secondo un piano ben delineato: il primo tempo era tutto dedicato al commercio del pane e dell’ acqua, le vettovaglie di cui solo pochi di noi erano forniti.

Il pane era di grano integrale, scuro e raffermo; veniva tagliato in grosse fette e riposto in un angolo nella “borsa”, mentre l’acqua era contenuta in certe bottigline da liquore rigonfie e sfaccettate agli estremi e col corpici- no e il collo stretto, stretto.

La “borsa”, ossia la nostra cartella, veniva confezionata in casa con stoffa di tela rigida di colore grigiastro o verdolina, ai cui bordi veniva applicata una lunga fettuc- cia ben cucita con filo di rafia che consentiva di metterla a tracolla.

Libri, portapenne in legno, pane, bottiglia la gon- fiavano e l’appesantivano oltre misura, sicchè ballava sulle gambe tintinnando ad ogni passo.

Vigeva dunque tra di noi il baratto: io ti do l’acqua

tu mi dai il pane.

Moneta corrente erano i pennini vecchi e nuovi, unità di peso e di misura per i generi barattati era il cosiddetto “ruto”, creazione misteriosa e spirito mercantile dei ragazzi, corrispondenti pressappoco ad un sorso d’acqua o ad un boccone di pane. Le operazioni di mercato si svolgevano sollecitamente, in un clima di diffidenza e di rissa. I dissapori affioravano ogni qualvolta veniva attuato praticamente il baratto.

Si dava, invero il caso che gli smaliziati riuscivano ad ingozzare in un colpo solo più acqua del previsto o a strappare con un morso bendato un grosso pezzo ai pane.

Viceversa i meno furbi ponevano le labbra a ventosa e bloccavano in conseguenza il foro della bottiglia con il risultato di restare all’asciutto, ovvero, vittime di un certo ritegno, si limitavano ad addentare delicatamente la fetta di pane: di qui le proteste, urli e zuffe generali da parte di tutti: di chi si sentiva defraudato dalla eccessiva ingordigia ed abilità dell’acquirente e di chi reclamava una maggiore giustizia.

Esauriti i commerci si passava ai giochi dei pennini, dei bottoni, delle stacce, dei cerchi e della fionda.

Coi pennini si faceva alla “pa” cercando di far ribaltare con una sole emissione di fiato il maggior numero di pennini allineati a pancia all’aria in fila orizzontale; coi bottoni si giocava a tozza muro l’effetto delle perdite ora dell’uno ora dell’altro e si riperquotevano sui pantaloni e sulle giacche delle rispettive famiglie; i cerchi in ferro di piccolo formato, venivano azionati da un bastone lungo anch’esso di ferro, attrezzato ad uncino ad un estremo, la fionda, che chiamavamo freccia, approntata con liste di camera d’aria di biciclette e manico in legno biforcuto, ci serviva per la caccia di colombi selvatici che si annidavano nei buchi della torre.

Quando il tempo era bello, la ricreazione si svolgeva all’aperto e allora si emigrava in massa sul piazzale di santacroce, il nostro campo di battaglia.

“Alla vainetta”, alla baionetta, era il grido di guerra, e via di corsa verso la strettoia ventosa che immetteva sul piazzale. Superato un dislivello a larghe gradinate, si passava al versante di Motta scosceso seminato di spunto- ni di roccia che i nostri piedi appena sfioravano in un mi- racolo di equilibrio; si costeggiava un larghetto usato come latrina e deposito di rifiuti di ogni genere, convegno per sedute serali delle comare del vicinato e s’imboccava la spianata vera e propria.

Il puzzo ammorbava l’aria, cani e maiali frugavano nel liquame, stormi gracchiavano nel cielo terso e noi era- vamo scatenati, in lotte pericolose e lanci improvvisati, fino a quanto una voce lontana ci avvertiva, come? da do- ve? Non lo mai saputo! Che il tempo era finito e bisogna- va rientrare a scuola.

“Pronti per il dettato” il maestro tornava improvvisamente severo attendeva che ci preparassimo per la prova: fuori i quaderni, a righe grosse, il pennino buono da infilare nella latta arrugginita dell’asticciuola, disposta le dita a dovere con l’indice e il medio della mano destra ap- paiati ed il pollice sotto.

