RACCONTI, DICHIARAZIONI E SCRITTI DI MICHELE MULIERI.   Là c’ è la tabella dell’ Ente Riforma e qua ecco la mia insegna, innalzata in questa repubblica:

Figlio del tricolore ma

Pieno di dolori burocratici

Avventuriero grande invalido

Mulieri

  Sono italiano, ma l’Italia è mansionata[1] da infami, ladrie barbari; gli enti e gli uffici mi hanno riempito di dolori e io ho affrontato la sorte menandomi all’avventura in quest’aperta campagna pure essendo un grande invalido del lavoro. Fui infortunato il 16 aprile 1943 con frattura del malleolo di due calcagni e della colonna vertebrale alla seconda e terza lombare. E perché mi è avvenuto questo infortunio? È un infortunio di patria, subito per l’onore della patria. La mia storia è lunga. Mi sono insegnato un mestiere, falegname, dopo aver subito una malattia nel 1915-18. Io lavoravo in ferrovia e in tenera età andavo in campagna a giornata per lavori agricoli; la malaria non era combattuta in queste zone, io mi sono cotto di malaria e posso dimostrarlo: sulle mie carni e pelli tengo delle cicatrici di iniezioni di chinino. Allora mi volli insegnare un mestiere. Per la famiglia abituata ad avere una resa di guadagno ogni giorno, insegnandomi io il mestiere la resa si paralizzò e la famiglia mi doveva sostenere a mangiare e vestirmi, mentre già avevo un’età da 17 a 20 anni: allora nacque il diverbio di ruggine perché alla mia famiglia gli dispiaceva di darmi da mangiare e il maestro non ti paga in queste zone, devi usurpare la famiglia: con i patti fatti tra la mia volontà e il maestro, che mi mise in via di mestiere, io dovevo essere un « maestro» [2]alla partenza per soldato. Andato soldato di leva, il soldato non l’ho fatto: andato al 22° Fanteria – Pisa, e stato 18 giorni sotto rassegna, non ero più idoneo, ma rivedibile per deficienza di torace. Ritornato in casa ho dovuto avventurarmi alla cerca della mia sorte perché la famiglia non mi governava più: quelli erano i patti. Me ne andiedi a Potenza a lavorare sotto un termine di una diecina di mesi: ricordo anche il padrone, Raffaele Lombardo, telegrafista, impiegato nativo di Brien za, che faceva mobilificio in piazza Liceo con operai. Guadagnai modestamente cacciando la vita. Me ne andiedi via perché l’aggravarono di tasse, e mise chiusura; aveva messo la sega elettrica, io ero un fiduciario. E allora, era il 1°maggio, stando a spasso, credemmo di andarci a fare un piccolo passatempo fuori Potenza, sotto il ponte di Montereale con vari amici. Eravamo sette persone, prendemmo una carrozzella in piazza Prefettura e la questura, sospettando una sommossa di antifascisti, ci pedinò. Come arrivammo a una casa conosciuta da un amico che teneva una ragazza che vendeva vino familiare, un camion ci venne appresso: non ci fecero nemmeno scendere, ci portarono in questura. Gli altri, cittadini, tutti uscirono a mezzanotte dalla questura, io forestiero no, per le informazioni, ma io ero all’oscuro di ogni cosa. Allora mi avventurai a Roma. A Roma ho lavorato in vari posti, nei tempi miei, che non potrei adesso tanto ricordare e segnalare. Lontano dalla famiglia e trascurato nello scrivere, ho avuto finanche un’amante credendo in una sistemazione sulla località di lavoro, a Roma. Essendo che ero di tenera età, non maggiorenne, per sposare ci voleva il consenso dei genitori e quelli non me lo davano, ma tanto anche l’amante. era cattiva e la lasciai. Essendo un tipo libertino di gioventù, l’ ho conosciuta per tramite di una famiglia dove io abitavo e dove lei veniva. Avevo il letto in affitto in questa casa e capitava di parlare con lei: le amicizie si pene trano giusto nel parlare, era una bella donna formata, ma gli andamenti[3] non erano che potevano seguire la mia compagnia, benché le avessi fatto la promissione di sposarla dopo tre anni di età matura, a 25 anni. Non mi seguiva bene, tanto è vero che una volta che s’incontrò con un mio fratello maresciallo dell’esercito (che partito da Foligno, aveva cercato di trovarmi a Roma e, anziché trovare prima me, aveva trovato prima lei) lo calunniò dicendo che mio fratello voleva agire con lei. Lei era poi di mala abitudine, bazzicava tutte le settimane il Monte di Pietà con la roba mia e io il sabato l’andavo a riscattare; ma aveva la tattica, perché la domenica mi dovevo vestire, e il sabato io portavo la paga. Dopo sei mesi convissuti assieme tutto finì e il mio principale, Fiorentino Urbano primo anarchico, sofferente anche lui di dispetti di mantenuta, mi portò a lavorare a Ciampino: – Basta, con quella non devi bazzicare -. Era maestro di mestiere e di buone idee era il pane dell’amicizia. L’anarchia non l’ho raccolta come idea ché a quel tempo non ero applicato alla politica. Fiorentino era il primo uomo politico che incontravo, massimo contrario alle ingiustizie, a noi ci trattava bene, ci stimava. Più di tre anni con lui. Il 1928, alla fine, mi ritirai a Grassano con pochi soldi. Mi misi bottega da falegname, feci furore e mi sposai il 1930, nel febbraio, perché c’erano nuovamente diverbi nella mia famiglia che mi invidiavano avendomi visto di avvantaggiare. Anche mia moglie era malme nata in famiglia, lei contadina: credemmo di unirei e da allora i prodotti di campagna non li abbiamo mai abbandonati, con buona volontà unita. Mia moglie ha avuto degli appezzamenti di terreno di sua proprietà, un tomolo e un quarto, che era seminativo; noi l’ab biamo sempre seminato, giusto la richiesta della località, maggese prima e seminativo dopo, e lavorato di propria mano. In più ho seguito la ricorrenza antica del fitto, prendendo in fitto le terre di altri proprietari in altri posti e coltivandole a legumi. C’erano i proprietari e anche certi affittuari che chiedevano a me di seminare e zappare la terra per legumi – tutto il lavoro a carico mio e poi divisione a metà – perché loro non riuscivano a sopportare tutte le spese di lavoro, e sono stato sempre in mezzo a queste coltivazioni leguminarie arrivando a fare in fitto fino a due, tre tomoli di terreno. Mi incoraggiava mia moglie con la sua piccolissima proprietà e così mi sono sempre disteso nell’agricoltura che è il pane più sicuro, e nel 1934 ho avuto la piena volontà di comperarmi finanche un somaro. Con le amicizie avute, mi sono accanito alla semina, aiutato in questo perché, servendo la casa del commendatore Enrico Materi, grande proprietario, in qualità di lavoratore in mestieri di casa e di campagna, lui affezionato della mia attività, ha disposto nella sua proprietà e al suo amministratore di farmi fare per più anni tre tomoli di semina: la sincerità è questa per l’aiuto avuto. Tutti i lavori a mano erano fatti da me con la famiglia. Nel 1940, avendo avuto la quietanza per la piena proprietà degli appezzamenti di terra di mia moglie, io ho cercato di edificarli in vigneto e alberati, maggiormente affezionato all’olivo, che ne tengo già olivi di frutto da me piantati. Anno per anno mi è seguitata l’affezione del mio lavoro in campagna per costituire il vigneto con piante varie dei bisogni di casa: mandorlo, fico, ciliegio. Continuai a fare il falegname molte volte sì, altre volte no, perché il mestiere non rende, rende a chi ha dei