MICHELE MULIERI di Innocenzo, nato il 1904, piccolissimo proprietario, coltivatore diretto, falegname e rivenditore di alimentari, bevande e benzina, Contrada Piani Sottani di Grassano, Matera.

 

NOTA DI Rocco SCOTELLARO.

 

Quella parte della Basilicata, che viene generalmente chiamata l’Alto Materano, dove le ultimi propaggini delle montagne sono state raschiate dei boschi e si affacciano nude e gialle sulla nuda e gialla piana collinare di Matera, sulla Fossa Premurgiana e sulla Pianura di Metaponto, comprende alcuni paesi che rappresentarono, nell’ immediato dopoguerra, la zona grigia del risveglio contadino: Miglionico, Grottole, Grassano lungo la via Appia, e, in Destra del Basento : Salandra, Oliveto Lucano, Garaguso. Così la segnarono, e giustamente, in grigio i segretari delle federazioni dei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale. Ai limiti di questa zona, infatti, Irsina era « rossa» e dava nel 1946 i quattro quindi dei voti al Partito Comunista; Montescaglioso, Ferrandina, San Mauro Forte avevano delle agguerrite organizzazioni contadine, e Tricarico, paese del Vescovo e di preti e di monache, era il centro attivo della Democrazia Cristiana. Grigi erano quei paesi anche per la Democrazia Cristiana del 1946, battuta, malgrado tutto, dai qualunquisti di Giannini, presentato a Grottole come «il fondatore» e da monarchici.

La zona doveva essere poi battuta con tenacia dai due partiti maggiori per conquistarla all’esito delle elezioni del 1948 fino a trasformarla completamente, nel 1953, con centri di prevalente influenza comunista e democristiana.

In questi paesi allignò dapprima una sorta di qualunquismo povero, fatto di impulsi e di reazione non organizzati; i contadini continuarono a zappare la terra; i proprietari di terra, i maestri delle scuole elementari e gli ex dirigenti fascisti, criticando la nuova libertà, cautamente aspettavano di prendere posizione. Nei piccoli paesi, in questi come negli altri delle zone lucane più povere, più isolate del Potentino, la borghesia piccola e media degli agricoltori e dei ceti professionali era ed è poverissima di quadri: due, tre persone, sempre le stesse, si avvicendavano agli incarichi pubblici con noia anche da parte loro, e la lotta politica rimaneva segreta nelle case degli interessati.

La calma stagnante del fascismo fu rotta dai primi reduci dalla prigionia che vennero a raccontare la tragedia della guerra. Contadini e artigiani i più, furono essi i primi ad associarsi nel principio della sconfitta patita dall’ Italia e della sventura eterna dei loro paesi, non toccati dalla guerra, ma sempre più poveri e più abbandonati. Volevano lavoro e assistenza a costo del sacrificio dei benestanti, ma anche il ritorno alla quiete e alla tranquillità, all’ordine prebellico, e rifiutavano, pertanto, le parole d’ordine dei comunisti e dei democristiani, che furono spesso vuote e soltanto ideologiche, e significavano: «la guerra continua» per loro, disoccupati, non rientrati ancora nemmeno nell’ambito familiare, malinconici perciò e amari.

Questa amarezza entrò in circolazione più viva che non fosse mai stata prima nell’antica storia di questi paesi e aprì il conflitto tra il patriarcale scetticismo e il nuovo bisogno di lotta e di organizzazione. Mancavano i termini per una lotta vera e aperta, che veniva soffocata e covata nell’ambito di ognuno. Ognuno era n parente, un compare, un amico; ognuno aveva un pez- zetto di terra, una partita catastale o era figlio di una famiglia che ce l’aveva. E ognuno era bisognoso, anche, spesso, il sindaco e il vecchio arciprete con la tonaca unta. Chi era il nemico da combattere?

La situazione dell’agricoltura, l’ambiente sociale, la povertà economica e la ‘ pazzia’ e l’assurdità della vita in questi paesi non sono state spiegate meglio che dalle parole di un’economista agrario:

« È tutto il centro occidentale della regione – il basso Potenti no, l’alto Materano, le medie valli del Basento, dell’ Agri, del Sinni e di tutti i loro affluenti – un territorio tormentato, desolato, di nude argille, che smottano, franano, vanno al mare. È il regno quasi incontrastato del grano e della più dura fatica contadina. Quasi tutta la produzione è organizzata – se la parola non sembrasse uno scherno in questo caso – in una miriade di piccolissime, piccole e meno piccole imprese contadine, senza un centro, senza una base in campagna, legate al mulo e all’asino del coltivatore che fa chilometri e chilometri per raggiungere la terra.