E la dettatura aveva inizio.

La voce del maestro era tesa, con strana cadenza ondeggiante tra un massimo ed un minimo di intensità per stessa parola. S’egli dettava il superlativo “giustissimo”, la prima metà di esso veniva gridata e la seconda quasi sus- surrata. Per le parole con doppia consonante, adoperava la tecnica comune a tutti i maestri di allora. Diceva: “ac-cat- tone” per “accattone”; e noi sapevamo da quella sincopata dizione che c’era da mettere due C’ o due ‘T . Per le parole accentate non si poteva sbagliare.

“Giulio” tornando dalla scuola, incontrò”: a questo punto il maestro urlava addirittura l’accento ed abbassava la testa per tenere dietro lo sforzo. Naturalmente Giulio incontrò un povero vecchio che chiedeva l’elemosina e così il corrente tema della pietà e della bontà era per l’ennesima volta toccato.

I Ciucci non capivano mai ed il maestro era costretto a ripetersi infinite volte, sicché la dettatura diventava una faticaccia.Poi la lettura ci piaceva moltissimo era la sola materia che ci riposava e ci divertiva. Reclamati con insistenza erano i brani di natura scelta specie quella di Deamicis, e deàmicis, come allora dicevamo. “Signor Maè”, leggiamo a Piccola Vendetta Lombarda “Signor Maè” leggiamo l’Infermiere di Tatà. Signor Maè”, leggia- mo Dagli Appennini delle Andre.

Il maestro, che non faceva caso alle deformazioni dei titoli dei racconti, prometteva di accontentarci e man- teneva la parola. Nel silenzio più profondo ascoltavamo quasi rapiti gli episodi patetici dal libro “Cuore”, spesso commuovendoci fino alle lacrime.

L’autunno, il nostro dolcissimo autunno, cedeva di schianto all’inverno, un mattino rabbiose raffiche di tramontana ti aggredivano sulla soglia di casa mentre una nuvolaglia livida correva per il cielo divenuta all’improvviso più alto e più turchino.

Dalla valle il nebbione stagnante saliva lentamente fino ad avvolgere ogni cosa. Addio tiepido sole novernbrino, estate di San Martino. Forse nei vigneti rabbrividiscono gli ultimi acini d’uva nella vana attesa di un ultima ra- cimolata.

Passava ogni giorno con poca luce e molto buio. Che pena svegliarsi nel pieno del sonno uscire dalle coltri ben calde e vestirsi in fretta a lume di candela con i brividi nelle ossa, la camicia era di ghiaccio e l’acqua tanto fredda che facevo del mio meglio per non usarla.

A scuola già funzionava il braciere di carbonella “digerita’, come allora si diceva.

Ogni mattina due alunni volenterosi sulla ripida via

al forno gestita da zia Teresa, una donnetta contorta come i sarmenti che maneggiava, in perenne attività tra il vociare pettegolo delle clienti.

Con quattro paIate di carbonella prelevate dal forno rilucente zia Teresa riempiva il braciere e ci spingeva con mala grazia fuori dall’antro fumoso, perché non aveva tempo da perdere. “Levatevi di mezzo che qui non c’è posto per voi”, borbottava con la vocina stridula e noi che eravamo già fuori prima dell’intimazione, arrancante per la salita tornavamo alla scuola col braciere dondolante come un’altalena per avvivare la combustione.

A scuola il maestro raccoglieva in un mucchio più compatta la brace, la ricopriva con un velo di cenere perché durasse più a lungo e vi si sedeva vicinissimo con i piedi poggiati sulla pedana le mani aperte e tese per fruire di tutto il calore possibile.

Col passare dei giorni l’aria diventava gelida. Le mura dell’aula, pur così spesse, si imbevevano di freddo; dai vetri rotti filtravano tutti i venti e noi giocavamo a fumare utilizzando il fiato che a contatto dell’aria si rapprendeva.

“Singolare, plurale: questa è una castagna; queste sono tre castagne: dimmi Langone Paolo qual’ è il singolare e qual è il plurale .