favolosi capitali. Io stavo sempre esaltante, tutti gli anni ho fatto i salti miei ché non mi è piaciuto mai l’ambiente di queste terre misere. Allora me ne andiedi in Africa all’avventura, scritta in questo documento dettato a un maresciallo. « lo sottoscritto Mulieri Michele di Innocenza e fu Calabrese Maria Lucia nato a Grassano (Matera) il 13 aprile 1904 ivi domiciliato, proveniente dalla ditta Genio militare Addis Abeba, giunto al campo il 26 luglio 1939 per rimpatrio a domanda, espongo al Comando del campo alloggio di Mai Habar quanto appresso: Sono un riformato della classe 1904, non appartengo ad alcun partito, solo iscritto ai sindacati agricoli e falegnami del mio paese. Scoppiata la guerra italo-etiopica, per questioni di famiglia chiesi ripetutamente di poter venire in Africa come operaio e anche come soldato. Non essendo iscritto al P.N.F. non mi fu possibile poter venire in qualità di operaio e allora chiesi ed ottenni il richiamo alle armi e fui incorporato al 16° Fanteria di Cosenza il 10 dicembre 1936. Dopo un mese di permanenza al 16° Fanteria fui trasferito alla 6a compagnia Sanità in Bologna con la quale presi imbarco a Napoli per l’A.O.I. il 18 aprile 1937. Sbarcai a Massaua il 28 successivo e col mio reparto fui destinato ad Addis Abeba 2° aliquota Magazzino sanitario di corpo d’Armata. Quivi prestavo servizio in qualità di falegname e percepivo il comune assegno giornaliero di L. 5 + 0,75 % d’indennità di lavoro. La mia famiglia in Italia percepiva regolarmente il sussidio. Verso il mese di settembre-ottobre chiesi ai superiori un consiglio per far venire in Addis Abeba la mia famiglia, ma, siccome ero militare, mi risposero che era impossibile. Nel febbraio del 1938 accettai l’interpellanza del Comando di essere trasferito nell’azienda agricola. Questa interpellanza favoriva il mio desiderio qual’era quello di farmi raggiungere dalla famiglia in colonia. Ma nessuna risposta. Nei primi di marzo del ’38 scrissi ed inviai a Donna Rachele Mussolini un’istanza con la quale chiedevo una definitiva sistemazione in Africa. In seguito a tale istanza fui smobilitato il 28 aprile 1938 ed assegnato all’Ufficio centrale Genio militare con sede in Addis Abeba. Chiesi il contratto di lavoro per la durata di anni due, onde potermi far raggiungere dalla mia famiglia, ma non l’ hanno voluto fare asserendo che non potevo farlo. Vi ho lavorato fino al mese di ottobre e non avendo ottenuto la richiesta me ne andai per mio conto in cerca di lavoro in altre ditte. Assentatomi di mia iniziativa dal Genio militare venni a trovarmi disoccupato, e siccome avanzavo delle competenze scrissi al Comando varie lettere per essere definitivamente liquidato. Il sig. colonnello Riccardi imbattutosi in Addis Abeba, per pura combinazione, con me, mi portò in macchina in ufficio, telefonò a un brigadiere dei carabinieri, il quale giunse subito dopo in luogo e, non avendo riscontrato alcuna mancanza suscettibile di punizione, non prese contro di me alcun provvedimento. Il 5 dicembre 1938, fui riassunto a lavoro presso lo stesso Genio militare. Siccome avevo l’impressione di essere sotto sorveglianza da parte del capo-cantiere, dopo pochi giorni chiesi ed ottenni il ricovero all’ospedale di Addis Abeba. Vi rimasi degente fino al 20 successivo. Nel mese di gennaio 1939 inoltrai domanda di rimpatrio diretta al Genio militare, ma il sig. colonnello Riccardi mi strappò la domanda dicendomi che prima di rimpatriare avrei dovuto lavorare a cottimo nel predetto Genio militare onde riuscire a fare alcuni risparmi, e così lavorai fino al 20 luglio successivo. Finito il cottimo, il sig. colonnello Riccardi non mantenne la promessa di farmi raggiungere dalla famiglia, e così, stanco di stare per lungo tempo lontano da essa, mi son deciso di fare domanda di rimpatrio. Espongo quanto sopra perché indignato per non aver potuto ottenere una stabile permanenza nell’ Impero con la mia famiglia. Mai Raber, li 7 agosto 1939 – XVII. L’Esponente Mulieri Michele. » Tornato dall’ Africa, mi dovevo comperare una casa: un’altra avventura. La casa la tengo pure in paese. Per i lavori alle terre di mia moglie, quando è tempo, lascio il Bivio e vado in campagna a Grassano in contrada Marruggio e Telea, vicine al paese e distanti sette chilometri da qui. A Grassano ho la casa normale di una sola stanza in affitto per 5 mila lire all’anno, di proprietà della Chiesa, e là andiamo mia moglie io e i figli per servizi e quando è tempo di lavoro nei terreni vicini al paese. La casa suddetta me la dovevo comprare. Ne è avvenuto che, essendo stato in Africa e avvantaggiato di qualche migliaia di lire, ero in proposito di sistemarmi la compera di una casa. Piaciuto il posto della suddetta strada, via Forno, ampiosa, larga e strada processionale con l’area sopraelevabile libera da poter migliorare la edificazione, mi intromisi alla richiesta del bando pubblicato per il paese dal banditore il 1940. Stabilito un compromesso e stretti i patti con documenti redatti dall’arciprete Giuseppe Candela, che non mi volle fare la doppia copia originale, ma una sola copia che la doveva tenere solo per lui; prezzo stabilito L. 6.750- come valuta media vociferata senza stima giuridica, ma voce del popolo che tanto poteva valere; datogli 3.000 lire di compromesso con patti stabiliti, da lui proposti, senza raddoppio di caparra, se il fallo veniva dalla sua direzione (ché lui doveva distribuire la notizia della vendita al vescovo di Tricarico e alla Santa Sede di Roma); e se per me veniva un cambiamento di idea la somma da me anticipata era stata perduta. Lunghi anni si è durato per una risposta del caso citato per la autorizzazione predetta del vescovo e della Santa Sede. Poi, venuto il ’43, l’arciprete fece proposito di vendere quella casa e comperare un fabbricato unito a quello per costituire un asilo infantile, ma, per mali rapporti fra loro sacerdoti e ricorsi fatti al vescovo, la risposta nel 1943 venne negativa sia di vendita sia di compera. Io, intanto, pur avventurandomi ai duri lavori di guerra in Africa e poi in Italia a Cesano di Roma, dove andiedi a lavorare come carpentiere nel 1942, non ha avuto nemmeno la sistemazione di casa in Cesano. Mussolini doveva costruire una città chimica perché tutto veniva a pace: doveva essere una città chimica di benessere della patria, così si diceva, profumi e medicinali, ma allora era per materiale di guerra. Io, vedendo che si doveva costruire questa città e che c’erano molti lavori da eseguire, obbligai la mia moglie, fresca partorita del mio Salvatore, proclamando la mia volontà fra tanti amici di lavoro, di recarsi a questo Cesano per l’acquisto di una casa nella nuova città e per finire la nostra stabilità di famiglia a Grassano. Dati il tempo invernale e l’epoca, e poco esperta dell’idea, mia moglie ha voluto aspettare la primavera per muoversi e mi ha raggiunto il 1° aprile 1943, promettendo alla propria madre di non abbandonare la proprietà in paese e di non aderire alla mia volontà ma di ritornare a Grassano per il conforto di essa madre. Tuttavia, avvenuto l’infortunio il 16 aprile 1943, che c’era pure mia moglie e i due maschietti, per il