Quant iè bell paprascià! Paprascià è la forma verbale dialettale che deriva dalla ellissi della voce papera e indica il rimprovero, che ironicamente si muove principalmente alle donne, di gironzolare come una papera senza combinare un bel niente. Tutta stamatin si sciut paprasciann.

Non racconterò di donne che andavano paprasciann, ma momenti di gioia di un tricaricese emigrato, che dopo alcuni decenni si era potuto concedere una vacanza a Tricarico. In questo caso andavamo paparasciann la persona che intendo ricordare (e chiamerò Paprasciann, perché fu l’inventore della suddetta espressione come inno di gioia), Antonio Albanese, suo fratello Nicola e io, che feci parte della compagnia nei pochi giorni che in quel periodo trascorsi a Tricarico.

Paprasciann sembrava un sosia di Mickey Rooney: era basso e tondo, una rada corona di peli cascanti sulla nuca gli circondava il lucido cranio, sotto il quale spuntava il pallino rosso della punta del naso.

Se i veri Maestri insegnano come le parole coincidono con le cose, i pensieri e i sentimenti, il fatto che ha Paprasciann come protagonista dovrebbe essere ricordato con le parole in dialetto, e col suono di quelle parole che uscivano gioiose dalla sua bocca stampata sul suo faccione felice. Non essendo possibile, spero che, con la sua ironia, supplisca l’improvvisato soprannome.

Paprasciann, come ho detto, era tornato a Tricarico dopo alcuni decenni per trascorrere una vacanza concordata con Antonio Albanese. Egli era di qualche anno più grande di Rocco Scotellaro, di cui era stato molto amico negli anni giovanili. La guerra e l’emigrazione lo avevano tenuto lontano da Tricarico per quasi tutta la sua vita e giorno dopo giorno aveva coltivato nel pianto una penosa nostalgia.

Antonio Albanese, in occasione di un suo viaggio in America e della visita che rese a suoi parenti in California, era andato a trovare anche Paprasciann, che abitava a pochi chilometri da San Francisco, dove i suoi figli gestivano una moderna e avviata officina meccanica. Paprasciann, pensionato, li aiutava come poteva, ma poteva poco perché non conosceva neppure una parola d’inglese. Eppure di parole inglesi ne aveva imparate tante quante bastavano per sostenere una essenziale conversazione nella lingua del nuovo mondo. Aveva, infatti, imparato l’inglese/americano quando in America c’era stato come prigioniero di guerra. La prigionia non fu dolorosa come l’emigrazione. I prigionieri vestivano divise dell’esercito americano, senza segni distintivi e con una grande P.W. (prisoner of war = prigioniero di guerra) stampata sulla spalla. La divisa da prigioniero, in tessuto di ottimo cotone americano e buon taglio, con pantaloni lunghi al posto dei pantaloni alla zuava, mocassini al posto dei vecchi scarponi, calze di cotone al posto delle pezze da piedi, abbandonate le fasce arrotolate alla gambe e tendenti a srotolarsi, smessa la vecchia divisa in panno di ginestra rigido, ispido e pungente, dava loro un senso di pulizia, di freschezza e persino di libertà.

I prigionieri avevano la libera uscita e potevano liberamente passeggiare in mezzo alla gente, guardando col naso all’insù i grattacieli di Manhattan, organizzavano feste da ballo, alle quali partecipavano ragazze italo-americane, vi partecipavano anche le mie cugine, che mi hanno raccontato quelle serate danzanti; le ragazze si divertivano a insegnare ai paisà l’inglese, piuttosto che parlare in italiano. Si mangiava bene e a sufficienza, anche se mangiare tutti i giorni pollo d’allevamento e non ruspante come si mangiava (qualche volta) a Tricarico, aveva stufato.

La prigionia, dunque, non fu dura, ma lunga, e la nostalgia era vissuta serenamente. Paprasciann rimpatriò nel 1946.

Dopo qualche anno emigrò in California. Il definitivo ritorno in America fu per lui uno strazio. Dal momento dello sbarco nel porto di New York, durante i tre giorni del viaggio in treno per la California, e ancora per una decina di giorni successivi, Paprasciann pianse disperatamente e le sue lacrime lavarono tutte le parole d’inglese che aveva imparato quando era prigioniero, e le cancellarono. Dopo si rifiutò di imparare una sola parola. La sola lingua che parlava era il tricaricese.

Una volta, per quietarlo gli dissi: – Rocco ha scritto una poesia che dice: la mia patria è dove un filo d’erba trema -. Paprasciann mi rispose: – U fess ca er Rocc. Chesta nosst iè l’erv, st’erva malp’sciata. Nda California n’gi erv, l’erva ié d plast’c. Io vogghio st’erva malp’sciata -. Me lo disse con tono che non ammetteva repliche e con risentimento.

Paprasciann aveva ragione, io avevo sbagliato pensando di alleviare il suo dolore con un richiamo sentimentale, che non poteva capire. La poesia alla quale mi ero riferito è La mia bella patria, che Vitelli attesta pubblicata nel 1949 e io ricordo che lessi forse in quello stesso anno su non ricordo quale rivista.

           Io sono un filo d’erba

               un filo d’erba che trema.

             E la mia Patria è dove l’erba trema.

               Un alito può trapiantare

               il mio seme lontano.

E’ destino di noi lucani essere trapiantati lontano con un alito. Paprasciann esagerava e la sua esagerazione era un errore che aveva reso infelice o venata di intima tristezza la sua vita. Ma non riuscivo a dargli torto per la reazione che aveva manifestata. Della poesia di Rocco anch’io non ero riuscito a capire il motivo ispiratore. Il concetto di Patria, che Scotellaro scrive con la P maiuscola, indica una entità politica e morale e perciò non mi pare che si concili con il concetto di cittadino del mondo, né col principio universalistico socialista, che esprime l’unità della classe operaia e non un generico amore universale.

In E’ fatto giorno la poesia è inserita per scelta dello stesso Scotellaro nella sezione La Casa con poesie come La ginestra, Il grano del sepolcro, Viaggio di ritorno, Il vicinato, Passaggio alla città, Al padre, Il Morto; su E’ fatto giornola rilessi con uno sguardo diverso, sembrandomi che con questa collocazione Rocco avesse inteso affermare la centralità del paese. Il proprio paese, che si abbandona per la crudeltà del destino o per esigenze di vita o per libera scelta o per vocazione, vuol dire, come scrive Cesare Pavese ne La luna e i falò, non essere soli, vuol dire sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.

 

 

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