In queste zone, che sono tanto frequenti anche in .altre regioni del Mezzogiorno e della Sicilia, in queste zone quella che c’ è non si può chiamare agricoltura, ma pazzia. Ci sarebbe tutto da rifare, tutto da riordinare, perché è assurdo il vivere come lì si vive; è assurdo coltivare il grano come lo si coltiva; è assurdo trattare la terra come la si tratta; è assurdo tutto. Debbo dirvi che è proprio rispetto a queste zone che è più difficile trovare una soluzione, indicare la strada da percorrere. Tanti prima di me se ne sono occupati, ed io continuamente ci vado pensando, ma una soluzione chiara non la so ancora vedere.

Si è detto prima che questi paesi, molto lentamente, si sono mossi: anche da quei contadini furono occupate le terre, anche nelle loro piazze giunsero l’impresa edile e l’ingegnere del Genio Civile a eseguire qualche lavoro di consolidamento, qualche strada; anche qui è venuto l’Ente Riforma o la « riforma lenta» come la chiamano. Ma la soluzione, non espressa e non prevista da quel- l’economista, non è ancora chiara. Anche se può essere un buon segno l’avanzata delle forze politiche democratiche con le loro organizzazioni, resistono tutti i vecchi problemi e la catena a cui s’intrecciano, sicché le soluzioni singole e individuali sono sempre rappresentative di quella pazzia e di quell’assurdo.

A Grassano è nato Michele Mulieri, la cui storia è semplicissima e complicata a un tempo come l’economia dell’ Alto Materano senza soluzione. Egli è oggi il presidente unico e assoluto della sua piccola repubblica assoluta, situata a un nodo di strade, sulla via Appia, tra Grassano e Tricarico. Qui egli è venuto a scegliere il suo domicilio come un «avventuriero ».

Chi è, in breve, questo Mulieri? Nei piccoli paesi è facile trovare ancora oggi il contadino-calzolaio, il calzolaio-barbiere, il contadino-veterinario, il falegname- contadino. Per Michele Mulieri l’artigianato toglie dalle bestie, ma l’agricoltura è pane più sicuro: egli è falegname e contadino e dei due mestieri affronta le alternative e le crisi.

In tenera età si accompagnava al padre, cantoniere stradale, sulle rotabili e in campagna, da giovane lavora in una bottega e impara il mestiere di falegname. Per imparare un mestiere qui si deve essere grato al maestro che utilizza l’apprendista persino in faccende di casa sua, e non paga. Il giovane Mulieri a 20 anni ancora è costretto a « usurpare» la famiglia, a essere a carico del padre. Nascono, per questo, i primi diverbi familiari. Finalmente riesce a trovare lavoro a Potenza presso un mobilificio, messo su da un impiegato statale. Mulìeri vi lavora alcuni mesi fino a che due fatti importanti, che si registrano per la cronaca della sua vicenda futura, non interrompono il lavoro e la permanenza in città: il 10 maggio 1925 Mulieri viene fermato dalla polizia mentre si reca, insieme ad amici, a un « piccolo passatempo », una scampagnata in carrozzella, e trattenuto fino al giungere delle informazioni dal paese; viene scambiato per organizzatore politico, egli è all’oscuro di tutto. Inoltre il padrone della falegnameria è aggravato di tasse ed è costretto a chiudere il mobilificio.

Da Potenza ritorna al paese, riparte per Roma in cerca di lavoro, incontra nel principale Fiorentino Urbano il primo uomo politico, un anarchico romano e lavora da manovale con lui per più di tre anni. Se ne torna a Grassano nel 1928, esercita «con furore» e fortuna il mestiere da falegname, si sposa nel ’30, a 26 anni, con l’attuale moglie, una contadina, e si dedica all’agricoltura coltivando 2 tomoli circa di terreno portati in dote dalla moglie ed altri tre tomoli presi in fitto. Ma egli è « sovversivo di famiglia », ha volontà di stare lontano dal paese, è sempre « esaltante », desideroso cioè di tentare le più varie iniziative, e torna qualche altra volta a Roma per rompere i lunghi anni grigi del paese con la nuova famiglia e con i figli, che ama, mentre con la famiglia paterna e con i fratelli egli ha continuamente diverbi a causa di una misera eredità.