disagio del mio infortunio e il movimento di guerra mi è convenuto ritornare l’ 11 maggio ’43 a Grassano, quando la guerra era già in Sicilia e le due figlie femmine di tenera età erano abbandonate di custodia al paese. L’asilo infantile non è stato fatto e allora l’arciprete mi fece l’affitto della casa, ma non mi ha voluto dare la copia del compromesso di vendita. La vita passata per l’infortunio a Cesano è un’altra storia. Ore 9, caduta da otto metri e mezzo dal fabbricato n. 1822 e ricoverato istantaneo all’ospedale delle Assicurazioni, via Monte delle Gioie, Roma. Rapido presero i raggi e videro le fratture ai due piedi e alla colonna vertebrale e dissero che era frattura da schiacciamento. Messo a letto e operato, mi perforarono i calcagni e misero un tiraggio per molti giorni e fecero un apparecchio tutto di gesso. Notificai sul quaderno del diario la tribolazione che mi dava il chiodo al calcagno destro. II giorno 21 mi levarono il chiodo al calcagno sinistro, mi ingessarono i due piedi, il destro con la punta in giù, il sinistro con la punta in sù. Stavo avvilito senza muovermi, non potetti resistere di essere coglionato così, mi feci conoscere che ero vivo al mondo e deformai ogni cosa di gesso che avevo: tremavo di mettere i piedi a terra, volevo la fuga, non mi davano largo e volevo la questura a far verificare gli apparecchi di gesso che mi davano fastidio. L’avventura per avere la pensione è durata nove anni con esposti e proposte e dimostrazioni e molte spese di lunga corrispondenza. « All Ministero del Lavoro – Roma All’ Istituto Nazionale per gli Infortuni sul Lavoro in Agricoltura – via Solferino n. 15 – Roma A S. E. il Prefetto – Matera All’ Istituto Nazionale Infortuni sul Lavoro – Sede Provinciale di Matera Lo scrivente è Mulieri Michele di Innocenzo, nato il 13 aprile 1904 in Grassano (Matera) ove risiede, il quale spinto da stato che fa pietà, come lo ha dimostrato tante volte alle Autorità del posto e come ha conferito proprio oggi, sia col sindaco che con l’arciprete parroco e con il comandante la stazione dei carabinieri, tutti uniti sul Comune ove ha chiesto di essere inteso, tanto che ha presentato a questi un pro-memoria del suo stato di vita che è la conseguenza delle ingiustizie sempre ricevute, pro-memoria vistato regolarmente dalle Autorità predette e che conserva ed è sempre visibile, in conformità ai suggerimenti delle predette Autorità, si rivolge alle autorità in indirizzo e per il momento tratta il primo argomento, che concerne una ingiustizia ricevuta sul suo infortunio e pertanto si raccomanda affinché venga riesaminata la sua pensione con perequazione ed ottenga né più né meno almeno il diritto che gli era stato riconosciuto, se non si vorrebbe riconoscere ancora meglio la sua reale posizione che merita un diritto ancora superiore. Giusto nota n. 134642 del 24 febbraio 1945, l’Istituto Nazionale contro gli Infortuni sul Lavoro in indirizzo – sede di Roma – allora a piazza Cinque Giornate n. 3 – gli comunicava che per il suo infortunio sul lavoro (‘ egli è grande invalido del lavoro regolarmente riconosciuto ed in possesso già del regolare libretto n. 19609 e del distintivo d’onore ‘) gli era stata assegnata una rendita pari al 55 % sulla inabilità totale e per postumi permanentemente residuati dell’ infortunio subito. Difatti, come tale venne liquidato come da nota n. 134642. Senonché, nonostante che nella data citata 26 marzo 1945 fu nuovamente confermata tale infermità in occasione della visita subita alla sede dello slesso Istituto in Matera, con nota n. D/12353/R.O. del 6-10-947, la stessa sede gli comunicò che la misura della rendita veniva scalata al 20 % dal 55 % e ciò perché, adduceva, era subentrato un miglioramento fisico della sua inabilità. L’Istituto Nazionale ridetto, della sede centrale di Roma, con nota n. D/12353/R.O. dell’ 11 dicembre 1948, gli comunica inoltre che, per il raggiungimento del 18° anno di età della figlia Prima, la rendiya veniva scalata ancora, ma, dato che la figlia Prima è permanentemente ed assolutamente inabile al lavoro, essendo affetta da rachitismo – tanto che la Previdenza Sociale di Matera la riconobbe come tale e la ammise al beneficio degli assegni familiari nel caso che lo scrivente avrebbe lavorato con qualche ditta (di cui non ha avuto ancora la fortuna, sebbene si è ripetutamente rivolto agli Uffici competenti del Lavoro e alla Prefettura ecc.) e tale riconoscimento fu in data 12-12-46, quando la figlia venne sottoposta a visita superiore collegiale della stessa Previdenza Sociale – insistette presso detto Istituto, ma -con nota n. D/12353/R.O. del 28 aprile 1949 la sede centrale di Roma, con una massima delusione, gli comunicava che non era possibile il ripristino della rendita per la figlia Prima dato che per gli asseriti fatti di rachitismo non potevasi sua figlia considerare inabile al proficuo lavoro. Ciò gli è stato ancora riconfermato con nota n. D/12353/R.O. del 14 febbraio u.s. dalla sede dell’Istituto Infortuni di Matera adducendo che, pur essendo sua figlia affetta da scoliosi, non le può essere lo stesso ripristinata la rendita soppressa e gli dà avviso che ogni sua insistenza non potrebbe avere un esito diverso. Pertanto il sottoscritto non ha mai accettato la riduzione della rendita, tanto che non percepisce proprio nulla appunto perché sarebbe assurdo accettare un trattamento che lede il suo diritto, e, stufo di ciò e di tante altre miserie causategli, come innanzi esposto, dall’ incuria di chi gli potrebbe venire incontro, non ha ancora registrata la nascita dell’ultimo figlio avvenuta il 7 corrente e che ha già battezzato col nome di Guerriero Romano Antonio ed il Comune ne conosce la nascita attraverso il mio esposto. Qualsiasi pena di non registrazione allo Stato Civile del suo neonato non avrà tutti i suoi diritti. Pertanto prega affinché gli Uffici in indirizzo vaglino la sua posizione, assumendo come per legge tutte le ìnformazioni del caso a suo riguardo, e, oltre a ripristinargli la sua rendita in misura superiore al 55 %, come primitivamente gli era stata riconosciuta, a venirgli incontro nella sua miseria squallida, nel suo stato pietosissimo e far sì che possa vivere con i suoi cinque figliuoli da onesto e libero cittadino onde dare sempre onore alla Patria che tanto ama e che ha servito. Grassano, 25 marzo 1950.»   