Langone era assorto nel contemplare il cielo non poteva sentire. “La neve!” urlò ad un tratto. Aveva scorto il primo fiocco che volteggiava come un moscerino poi ancora uno e uno ancora. Possibile la neve se l’aria è così dolce? Se ieri sera il cielo era quasi terso con rade nuvole quasi candide? Possibile! La neve cade che l’aria è sempre immota, ma anche quella volta il segno c’era e noi dovevamo saperlo. Gli uccelli volavano basso e finivano tra i nostri piedi e poi c’erano come striature di livido tra le nubi.

La scuola, la grammatica, il maestro, tutto era

scordato in un lampo. Quei nostri visini bianchi di cera erano attratti dalla stessa parte, verso i finestroni e le piccole mani spaccate di geloni si agitavano quasi a salutare quella che pareva la bianca neve amica.

I radi fiocchi diventavano più fitti, più larghi, mulinavano in un groviglio vertiginoso che a seguirlo ti annebbiava la vista. Non era neve fradicia, quella per intenderci che si dissolveva al solo contatto colla terra, ma neve sostanziosa destinata a crescere ed asserrare in breve tempo nel bianco.

“Sotto l’acqua fame, sotto la neve pane, nella terra arato di fresco i contadini hanno sparso la semente ed ora attende che il buon Dio provveda. La neve è ‘venuta a coprire la terra, a preservare i semi fino a quando il sole farà crescere le verdi piantine e poi le bionde spighe”.

Il maestro parlava della neve come una favola bella che ci avvinceva e stupiva.

“Ed ora una poesia:” ai bimbi il verno è crudo; come all’età cadente; ahi ahi chi vi ristora; o tremanti pie- dini; di fanciulli errabondi? ; vi son dunque dei bimbi; che van scalzi pel mondo? ; interrogativo mesto e accorato che ci lasciava, poveri noi!, del tutto indifferenti. Di bimbi scalzi, nel pieno dell’inverno ne avevamo tanti nella nostra scuola: e con questo? Proviamo a contarli: uno, due, tre, quattro; Donato, Paolo, Pancrazio, Potito, ed altri ancora.

Ci guardavamo e giù a ridere come pazzi, prima fra tutti i bambini scalzi che ostentavano con una certa fierezza proprio quei piedini indicati nella poesia, sporchi di fanghiglia rappresa e bluastri per il gelo.

Leggevamo la lunga poesia con una lunga cantilena e giunti all’esclamazione “ahi, ahi,” era come un guaito che veniva fuori dalle strozze. Nel finale dell’interrogativo angoscioso del poeta veniva letteralmente cantato né c’era la possibilità che potesse essere frainteso.

Ancora un giorno di scuola: la campanella, cara voce amica aveva suonato a distesa, din, don, che pareva non dovessero finir mai. Avanti fuori, per bontà del maestro; a battagliare con la neve. Mani arroventati, visi rossi per i colpi ricevuti in pieno e corse pazze sulla coltre non più bianca, ma informe poltiglia, scivolosa, mentre i buffi compagni scalzi saltellavano qua e là come passeri o camminavano reggendosi sui talloni per attenuare il morso del gelo.

E come tutto passa, anche l’inverno che sembrava eterno perse di asprezza, anche se ci infliggeva tutt’ora nevischi e borea. Ma il suo tempo era segnato. Il programma scolastico poteva dirsi ormai svolto e non restava che passare alle ripetizioni.

Eravamo irrequieti, irrefrenabili; il maestro lo vedeva bene ma tollerava. Anch’egli pareva un uomo diverso, più curvo, meno loquace più assorto. Era stanco ed aveva una spina nel cuore. Suo figlio quasi adolescente era stato chiamato alle armi ed inviato in prima linea sul fronte di Gorizia. Donna Mariangela, vera statua del dolore, si aggirava per la casa biascicando preghiere perché Dio proteggesse il figlio. Il maestro nascondeva per pudore il suo affanno e continuava ad insegnare con lo stesso impegno. E noi che avvertivamo per istinto quella muta angoscia, c’è ne stavamo spesso silenziosi per rispetto di quel uomo che ci guidava con tanto amore.