Viene la guerra d’Africa, e in Mulieri risorge, con l’occasione, l’antica ansia di evadere, abbandonare l’am biente. «Per questioni di famiglia» egli, che è però riformato della classe del 1904, chiede di andare in Africa, ma non è nemmeno iscritto al Partito Fascista: allora chiede di essere incorporato nell’esercito e finalmente – a costo di chissà quali proteste e petizioni- sbarca a Massaua il 1937 con una compagnia di Sanità. Ma egli vuole tutta la famiglia, ad Addis Abeba: si fa trasferire in un’azienda agricola e desidera essere raggiunto dalla famiglia « in colonia ». Indirizza l’istanza a Donna Rachele Mussolini per una «definitiva sistemazione familiare in Africa» ma ottiene la smobilitazione e viene assegnato al lavoro presso il Genio Militare. Mulieri sfidava praticamente autorità militari e civili ad attuare per lui ciò che dicevano: lo spazio vitale. «Indignato per non aver potuto ottenere una stabile permanenza nell’ Impero con la famiglia », prima diserta e lavora per conto suo e poi chiede, facendosi perdonare la diserzione e lo sbandamento, il rimpatrio.

La lunga cassetta rettangolare di Mulieri, che contiene la storia della sua vita, ci offre questo primo documento di lui, non autografo tuttavia, perché un maresciallo dell’esercito tradusse in termini di istanza le infocate, alti sonanti e minacciose parole di Mulieri.

Ritornato in paese dall’Africa, riprende l’attività agricola e costruisce in bottega qualche attrezzo agricolo, qualche tavolo per i contadini.

La vera storia di Mulieri comincia con l’aperto disfacimento politico nazionale che si sente fino a Grassano, nel 1942. Avvia questa storia il certificato del casellario giudiziario: il 9 aprile 1942 Michele Mulieri è condannato a un’ammenda di L. 200 per ubriachezza manifesta. Era veramente ubriaco Mulieri? No. Egli affrontò in pubblica piazza, di sera, il Segretario politico, Ravelli Rocco, ingiuriandolo e minacciandolo: costui era il colpevole della miseria delle famiglie di Grassano e della rovina della patria. Fu denunciato, invece, per ubriachezza. Dal ’42 al ’48 Mulieri è tre volte colpevole di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, che è ora il sindaco ora il maresciallo dei carabinieri.

A Cesano di Roma, dove riesce a lavorare come carpentiere, subisce un grave infortunio fratturandosi i malleoli e la colonna vertebrale nell’aprile 1943, e di qui ha inizio una delle pratiche burocratiche più lunghe, forse, che l’Istituto Nazionale Infortuni sul Lavoro abbia mai affrontato. Mulieri si oppone ai referti medici dell’ Istituto, accetta provvisoriamente la pensione, respinge poi i vaglia fino al riconoscimento dell’infermità, ottenuto soltanto il lo giugno 1952, nella misura « del 55 per cento dell’ inabilità totale ». Il 1947 percepiva una rendita di L. 1.585, ne riceve oggi una di L. 9.320 al mese.

E per difendersi e offendere l’Istituto, oltre le minaccie scritte per raccomandata, a scadenza, ogni mese e anche ogni settimana, Mulieri escogita piani di protesta sempre più singolari.

Gli nasce l’ultimo figlio, Guerriero Romano Antonio (« Guernero perché le guerre sono attuali, Romano perché sono italiano e Antonio perché nome ricercato dalla madre»), il 7 marzo 1950. Mulieri dovrebbe recarsi al Comune a denunciarne la nascita. Il comune si trova allogato in un vecchio convento, a una punta di paese. È assediato ogni giorno dai disoccupati e dai braccianti agricoli, che ogni anno, per avere l’iscrizione agli elenchi anagrafìcì, devono ripetere i certificati di stato di famiglia. Per Mulieri il Comune non è più lo Stato, l’Istituto Infortuni, il Prefetto. Le informazioni del sindaco gli sono state favorevoli; è l’Istituto, che sta a Roma, che liquida la sua pensione. E allora chiede un’udienza speciale per la nascita del figlio: vengono, alle sue pressanti richieste, nella sede Comunale, l’arciprete, il maresciallo dei carabinieri e il sindaco, ai quali egli annuncia che è costretto dall’ Istituto Nazionale Infortuni a non denunciare la nascita del figlio. Si fa firmare dai tre poteri questa dichiarazione e la manda per raccomandata all’ Istituto.