Il Comune mi aiutò e scrisse: «Nel trasmettere alle Autorità in indirizzo l’unito esposto in copia ad ognuno dei nominati in oggetto, si prega di esaminare benevolmente la sua posizione che risponde a quelle dell’esposto stesso prospettato dal Mulieri. Costui ha cinque figliuoli a carico, è inabile al lavoro e la figlia Prima è effettivamente inabile. Non possiede beni di fortuna, è iscritto nell’elenco dei poveri di questo Comune e, pertanto, la sua posizione è pietosissima. Si resta in attesa di conoscere le decisioni in merito. Con osservanza. Per il Sindaco F /to: Lerose Giuseppe. »   Infami, ladri e barbari mi trastullavano con lettere e io rimandai indietro tutti i vaglia e mi vendicai non scrivendo nello stato di famiglia l’ultimo bambino, dichiarando al Comune questo che ricordo a memoria. «Grassano, Anno Santo. lo sottoscritto Grande Invalido del lavoro sono stanco. Siamo ai tempi anticristo, le leggi sono svolte da infami ladri e barbari. Non temo e non tremo. Posso dimostrare le infamità e barbarie, sono tante con documenti violati, ma non mi allungo perché ho abilità e saper fare e dico le infamità della sede di Matera di Infortuni che questo Comune è al corrente: infamità della mia invalidità e di una mia figlia rachitica. » E feci pure presente una domanda per aprire un ristoro nell’aperta campagna al bivio di Grassano e il Comando Carabinieri non accettò questa domanda. Era un’altra infamità fatta con un articolo di legge per rifiutare la mia domanda. Ma io ho ricercato la chiarezza dell’articolo e ho fatto la nuova domanda con la garanzia del locale da costruire e delle attrezzature a mio carico senza dare nessun fastidio a nessuno. Ho scritto per questo all’on. Ambrico e ne è venuta una raccomandazione dall’on. Ambrico al prefetto: in giro le carte, ma esito nulla. Dichiarai ancora: «Sono all’oscuro delle mie pratiche. Il ristoro mi preme, mi serve, lo voglio, mi aspetta con diritto. Ho dato la mia salute alla patria, al disordine sto rimettendo il cervello. Loro si garantiscono della parola gigante, la legge. La legge per me è mansionata da infami ladri barbari. Non temo e non tremo; le mie avventure sono lunghe; mai paura. Continuo: mi serve o sistemazione o carcerazione. Sono deciso, ho 46 anni e 5 figli. Il mio motto è: onore e lavoro, dignità della vita e per me e per i miei figli. La scintilla è questa, da non iscrivere questo neonato e da confessare il mio scrupolo. Anno Santo, ci dobbiamo santificare. Mi firmo, uomo di dovere Mulieri Michele. L’epoca cita la sorte a chi deve subire la pena per la mia avventura. » Il Sindaco mise la firma per visto di presa visione. Il mio stato di famiglia è questo, mancante del mio ultimo figlio, il sesto, che ha già tre anni e mezzo. Alla prima figlia misi il nome di Prima Maria Lucia e ne venne un diverbio sul Comune, che il segretario diceva che Prima non era nome e io me ne sono andato via dal Municipio e poi il segretario è venuto lui a casa mia per dire che potevo iscriverla come volevo. Al secondo figlio tenevo di dargli il nome Secondo, ma questa volta il segretario, abbinato assieme all’ufficiale sanitario, si mise a ridere. L’ufficiale sanitario disse: – Se lo chiami così significa che tua moglie non ha fatto la seconda -[4]. Lo chiamai Innocenzo. La terza la dovevo chiamare Terza Amata Michelina, e il segretario non voleva dare il nome Amata, essendo che mia moglie si chiama così di cognome. Io dissi al segretario: – A casa mia deve essere nome e cognome, a voi non v’ interessa. Il quarto è nato nel ’40. Prima della nascita, feci uno scatto e andai a Roma, volevo parlare con Mussolini, ma mi presentai da un colonnello che mi disse di scrivergli una lettera che io volevo andare in zona di operazioni con fierezza e orgoglio. Avendo avuto risposta affermativa, un altro colonnello a Copertino in provincia di Lecce mi disse che, essendo vecchio, non potevo andare in guerra, e disse: – Ti vogliamo bene. – Ma lui andava contro la patria. Allora mi congedai e, vedendo un mucchio di baraonda e balorderie nell’esercito in quei pochi giorni da volontario, mi riuscì di congedarmi e ho avuto la voglia di avere un figlio chiamandolo Salvatore essendomi salvato dalle baraonde. Poi c’ è questo che si chiama Guerriero Romano Antonio: Guerriero perché le guerre sono attuali, Romano perché sono italiano e l’antica Roma ha dominato sempre il dovere, Antonio, nome ricercato dalla madre, per consolare la madre che l’ ha fatto. Il figlio Giuseppe ha 20 anni finiti, è stata un’allra battaglia che ho dovuto fare. L’ ho tolto dalle beslie e l’ ho mandato a Torino; fa l’autista presso una ditta privata, appoggiata dal governo, per raccoglimento di ferro vecchio, gira quattro provincie. Il 1947 feci un salto a Torino, dove c’ è il fratello di mia moglie, per cercare là il lavoro per i figli. Abbiamo con questo cognato fatto il convenuto che, a un tempo maturo, lui si prendesse uno dei figli miei, maggiormente il maschio, Giuseppe, più grande. Per occasione avvenuta nell’agosto ’50, quando io ero preoccupato molto ché il figlio non aderiva alle mie volontà di venire a morire qui in campagna al bivio, se ne andò a Torino, dove adesso lavora. È un figlio d’oro, ci aiuta. Noi gli mandiamo pacchi di olio e salame, lardo; lui si sacrifica, si cucina da sé; noi gli mandiamo sostanze del nostro normale di casa e lui manda soldi, parecchie centinaia di mila lire: la sua soddisfazione che me le porta lui, vaglia niente, in una busta quando viene. Risoluto, un bel giovane, anche più di me, che io di famiglia mia paterna sono il più meschino. Mio padre era un colosso di uomo, cantoniere della nazionale via Appia, conosciuto «Innocenzo u’ maggiore» ché per Mulieri non lo conosceva nessuno. Aveva avuto il posto di cantoniere per eredità, perché anche il padre era cantoniere, ma mio padre non era sviluppato perché analfabeta e non era di una matura idea, di provvedere, di acquistare, di fare, di dire, stava intanato nella sua quietitudine di vita che aveva avuto in eredità, si divertiva in base alla sua giovinezza, la famiglia nostra l’ ha portala modesta avanti, ma col suo analfabetismo ha lasciato inquietitudine per quella piccola proprietà presente che non è quietanzata. Io, avendo avuto sempre questo merito, dono di natura, sono stato sempre un sovversivo di famiglia dalla mia tenera età e disgustato: ecco, perciò, siamo in questa questione che col mio disgusto la quietanza non è avvenuta. Con le mie volontà e attività sono subentrate le invidie dei miei stessi di famiglia che mi tenevano paralizzato e io non ho potuto fare i passi miei. Dallo stato di famiglia veniamo al mio certificato del Casellario giudiziario. Risulta: 1) 9-4-1942 – Pretura di Tricarico. Ammenda di L. 200. Ubriachezza manifesta. È una infamazione del segretario politico Ravelli Rocco che non ha più coraggio di ritornare a Grassano. Essendo segretario politico si dava molte arie di se stesso. Una sera c’era una vigilanza di ordine pubblico, sospettose le Autorità e lui Ravelli di un movimento di popolo perché le famiglie si opponevano alla richiesta di sottrarre dal loro mangiare ancora un po’ di grano nel mese di marzo 1942. Lui non capiva niente: miseria nelle famiglie e rovina di patria. Io con voce risoluta lo malmenai di parole e dicevo che non era giusta questa sottrazione di grano. Mi presero e mi portarono in caserma perché sobillatore della manifestazione del caso e mi infamarono con una contravvenzione di ubriachezza, mentre io non ero ubriaco ma affamato. Ravelli, vestendosi di autorità, molte altre informazioni e male azioni ha fatto, sì ché quando fu congedato, essendo caduto il fascismo, non ebbe coraggio di rientrare nel detto paese per paura di qualche rivendicazione. 2) 18-11-1943 – Giudice Istruttore, Matera. Amni- stia. Resistenza a pubblico ufficiale ed oltraggio a pubblico ufficiale. Volevo assistenza, causa il mio infortunio, e gridai il mio motto di infami ladri e barbari alle Autorità, ma la causa non fu svolta. 