Volavano i giorni e qualcosa aspettavamo e non sapevamo quale. Forse la buona stagione, il sole d’oro, i giorni pieni dell’estate “aprile dolce dormire” e il ritornello ronzava nella testa: ma quando torna aprile?

Un colpo di vento traditore sbatacchia un finestrone, frantuma gli spezzoni di vetro e solleva in un vortice quaderni, pennini, cenere. Ma il vento spavaldo e tiepido cavalcano nel cielo nuvole biancastre ed un uccello che pare sperduto volteggia ad ali tesi nell’aria alla ricerca di un posto che forse li è già noto, è la prima rondine venuta da lontano, un annuncio di gioia.

Quante viole gialle tra gli spacchi della torre e dei muri annosi! Peschi e mandorli bianchi e rosa sono tutti fioriti nella valle del Basento e sui colli d’intorno ed una brezza sottile stacca dai gambi fiocchi di bambagia e li spande nell’aria.

E’ maggio, il mese della Madonna di Fonti e della festa di San Pancrazio, processioni di zitelle di bianco vestite ci sveglieranno di prima mattina e le vedremo di allontanarsi nella strada nuova con i “cirri” al canto di litanie per invocare la grazia di un marito: i fuochi di Salomone; la banda di Squinzano e il gioco dell’anello completeranno la festa. Quante cose belle porta maggio.

Passeggiata scolastica: da Santa croce scendiamo inquadrati a Porta Monte e ci inoltriamo per tratturi noti cantando bravamente. A Malcanale le siepi nascondono more già mature e bacche rosse aspre da mangiare. Ronzano i calabroni nelle ore più calde, le lucertolone guizzano tra” pitre” e pietre e tante farfalle bianche volano senza posa. La terra profuma di erba fresca.

” Ecco un’asparigera” il maestro parlava parlava, questo è il grano ancora tenero, ma la campagna ha bisogno di acque, vedete com’è riarsa., quei fiori cadranno fra poco ed alloro posto “cadranno i frutti”.

Quel prato verde ci attende con l’ombra amica delle sue querce e giù per terra sul molle tappeto, per distenderci e mirare da supini il vastissimo cielo. Le provviste si esauriscono in un attimo, ora siamo intontiti e felici. Ma bisogna tornare. Quasi tramonta il sole.

Domani la scuola si chiude. Siamo agitati, euforici, incapaci di dominarci.

L’aula è un inferno di voci, di richiami, di risate cristalline. Il maestro non può nulla e nulla fa ormai per trattenerci.

L’esamino è fatto da due colleghi del maestro che fumano e scherzano anch’essi tra loro e sono in vena di gentilezze. “Bravissimi” ci ripetono ammirati dalla prontezza delle nostre risposte e completezza delle nozioni apprese. Anche la grammatica? Ma bene! sapete che la grammatica è nel programma di terza? Era vero. Il maestro si scherniva soddisfatto e gradiva come ambito pre- mio quegli apprezzamenti.

Oggi è l’ultimo giorno di scuola. “Cari ragazzi, tra poco noi dobbiamo lasciarci.” La voce turbata del maestro si ode appena del forte vocio. Siamo svagati immemori e sono ansiosi di correre in quello splendido sole del matti- no.

“Siate bravi; amate i vostri genitori e la patria; studiate e vivete onesti sempre.” era il suo vangelo predicato ogni giorno con cuore semplice pur tra i disinganni che la vita gli riservò.

“In riga per uscire”.

Addio scuola!

Sulla soglia del portone grande ci fermiamo in attesa del via che inspiegabilmente oggi tarda. “rompete le righe” grida finalmente il maestro; e mentre noi con un urlo di gioia sciamiamo nelle vie dintorno, lui resta fermo nel vano della porta, generale senza soldati, albero senza foglie e senza fiori.

Quel giorno lontano, Dio quanto lontano!, non tornai indietro, maestro, perché i bimbi non sanno tornare indietro. Lo faccio ora, che stanco e deluso torno alla mia terra antica e fedele e vi tendo le mani, dall’alto voi lo vedete, in atto di riconoscenza e di amore.

 

 

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