Invano egli aspetta che quelli di Roma si muovano: ancora scrive e minaccia, e, infine, poiché ogni corriera viene la mattina e la sera senza l’attesa lettera di Roma con la nota busta intestata, torna a rimestare nella polvere d’oro della sua fantasia.

A Roma era andato le ultime volte il 1948; avrebbe voluto parlare con Scelba dei suoi problemi, della sua « miseria squallida », del suo « stato pietosissimo ». Era stato diffidato dalla Questura e rimandato a Grassano.

Non può ritornare a Roma; a Matera lo licenziano invocando la competenza di Roma; a Grassano non ha più dimostrazioni da fare, e l’autorità e il popolo conoscono la sua storia già mille volte raccontata; dappertutto e a tutti ha dichiarato che la sua unica risorsa è la galera o il manicomio, dove solo potrebbe aver riposo e scrivere la sua storia.

Esaurita ogni giorno la carica esplosiva delle sue proteste nel paese della « pazienza contadina»[1], Mulleri aveva anche le sue lucide iniziative.

Compra un terreno, con 80 mila lire, al bivio di Grassano. Vi passano le corriere: Potenza-Matera, Grassano-Scalo, Irsina-Calle- Tricarico, Tricarico-Scalo, Accettura-Bivio Grassano. Per le coincidenze, mattina e sera, all’ incrocio delle tre strade, sostano i viaggiatori, infreddoliti d’inverno, fanno una piccola folla. Inoltre la Cassa del Mezzogiorno sta bitumando la strada di bonifica che va da Piani Sottani a Calle e i manovali con i loro attrezzi sostano anche loro a quell’ incrocio; c’è poi la masseria del «Cammasciurese »[2] con 37 persone, più in là le altre masserie di Bronzini e Spagna.

Michele Mulieri, comprando il fondo da Bronzini, asseconda i suoi istinti elementari della protesta e dell’ordine: starà lontano dal paese e coltiverà la terra, vivrà la sua solitudine, metterà un posto di ristoro per i passanti.

Ottenuta dai proprietari la promessa di vendita e avendo versato la somma di lire 40.000 di anticipo, Muieri si mette al lavoro e dai primi suoi movimenti su quel pezzo di terreno staccato ai margini di una grande estensione a seminativo, senza un albero, i contadini si accorgono delle intenzioni lungimiranti del Mulieri, che affonda i muri di fondazione per una casetta isolata.

I proprietari si pentono della vendita e chiedono al giudice di rescindere il contratto e intentano causa a Mulieri per questo: il fondo, secondo loro, deve essere venduto come suolo edificatorio e quindi a un prezzo superiore a quello convenuto di L. 80.000, per l’aumenato valore.

Mulieri si difende senza avvocato, si presenta nell’aula della Pretura con un tabellone scritto, in cui si accusano i proprietari di non mantenere la parola data. Arriva a togliersi le scarpe e a spogliarsi per mostrare al Pretore la sua invalidità. È scacciato dall’aula dalla forza pubblica, ma infine vince la causa.

La casetta fu costruita nel corso dello stesso anno, il 1950, in pochi mesi, sul fondo di 0,60 ettari. C’è un piccolo spaccio di generi alimentari e di bevande: pasta, lenticchie in una botticina di vetro, qualche barattolo di pomodoro, qualche scatola di sardine, caramelle, e sette, otto bottiglie di liquori, le bottiglie di birra Peroni e di gassose. Non occupa in tutto quattro metri quadrati. C’è una tavola, alcune panche, il bancone. Dietro il bancone una tela divide tutto il vano: oltre la tela vi è una specie di retrobottega per deposito delle cassette di birra e per dormirci la notte, o qualcuno di famiglia o qualche contadino ortolano di Grassano, che col mulo va a vendere verdure e frutti al mercato di Irsina lontano 34 chilometri e di Tricarico lontana 16 chilometri. e può chiedere asilo.