3) 16-7-1946 – Pretura di Tricarico. Amnistia. Ol- traggio a pubblico ufficiale. Neanche questa causa fu svolta, ma c’è il mio fazzoletto, macchiato di sangue, che è documento conservato. Eccolo qua: è nero come l’inchiostro, ma è sangue. Il 1946, essendo la Costituente, mi costituii nell’azienda agricola di B. G. come tutti-mestieri. Lui, essendo grande proprietario, usurpatore di popolo e contravventore di patria, un disordinato di provincia, mi ha subito allontanato e licenziato dall’azienda in accordo con tutte le autorità locali e provinciali e fuorilegge perché lui, fuorilegge. corrompe tutti e fa come gli pare. Per lavorare, anche allora le carte in giro da un ufficio all’altro e nessun ufficio dava lavoro. Allora ne avvenne l’oltraggio al maresciallo dei Carabinieri di Grassano in pubblica piazza e di fronte a migliaia di persone. La Prefettura scriveva che mi dovevano dare lavoro e l’oltraggio avvenne per l’affare che mi violavano i documenti pref’ettizi dell’ingaggio di lavoro obbligatorio). Mi pascevano di chiacchiere invano. Mi dovevano avviare magari in un bosco, basta che mi allontanavano dal paese ozioso. L’Ufficio di collocamento chiedeva. come è scritto in questa lettera, «il benevolo interessamenlo delle superiori Autorità per risolvere il caso di Mulieri». Le numerose lettere valsero a nulla e ciò fu motivo di commettere oltraggio. Al maresciallo allora gli levai i gradi in pubblica piazza perché loro mi avevano violato la sistemazione di lavoro. Fui tra- sportato in caserma e tutti uniti i carabinieri mi hanno massacrato di botte, riportandomi uno sfregio permanente al capo col mio medesimo bastone in possesso perché sono grande invalido, e riempiendo il mio fazzoletto, ancora presente, di sangue. Al carcere ho fatto il mio memoriale di come è successo il fatto e chiesto la visita medica dello sfregio esistente. Il medico del posto ha fatto la sua deposizione, che è sempre evidente nella cartella di giudizio. Ora che è stata la causa, il 10 dicembre 1952, presentandomi con quadri di documenti e manoscritti con le parole dei miei motti, la causa è stata negligente: il rimbambito del presidente del tribunale rimuoveva il certificato medico e alla mia richiesta di presentare il fazzoletto ancora macchiato, di sangue il presidente non l’ ha valutato essendo io senza avvocato di difesa. Un avvocato, di sua volontà, mi prese il quadro dal collo, che tenevo per dimostrazione, e prese la parola dicendo che col disordine di patria io avevo ragione. Disse l’avvocato: – Come’ facciamo a condannare quest’uomo quando si è presentato con tanti scritti, ‘L’uomo senza lavoro lascia senza cervello’; di più questo che dice che col disor- dine di patria lui ha perso il cervello, ecco perché commette questo. Non è competenza della nostra corte, ma bensì di una corte psichiatrica costituire lui. Ma un medico di psichiatrica mi ha visitato e più intelligente delle Autorità ha detto che non è competenza sua, dichiarando la mia buona salute. La causa fu fatta il 1952 dopo due amnistie, quella di Togliatti e quella dell’ Anno Santo, ma fui condannato alle spese. Venne l’ufficiale giudiziario per il pagamento, lo misi fuori dal mio terreno col cartello di «Figlio del Tricolore … », ma lui fece l’occhiolino a mia moglie, e lei senza dirmi nulla andò a pagare 9.500 lire. Venne l’ufficiale giudiziario il giorno di S. Leone, l’ 11 aprile 1953, l’ho segnato sul calendario, quando io sono un leone che non avevo paura di lui, e voleva fare sequestro barbaro: negligenza di dovere e depravatezza di funzionario approfittante della debolezza di una donna debole con famiglia disorientata. L’ufficiale trascurò di fare il proprio dovere non affrontando me e facendo l’occhiolino a mia moglie. 4) 17-6-1948 – Pretore di Roma. Un mese di arresto. Contravvenzione alla diffida (art. 157 legge di P. S.). Ero andato a Roma già una volta per dire il mio pietoso stato alle autorità centrali. Mi cacciarono dicendo che non potevo parlare con Scelba. Tornai un’altra volta e data la diffida predetta fui condannato. Il padrone di Roma era Scelba e Roma non era la capitale d’Italia ma campo riservato di Scelba, e vi è la prova che la bella Italia è mansionata male. Le stanchezze mi obbligano alla pazzia e questi Enti di provincia e di Roma mi danno libertà di non iscrivere mio figlio allo Stato Civile. Andiedi a Roma perché nel 1948 mi fu ridotta la pensione, assicurando gli Enti la miglioria della mia salute, e mi fissarono a partire dall’ 1-11-1947 una rendita che non corrispondeva più al 55 %, ma al 20 % dell’ inabilità totale. Mi son fatto figurare morto senza dare i certificati di esistenza in vita che si danno ogni sei mesi – a luglio e a gennaio – per dire che esisto, e che possono pagarrni ché vado a riscuotere. L’Istituto mi baloccava. Costretto dal bisogno io non volevo i vaglia, li potevano mandare a mia moglie. E l’Istituto scriveva: «Considerato che il Mulieri Mi- chele ha esplicitamente dichiarato di non voler riscuotere somma da questo Istituto, non è possibile ripristinargli i pagamenti della rendita, soprattutto in favore della di lui moglie, per il che occorre regolare procura notarile -. Il Direttore del Servizio: Temistocle Miserocchi. Servizio Centrale Infortuni – Ufficio Segreteria Affari Generali». lo non volli fare l’atto notarile per non sprecare danaro. Allora ho accettato io i vaglia, ma con riserva di continuare il mio appello e intendere il 55 % e non il 40 % che poi mi volevano dare. Pertanto hanno inviato il primo vaglia nel gennaio del 1951 ed io ho scritto pregando il direttore generale, che era o di razza ebraica o straniera in base al suo nome Temistocle, se mi rilasciava una denuncia a mettermi in galera o sia al manicomio per godere riposo e tranquillizzazione per scrivere la mia storia fino a quando mi davano il 55 %. Prima avevo restituito il vaglia con questa dici- tura: «L’istinto è dono di natura. Muoversi, lottare gli infami ladri e barbari. È presente l’ infamità nel darmi questa somma. Il popolo balocco e scemo. Sono solo: non resisto alla dittatura nera e grido forte: la bella Italia in mano ai barbari ». Con questa lotta ho avuto l’arrestato di 81.000 lire invece di 2.950 lire, e poi nel 1952 la pensione intera.   