Dal retrobottega, attraverso una porticina, si passa nella casa di Mulieri, che ha però l’ingresso principale attiguo a quello dello spaccio. La casa è un vano a tetto di legno spiovente sulla destra: qui il gran letto matrimoniale, un lettino per i tre figli, la focagna, gli attrezzi agricoli, una sega da falegname, il sacco della farina, il barile di legno per l’acqua, e in alto, al soffitto, un gran pezzo di lardo di maiale, unica insegna sacra e profana. L’ambiente è nero perché la focagna è nell’angolo, in fronte all’entrata principale, fatta con tavole non lavorate come lo sono quelle della porta dello spaccio. La costruzione, opera dello stesso Mulieri, risente delle caratteristiche dell’ insediamento rurale in queste zone: in un pagliaro, in una casa di pietra che non sia la masseria padronale, il contadino organizza nel modo migliore il ricovero per gli animali, mentre egli con la sua famiglia si arrangia e si accomoda. Seguendo questo criterio, Mulieri ha costruito sulla facciata dello spaccio un frontone a larghissimo arco, come un cappello di prete: «Ristoro dell’ Anno Santo» vi è scritto a grossi caratteri. Sulla porticina c’ è il numero civico di un paese o borgata inesistente: 1.

Il 1950 era l’Anno Santo. Mulieri non spiega bene perché ha chiamato « Ristoro Anno Santo» il suo spaccio. Forse avrà accettato il suggerimento di qualche signore per presupposti fini turistici; forse, ed è più probabile, egli stesso, sentendo parlare di Anno Santo, ha voluto consacrare con quell’ iscrizione l’acquisto del fondo, la costruzione della casetta, la nuova libera vita.

Oggi dice che quell’ iscrizione vuol significare che si combatte contro i diavoli. Dopo la causa, infatti, breve è la pace di Mulieri: impianta la vigna, semina un po’ di grano, ripara gli attrezzi le pale e i picconi ai manovali, ottiene di vendere benzina e nafta in bidoni, e la gente lo saluta passando.

Egli è ora più forte per tempestare di lettere l’ Istituto per gl’Infortuni, al quale fa sapere come si reca onore all’Ittalìa col lavoro: protesta, ora, si può dire, compiacendosene.

Ma ecco il censimento. Si presentano a Piani Sottani gli ufficiali di censimento. Le autorità sanno dunque, quando vogliono, la sua esistenza; non si curano, invece, delle sue istanze per la pratica della pensione. Si rifiuta di rispondere alle domande di questi ufficiali.

Finalmente la pensione arriva – come si è detto sopra – nel 1952. Ma non pertanto la lotta tra Mulieri e le autorità si arresta.

L’Acquedotto Pugliese deve eseguire nella zona lavori per la posa di una condotta supplementare da una sorgente locale per portare acqua al paese. Viene tracciata la trincea, che, invece di seguire la strada rotabile, passa nel fondo di Mulieri e lo spacca proprio davanti la casa. Nessun decreto di espropriazione viene notificato e, soltanto con la forza, con i carabinieri (« uomini di cartone »), i lavori si eseguono. È un’usurpazione, protesta Mulieri.

Poi si calma per le promesse esplicite del Vice-Presidente dell’ Acquedotto Pugliese, di Grassano anche lui, candidato alla Camera e politico, «mercante fallito». Infatti le promesse sono vaghe e non si avverano: da quelle di concedergli l’attacco dell’acqua a quella di impiegare presso l’Acquedotto il figlio grande, che lavora a Torino.

I problemi di Mulieri sono oggi affidati a queste pratiche: per la concessione di una rivendita di tabacco in quella zona; per occupare sempre nel suo terreno, ma più vicino alla strada, il posto per la vendita della benzina con l’autorizzazione – già negata – dell’ Azienda Autonoma Statale della Strada; per l’iscrizione del figlio, non denunciato, ai registri di nascita del Comune, che è diventata questione di competenza del Tribunale.

Le tasse raggiungono Mulieri anche a Piani Sottani, nella sua repubblica. Ha risposto all’ Acquedotto costruendo in pochi giorni un pozzo da una falda superficiale. Risponde al governo e alle autorità impiantando il così detto « Campo storico»: in un pezzo del terreno, vicino alla via nazionale, ha piantato filari di piante e ogni filare è dedicato agli infami, ai ladri, ai barbari. e ogni pianta a un personaggio politico governativo.