Ma non ho aspettato ozioso. lo sono lieto, coraggioso; sono loro, i famigliari e la moglie, che si avviliscono. Non avendo avuto mai affezione del paese, ho creduto di fare una novità e stanco del funzionamento delle Autorità mi sono dedicato qua in campagna, con la volontà di stare lontano. Viene a cadenza adesso la storia di come ho com- prato il terreno. Nei primi tempi che ho avuto, il ‘48, questa idea di creare il ristoro in questo posto, mi sono avvicinato ai famigliari della proprietaria chiedendo il posto, o occupare o comprare. Tutti pieni di volontà, mi facevano vedere il cuore nelle mani e mi hanno dato tutti gli agi da poter procedere le mie domande. Dopo dure lotte con le Autorità e forti dimostrazioni, ho avuto l’autorizzazione di costruire, con accordo stabilito di fronte alla proprietaria Bronzino Maddalena, suo fratello, il condottiero di tutte le notizie, Nicola e suo marito Giuseppe Uricchio. Spiegate le mie condizioni fisiche e finanziarie, ci accordammo tutte e due le parti sulla stima del prezzo da me offerto di lire 80.000; di cui lire 40.000 contanti subito con fiducia e con la parola dell’uomo senza volere nessun documento per la somma versata, ma bensì il possesso e di iniziare subito i lavori, per chiedere la licenza alle autorità locali e provinciali. Tutti d’accordo. Io, armata una tenda tipo militare, dopo un paio di mesi avevo la casa innalzata lavorando io con un mio carretto, aiutato dalla famiglia e spese 20.000 lire di cemento e 60.000 lire di materiale. Una bella mattina, il 14 settembre 1950, vidi arrivare una mia figlia impaurita ed affaccendata con una carta nelle sue mani di diffida di aver costruito arbitrariamente, senza permesso. Io stavo scaricando gli embrici della copertura, con molte persone presenti e, sorridendo e giocando del caso, rivoltando la stessa carta giudiziaria, ho scritto dietro di mio pugno che mi avrebbero fatto lieto e grande a convenirmi ad un giudizio per potermi scaricare il mio stomaco di veleno aggrumato. Avvenne una discussione fra me e i famigliari della proprietaria, ma la citazione in giudizio l’hanno ripetuta tramite l’avv. Lavista, prima intimandomi con una raccomandata di trasferirmi in mezzo alla strada. Fu parlato a questo avvocato da buoni amici e da me, promettendomi lui di capire le mie ragioni e di non seguitare la causa. Io tutto avevo eseguito al ristoro, l’esercizio era in funzione con licenze adeguate, e tuttavia mi hanno invitato al giudizio lo stesso l’ 1 dicembre 1950. Il mio coraggio è l’istinto e con la libertà di stampa proclamata mi sono presentato in Pretura con tabellonni dimostrativi con la dicitura: « L’istinto della persona è dono di natura. II coraggio è la legge. Uomo di dovere M. M. ». Per mettermi in tutte le piene regole e non cader t’ a un intervento di contravvenzione presi tutte le preoccupazioni di mettere la marca da bollo sul tabellone. Il pretore mi voleva mettere fuori della Pretura, ma io esclamavo: – Se vado via, la responsabilità di chi è? Ché per venire qua sono stato citato, invitato e chiamato; se mi firmate la mia citazione, io vado via -. Lui premeva di andare via solo per mascherare la tabella, ma io avendo avuto la libertà di stampa la volevo adoperare; c’erano parole da potermi punire, mi sottomettevo alle punizioni. II pretore, vista la mia fermezza, mi disse di accomodarmi e aspettare il mio turno. Quando fu il mio turno, mi chiamarono sorridendo ché mi ero presentato con lo stendardo del tabellone. Mi obbligarono a norma di legge di toglierlo, avendo potuto prendere l’avvocato per spiegare le mie ragioni. Ma io risposi che i dolori miei non c’era nessuno che li poteva chiarire. Mi dettero agio di poter parlare. Chiesi il confronto davanti a quel Dio e davanti al pretore e davanti al popolo spettatore, come era stato il convenuto quando io ho versato la somma di L. 40.000. Il marito della proprietaria, Giuseppe Uricchio, disse che i soldi, quella somma, li avevo portati a depositare a casa sua … come fosse una banca! Tutta la corte e il popolo si fecero un buon concetto che io non ero uomo da depositare soldi e ci fu un forte dibattimento nel quale dimostrai come avevo fatto sforzi soprannaturali, data la mia invalidità evidente, e che mi ero sforzato come un somaro sotto il carrettino per fare quelle opere al Bivio. Mi levai finanche una scarpa per dimostrare i miei piedi deformi, ma non vollero vedere, mi cacciarono. Cosi finì, il giudice mi mise fuori e propose nella mia assenza di venire ad accordi bonari, ché ero un uomo che non mi potevano imbrogliare alla giustizia morale. Prolungandosi il lungo tempo prima che il giudice mi desse ragione, il sangue mio fervido non resisteva, mi misi a letto crescendomi una barba e facendo lunghe e dure dimostrazioni. Ecco il tema che detti al popolo nel tabellone: « La vita è una storia, ma da farla. Il mondo è un passaggio. Passando per il mondo lasciare la sua traccia. Sono risoluto, la posso sprofondare e diramare in varie correnti. Per questo sono deciso, stanco e malato da proclamarlo: sono inseguito dai maghi (i proprietari che mi avevano messo in causa). Mi hanno conficcato in una palude, mi sono coperto di acque stagne. Si sono appiccate le mignatte maligne, ma le mie carni stanche e dure, non c’ è posto da attaccarsi. Con le mie miserie ho avuto abilità, alto e grande onore, da risorgere ed illuminare una campagna a un nodo di cinque strade, creare il Ristoro dell’ Anno Santo, il tempo del disordine. Con dolore mi firmo: Uomo di dovere Michele Muli eri. L’impianto del posto 80.000 lire, lacrime e sangue, terra del dolore». Adesso è il posto che ho costruito che chiede, non più la mia invalidità. E allora ne vengono tutte le altre storie attuali della burocrazia. Finito il fatto della causa del terreno, stavo gioioso coi figli miei che mi aiutavano. Non vendevo niente, qualche gassosa a operai e accomodavo manichi di zappe e di pale, piantavo la vigna. Un signore mi fece un prestito per avere qualche fusto di benzina e di nafta dalla ESSO e vendevo secondo l’affollamento della strada, poco per pagare l’interesse delle cambiali del prestito dalla percentuale che mi aspetta dalla vendita. Stavo sempre in urto per la questione. Mi mandarono le carte del censimento. Questi sono i moduli, li tengo qui, non riempiti, che mi mandarono i due Comuni, Grassano e Tricarico. Appena avute le carte, avendo creato un ristoro utile al popolo, soffrendo il duro calpestio delle Autorità, locali e provinciali, mi sono deciso di non rispondere al censimento e tenere informato il Consiglio di Stato per costituirmi a norma di legge. Per sottrarmi alle insolenze di questa gente del censimento che mi tartassava di domande e di minaccie sono stato agevolato da una ricevuta che avevo e che a questi ho presentato, attestando che avevo spedito al Consiglio di Stato un modulo del censimento e vari altri documenti. Gli altri documenti allegati erano una tassa di bestiame di due maialetti avuti regalati, da otto giorni nati. I maialetti me li avevano regalati due proprietari con la speranza di sollevarmi e coprire le spese necessarie per il sostenimento della famiglia in base ai sacrifici fatti per la compera e la costruzione. Spedii ancora un avviso di pagamento di tasse inviatomi dall’Ufficio del Registro perché tante leggi favorevoli all’acquisto sono mascherate. Tra questi documenti misi pure un mio manoscritto per spiegare le mie idee e le mie sofferenze, non resistendo al calpestio delle Autorità locali e provinciali. Nel memoriale dicevo: «La storia tragica mia la può presentare l’onorevole Ambrico[5] e la sa pure il nostro sindaco ». Vendevo un po’ di vino per chi lo beve, qualche autista e qualche manovale. Ecco perché ho chiamato Ristoro Anno Santo, perché si combatte contro i diavoli. Le Autorità non mi danno pace e mi fanno pagare 3.155 lire di dazio per 2,9 quintali di vino. Mille e tante lire pago di trasporto di ferrovia da Taranto alla sta- zione di Grassano, 300 lire dalla stazione al Bivio. Ma neanche loro ne hanno pace da me. E allora ho scritto al prefetto presentandogli la fattura del fornitore del vino: « Re di Provincia, in poche e povere parole mi spingo alla mia dura avventura e cerco chi mi applica la carta sul sedere (voglio dire chi va trovando lite accendendo le carte di dietro agli altri). Re di Provincia, vi presento questo conto, cioè una leale fattura. Sto in aperta campagna, cuocendo la mia famiglia con cinque figli (li obbligo a stare qui, non stanno di loro volontà) e servendo e coltivando un popolo balocco e scemo. Vi presento questo conto di vino, da sottrarre una cifra; la cifra che io non digerisco è il Dazio. Mi rivolgo a Voi, Re di Provincia.» Il Comune rispose con una lettera comunicando la consegna della fattura e che non aveva provvedimento da adottare. Il Prefetto rispose così: « Prefettura di Matera – Div. 2/2 n. di prot. 14262. Oggetto: Istanza di Mulieri Michele. Al Sindaco di Grassano. Si prega di voler curare la restituzione all’interessato degli uniti alligati alla sua istanza del 19-6-1953, signifìcando che la stessa è poco chiara nel suo contenuto. Per il Prefetto: firmato illegibile. p.c.c. Grassano li 21-7-1953 – Il Segretario comunale. Visto il Sindaco. » Io dico adesso al prefetto: ci hai tanti ladri intorno, perché non metti un tuo fiduciario, un tuo seguace, e lo chiarisci quel contenuto? Scrivevo al prefetto per gli affari di questo posto, ma maggiormente per caricatura, perché loro mansionano malamente la legge. Lui, il prefetto, non capisce quello che io scrivo! Prima lo chiamavo Re di Provincia, ora lo chiamerò Ras di Provincia. Dopo quella lettera, non ha più risposto ed io l’altro giorno sono andato in Prefettura. Il giorno era di venerdì, non riceveva ché lui riceve di giorno pari, ho aspettato il giorno appresso e mi sono intanato nella taverna di S. Antonio; faceva freddo, ero così senza giacca, senza niente, con la farfallina nera al collo. All’orario dovuto, l’usciere mi disse che non c’era, e io proposi di aspettarlo, magari al carcere. È uscito il segretario. Non c’era il prefetto, disse anche lui. Io mostrai la farfallina nera che ci avevo al collo e il mio bastone gridando: – Io so fare l’avventuriero, se lo scrivo, lo so fare -. Il segretario ha mandato a chiamare la polizia e io gridavo che là nella Prefettura era un marciume che puzza e sturba tutti. Venne il maresciallo della Squadra Mobile. Gli feci vedere le mie cinque ricevute dal mese di maggio. Non mi volevano ricevere, allora mi buttai a terra e mi coprii -della bandiera tricolore e rotolandomi nel corridoio gridavo: – Mamma mia che puzza, che marciume che non si resiste. E loro a quelle mie dimostrazioni non hanno potuto reagire e mi hanno mandato via con buone parole. Anche per le altre pratiche che poi spiegherò scrissi un’altra lettera al prefetto, nel giugno di quest’anno che sembrava il giugno del ’46, quando andiedi a fare un’altra presentazione al prefetto, ma trovai il capo di gabinetto e dissi che era stato aggiunto il nostro scopo, di fare la Costituente e cioè di costituirci in piena regola da italiani, da estirpare vari ceppi e farne carboni. Lui lo capì e disse: – Ma così si va in galera. E io risposi: – Chi se ne frega, più scuro della mezzanotte non può essere quando io sto lottando l’oscurità dell’una e un quarto -, e così finì il discorso, nel 1946, e fecero le lettere per l’ ECA e per l’avviamento al lavoro. Questa volta ho scritto al prefetto questo motto: « Il mondo gira, la storia parla, la parola nasce dal dono di natura e si ingrossa dai duri martìri vostri. Il secolo ritorna e ora siamo nel secolo dei nobili ignoranti, pieni di beni e di vaste comodità usurpate ad un popolo balocco e scemo, ed io mi voglio distinguere innalzando la mia bandiera a lutto, essendo la bella Italia ricaduta nuovamente sotto il regime burocratico. Figlio di patria e vivo italiano, alle dure avventure grande invalido Mulieri. » Finalmente il prefetto, dopo «Il mondo gira », ha chiarito la situazione, tramite il maresciallo dei carabinieri, che fece fare il sopraluogo sul mio terreno al Bivio il 9 agosto 1953, quando io ho potuto dimostrare la mia posizione e spiegare perché puzza questa lorda e balorda provincia di Matera (Materia ossia materia a sangue che devono fare). Come primo fatto ho spiegato la questione dell’ Acquedotto. L’Acquedotto Pugliese fa dei lavori per piantare la conduttura dalla contrada Pantano fino a Grassano, ché il paese ha poca acqua e si muore di sete. Gli ingegneri hanno fatto il tracciato quando io ancora non ero padrone diretto di questo mio fondo e stavo dimostrando una storia lunga lottando i maghi. Quando son risultato il diretto padrone, ma delegando la proprietà alla mia consorte, martire di tutti i terrori e sgomenti delle mie dimostrazioni, ho presentato all’impresa dei lavori e ai geometri un nuovo tracciato tale da riguardarmi specialmente il Campo Storico, che lo devastavano, anche perché domani voglio fare le assegnazioni della terra ai miei figli per costruire. Infatti è suolo e non terreno argilloso seminativo. L’impresa mise lavorazione sul mio fondo senza autorizzazione. Io chiedevo in cambio dell’occupazione e deformazione del mio suolo l’attacco per due metri cubi di acqua al giorno gratuita, e il supero volevo pagare. Ma niente risposta alle mie lettere. Dopo l’Acquedotto col suo tracciato, seguitò il tracciato della palificazione per la rete telefonica dell’ Acquedotto e io, avendo visto il tracciato, non fatto alla mia presenza, inveivo contro mia moglie che aveva dato tale permesso, guastando i loro picchetti e gridazzando alla contrarietà di mia moglie, che non si sa difendere e che da tutti si fa calpestare. I funzionari addetti sono venuti e io ho gridato: – Prima di entrare nella casa degli altri si cerca per- messo, si dice buongiorno. Voi avete chiesto permesso? Rispondono: – No, perché noi andiamo avanti con ordini espressivi e con decreti prefettizi. Ma io avevo diffidato il prefetto delle mie storie arretrate e allora ho detto ai funzionari che il Re di Provincia giuoca la palla sorteggiata alla befana da vero ladro italiano. Lui va facendo i doni alla befana e se ne è tenuto uno per lui, la palla. Allora per chiarirmi in documentazione ho fatto partire una raccomandata all’ Acquedotto Pugliese dicendo: – Solo l’Acquedotto Pugliese con i suoi precedenti di negligenza per non aver risposto a un’altra mia raccomandata mi può provvedere una galera. Il mio suolo non si passa e neanche si sopravola, se prima non viene un contratto stabilito. Il contratto non si è fatto mai. Tutto trascurato. Essendo le elezioni politiche, un avvocato mio paesano, pezzo grosso dell’Acquedotto Pugliese, della Democrazia Cristiana, facendo il mercante fallito presentandosi in candidatura, e facendomi, per avere il voto, delle promissioni invano e non di sua competenza, unito all’ ingegnere capo dell’Acquedotto Pugliese si presentò al Ristoro dell’ Anno Santo, per chiarire, il 26 maggio 1953, sentendo il mio parere della richiesta di acqua nel posto e le mie espressioni di necessità e di mal vivere in questo posto. Dissero che senz’altro mi concedevano l’acqua e mi hanno dato i manifesti della propaganda dell’avvocato, che è stato svanito come