Egli vive ora zoppicando dallo spaccio alla strada per la vendita della benzina e coltivando il terreno; vive, come lui dice, «da vivo italiano ».

Michele Mulieri non sarà mai abbastanza delineato come tipo da un qualsiasi profilo che qui si volesse tentare, tanto parla da sola la sua storia e tanto più ancora è inconfondibile la forma letteraria, che quella storia assume nelle parole e nei motti scritti. I precedenti dell’oratoria ardente di Mulieri sono da ricercarsi nel carattere ribelle di lui, nella sua ispirata diffidenza per il mondo, nella maniaca ricerca di un ordine negli uomini e nei fatti, nel principio di autorità, vanamente e affannosamente ricercato, che dovrebbe presiedere alle cose, alle famiglie, ai paesi, alla nazione.

Sui più vari problemi sociali, politici e religiosi egli è fermo nelle sue idee semplici e chiare, la cui forza sta nell’espressione più che nella logica. Questa forza lo porta a fare le « dimostrazioni» con i cartelli-manifesti attaccati al collo, con la cravatta nera, che potrebbe essere e non è un ricordo anarchico, essendo, invece, il segno del lutto del cittadino «per gl’ infami ladri e barbari che mansionano la bella Italia del tempo di oggi ».

La letteratura di Mulieri proviene dai libri della scuola elementare, alla cui lettura egli si è arrestato, e si carica del «bel parlare» che si usa nelle città, da Potenza a Roma, e che si sente dai signori, dai professionisti, dagli uomini di studio avvicinati e conosciuti.

Il periodo di Roma e la conoscenza dell’anarchico Urbano Fiorentino devono avere massimamente influito su lui. Ma è sorprendente notare come gli sia rimasto diretto, breve, concitato, ed esplosivo il linguaggio : motti egli chiama i suoi scritti che rimproverano il Prefetto e gli impiegati d’incapacità e che bollano lo scombìno d’Italia; sono davvero, come lui dice, così «pesanti» che ogni ragguaglio di provenienza e di ispirazione dalla letteratura diventa malsicuro.

C’ è qualcosa che stranamente rimette la memoria ai pezzi predicatori esistenti in tutta la nostra letteratura nazionale; c’ è qualcosa che ci ricorda addirittura Leopardi de La ginestra o il fiore del deserto.

Dipinte in queste rive

son dell’umana gente

le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,

secol superbo e sciocco …

La mania esibizionistica della protesta isolata e personale accomuna il nostro Mulieri alla donna di Roma, strillona di giornali, che si aggirava gridando le sue frasi e non i fatti del giorno: – Noi siamo anarchici, evoluti e coscienti! -; lo accomuna ai « posteggiatori» (cantanti) di Napoli, ai poveri notturni di tutta Italia, che nell’ubriachezza inventano la loro teoria del mondo; al prete di Avellino Giuseppe Longo che lanciò il cartello « Il peccato chi lo fa lo paga prima qua e poi là ».

Ma non c’ è paragone. Mulieri non è mai sceso a dimostrare per qualcosa che non lo riguardasse direttamente, non è andato in luoghi diversi dalla Pretura, dal Tribunale, dove era citato in causa, dalla Prefettura, dove si recava per muovere quelli che « si vestono della parola gigante, la legge ». Infine Mulieri non è matto e non vive di espedienti. È piuttosto preso nella rete della conoscenza complicata delle cose, dei problemi e ci si dibatte con l’umano dissapore del povero savio.

Le storie che racconta le dà per sapute al suo interlocutore che può essere il Prefetto o il Presidente della Repubblica, il sindaco o l’arciprete, il politico o il carabiniere, l’estraneo o la moglie e suo figlio più piccolo; e quindi ripetendole le declama sempre col linguaggio predicatorio e violento usato anche per i fatti semplici.

È difficoltoso, bisogna aggiungere, per scusare parzialmente le intontite autorità, entrare nei suoi problemi, che per lui sono così semplici. La loro ripetizione monotona, anzi, dà motivi dominanti quali «infami, ladri e barbari », «nobili ignoranti» riferiti alle autorità, e « grande avventuriero, uomo di dovere, e vivo italiano» riferiti a se stesso.