deputato. Il 9 agosto, dopo le elezioni, venne di nuovo l’avvocato. Pioveva, non volle neanche scendere dalla sua fervida macchina concessa dall’Acquedotto, mi invitò a colloquio in macchina facendomi le illusioni di un posto da custode per la suddetta cricca dell’ Acquedotto. Io mi opponevo di età avanzata, tra pochi mesi raggiunti 50 anni, ed essendo grande invalido riconosciuto, e proponevo, con l’insistenza di mia moglie, la sistemazione di mio figlio già sistemato nei pressi di Torino. Lui domandava l’età di mio figlio ma data l’età giovane quasi si ritirava la promissione. Il sogno della’ notte per me è consiglio. Mi rinnovai che la promissione era una frottola del suo agire di mercante fallito in vari colori. Così è stato. Mi mandarono i carabinieri a rimettere a posto i paletti e per autorizzare tutti i lavori. Quando i carabinieri sono arrivati io scappavo dalla mia casa gridando di lasciare tutto in abbandono. I carabinieri dicevano: – Questo non è pasta nostra -. Si guardavano tra loro e ridevano. All’avvocato e all’on. Ambrico ho dato un tema, questo: «La Burocrazia è un fiore. Italiani, non lasciamo maturare questo seme che è velenoso. Avve lena il campo d’Italia ». E loro non mi hanno dato nessuna risposta. Essendo miei paesani, io scrivo sempre a loro; loro dovevano proclamare il mio tema nelle adunate del Consiglio Provinciale e nelle adunate del Parlamento. Ambrico, prendendo il mio pensiero, ha svolto il tema e non si è presentato all’appello, ché non si è messo più in candidatura. Per l’avvocato ho fatto la raccolta delle firme per fare la villa dei garofani: « Sentite italiani: chi vuole il garofano dell’avvocato? Lui mi darà l’acqua e io faccio la villa del garofano a nome dell’avvocato. Italiani sottoscrivete per la bella Italia ». La spiegazione è questa: il garofano dopo ventiquattro ore diventa moscio e perde tutto il suo odore. Così l’avvocato. Dopo la questione dell’ Acquedotto, c’è la questione del mutuo richiesto di due milioni con garanzia sulla proprietà e maggiormente sulla pensione che ho. La richiesta era per meglio attrezzare il mio terreno e il Ristoro. Risposta negativa: «Non è possibile aderire alla richiesta, perché, per tassativa disposizione di legge, le rendite di infortunio devono essere pagate in rate posticipate ». Sempre la legge a favore di quel che dicono i mercanti falliti nelle piazze per il credito e per il mutuo al lavoro, e sempre la legge tassativa e negativa. La mia rendita e il colossale capitale è il mio coraggio di resistere in questo posto facendo il vigile dirigente informatore, ché per indicare le strade certe volte mi alzo la notte. Volevo mettere in vendita sigari e sigarette e tabacco in questo posto, ma il Monopolio di Bari è stato negativo, dicendo « … Vengono prese in considerazione soltanto le domande per istituzione di nuova rivendita pervenute durante il mese di gennaio ed il mese di luglio. Pertanto la vostra domanda non può essere presa in esame ». Allora io ho scritto che compro il tabacco dai tabacchini regolari, salto il premio del 5 % e lo vendo liberamente. Così ho pensato, ma non ho fatto per non sottomettermi alle penalità e contro la legge. Lo stesso è avvenuto per la vendita della benzina e della nafta. Tenevo i fusti non sulla strada rotabile ma sul terreno attaccato alla rotabile che è dell’ANAS (Azienda Autonoma Statale della Strada). Questa striscia di terreno è confinante con la mia proprietà. lo ho fatto una impalcatura di legno piantata nel mio terreno e appoggiata a quella striscia per metterci sopra il fusto e la piccola pompa di distribuzione. Quelli dell’ ANAS mi hanno costretto di allontanarmi e non mi hanno autorizzato a istallare il distributore della ESSO perché l’ANAS «non aveva riscontrato la località rispondente ai requisiti dovuti dalle norme in vigore ». Poi, per ottenere il permesso, l’ANAS voleva la cauzione di 30.000 lire. Allora ho dimostrato con le fotografie il posto, il carrello per trasportare il fusto e l’impalcatura, e ho mandato tutte le fotografie che spiegano le mie ragioni al prefetto con questo molto: « Figli di patria e vivi italiani se mi volete ben guardare anche senza degli occhiali questo è il posto da osservare che mi potete sollevare. Basta rubare. Sarebbe ora di marciare sulla via dell’onore. Per me sarà meglio di ieri. Questo spera Michele Mulieri l’avventuriere. » Le fotografie e la poesia, portate da me in Prefettura, sono raccolte in un quadro che tengo esposto per farlo vedere a tutti, con il bollo rosso tondo dell’ Archivio della Prefettura di Matera. Con le fotografie e con la parola « basta rubare» voglio dire che faccio tutta questa giostra di trasportare i fusti, e che, se pagavo 30.000 lire all’ANAS, potevo stare con i fusti sul terreno vicino alla strada. Ecco spiegata la mia dicitura e l’iscrizione di questo posto che sono figlio del tricolore pieno di dolori. In questo campo di Piani Sottani ho lavorato per produrre. L’aratura di buona volontà me l’hanno aiutata con un mulo e con l’aratro quelli che mi danno le soggezioni, gente amica e contadini, ché in questo posto chi appoggia il proprio materiale, chi lascia roba e io la custodisco. Tutti i lavori li facciamo noi familiarmente. Ho seminato 50 chilogrammi di grano ed ho Fatto un campo meraviglioso in tutti gli aspetti per chi ci poggiava gli occhi. Non ho potuto distinguere tutto il quantitativo del prodotto perché ho aggiunto il prodotto del campo all’altro quantitativo di grano spigolato da noi famigliari nei campi vicini. Più della metà ho fatto maggese seminando ceci, granturco, pomodori e melloni e, una mia affezione e una navi là del posto, ho seminato i girasoli, che hanno dato molto aspetto meraviglioso a questi luoghi che non conoscono questa produzione. Il girasole se lo mangiano le galline, ma in certi posti si vende per semi di olio, così si sente dire, Ma io ne ho distribuito a facoltativa richiesta dei contadini che lo mangiano come lo mangio pure io. Poi ho fatto lo scasso per piantare tre are di alberi e vi ti nel Campo Storico, oltre alle poche vi li che già ci sono vicino al ristoro. Ho fatto il Campo Storico, così tutte le persone e occasioni in contrario che ho avuto posso ìmmatricolarle su un albero. Ho fatto una fila di infami, una fila di ladri, una fila di barbari, tutti che mansionano la bella Italia. Quel fico è la persona che mi ha fatto male, essendo in posto elevato. L’Ufficiale Giudiziario l’ ho matricolato nella fila dei depravati. Ancora non ho targato nessuno proprio sulla corteccia perché gli alberi non sono ancora in vigore e non è tempo maturo. Sono quattro alberi e diciotto viti per ogni fila e le file sono sei: 198 tra alberi e viti. Se ce ne vogliono di più, Dio e il mio coraggio provvede.   [1] amministrata [2] e quindi cominciare a guadagnare, dato che l’apprendista non ha diritto alla paga. [3] il suo comportamento [4] non ha restituita la placenta. [5] L’on. Ambrico, di Grassano, del Gruppo parlamentare della D.C., era stato il solo deputato a votare – in sede di riunione di gruppo – contro l’on. De Gasperi. Mulieri ebbe fiducia perciò in Ambrico.

 

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