Questa ricorrenza dei motivi dominanti, espressi anche in poesia, dimostra l’antinomia della concezione del mondo e della vita in Mulieri : la classe dirigente italiana è inferiore, per intelligenza e sensibilità, ai suoi compiti di governo; il popolo è « balocco e scemo» perché crede che pur nella corruzione, nell’ infamia e nella barbarie quei « nobili ignoranti» siano in grado di appagare la giustizia, e perciò si fa «trastullare» dai politici come dai «mercanti falliti ».

Egli, Mulieri, perciò resta se stesso: grande avventuriero a tentare tutte le vie per ristabilire l’ordine e l’autorità, e, soprattutto, per ottenere il riconoscimento delle sue giuste richieste, limitate – come vedremo – a poche pratiche burocratiche, la cui semplicità e giustezza vengono, come in un giuoco tra pazzi, complicate dalla macchina burocratica; egli resta uomo di dovere anche quando non intende pagare le bollette del dazio per il vino che vende, perché dimostra la scelleratezza di un simile sistema fiscale; egli è un «vivo italiano» rispetto a quanti si piegano ai «nobili ignoranti ». Da così rudimentali concetti si alternano fino a confondersi la ribellione anarchica e il principio di autorità, la concezione della democrazia come disordine e l’aspirazione aperta al fascismo, la lotta alla burocrazia, che occorre intimorire e sfottere per piegarla alle richieste giuste, e l’antico lamento delle petizioni alle autorità, la diffidenza ma anche l’alleanza col potere e con i proprietari. Egli vota per il MSI, ma non si dichiara missino, perché non ha fiducia nei partiti che « devastono l’Italia»; egli è un anarchico per lo spiccato individualismo delle sue lotte e delle sue «dimostrazioni» contro la legge «gigante» dello Stato e della Chiesa, ma per ogni pratica intavolata per questo o quel motivo indirizza proteste e petizioni al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, al Prefetto, agli Onorevoli, ai capi ufficio, conservando per ogni lettera il foglietto rosa della raccomandata con ricevuta di ritorno; arriva, per protesta, a non denunciare la nascita del figlio, ma richiede la testimonianza del suo gesto illegale al sindaco, all’arci prete, al maresciallo dei carabinieri; egli è un assetato di giustizia, ma non si cura del popolo che è «balocco e scemo ». In queste condizioni, essendo più valida nell’animo di Mulieri la coscienza della propria sorte di avventuriero sventurato, non potendo affidarsi a nessuna bandiera politica per il naturale ritegno di compromettersi e quasi di capitolare con le sue idee, per il bisogno, rispetto a chicchessia, egli ha scelto come sua arma di combattimento il Tricolore repubblicano, listato però a lutto e puro solo nella piccola repubblica assoluta della sua casetta al bivio di Grassano.

Come è potuto avvenire che ci sia, in Italia, la repubblica di Mulieri? È la storia, ancora per grande parte inconscia in lui stesso, di queste terre abbandonate. È storia, anche quella di Mulieri, dei meridionalisti meridionali accalorati e scettici, ragionatori impetuosi e poeti: tra Guido Dorso e Michele Mulieri non c’ è evidentemente paragone da stabilire, tuttavia forse hanno lo stesso terreno di cultura e la stessa forza le definizioni del prefetto, «architrave dello Stato» per l’uno, «ras di provincia» per l’altro.

Che cosa vi è di giusto e di promettente in questo « povero savio e savio povero, ridotto a vivere più ordinatamente di una formica» in una casetta di campagna?

Ecco la risposta di Mulieri: «La vita è una storia, ma da farla, il mondo è un passaggio. Passando per il mondo bisogna lasciare la propria traccia. Ammetto che Dio è passato per il mondo e anche noi passiamo in male e in bene. Può darsi che dopo morto il male può diventare bene».

Il male può diventare veramente bene, come le piante degli infami, ladri e barbari daranno certamente i frutti e saranno i primi di Piani Sottani. Nelle terre confinanti col fondo di Mulieri, espropriate dall’ Ente Riforma, i motori, molto tardi, hanno appena incominciato a ronzare.

 

 

 

 

[1] CARLO LEVI, Cristo si è fermato a Eboli.

[2] l’uomo di Campomaggiore, un paese della provincia di Potenza

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