Enrico Buono con questa storia rievoca un tempo favolosamente lontano, o incredibile, inimmaginabile, reso in certe scene d’ambiente del Decamerone pasoliniano; sebbene un tempo ancora vissuto dalla generazione precedente la mia, tra lo scadere dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso (la generazione di Enrico Buono, appunto), che io ricordo in modo quasi subliminale, con la nostalgia e l’incubo del ritorno a un tempo naturale non contraffatto dall’ossessione dell’igiene e dal progresso della chimica. L’incubo dicevo. Proibii, infatti, a mia moglie, deludendola molto, l’acquisto di un “cantero”, un bellissimo vaso cilindrico di porcellana, a cui lei teneva molto, che mi turbò per il ricordo di un simile vaso di terracotta modellato all’orlo con una fascia adatta alla seduta per soddisfare i bisogni corporali, a casa di zii di mio padre che ci ospitavano in occasione delle nostre visite al paese natio, nonché il cantero (leggerete la scena in questo racconto di Enrico Buono) che vedevo versare nella carretta che passava lasciando una scia di puzzo atroce nelle sere d’estate, quando eravamo seduti sull’uscio di casa, io in braccia a mia madre, a prendere il fresco. Non avrei potuto tollerare la presenza in casa di quel vaso pur terso e immacolato di purissima porcellana. Di terracotta o di finissima porcellana per gli aristocratici, i canteri erano tutti uguali ed erano serviti per la medesima funzione.

Buono, a conclusione del racconto, scrive che egli emigrò dal paese e non seppe più nulla di Femia e di Cristina. Io, che sono nato ventiquattro anni dopo di lui, Femia – zià Femia come la chiamavano e la chiamavo anch’io – l’ho conosciuta; di Cristina, invece, ho saputo leggendo il racconto.

Zià Femia, quando io la conobbi, non era più come Buono la descrive. Non faceva il degradante lavoro che Buono racconta, si era ripulita, aveva assunto un aspetto passabile, aveva sposato il capo spazzino di Tricarico, un uomo molto magro e molto alto, con baffi alla re Umberto, che onorava il suo posto nella scala gerarchica degli spazzini riservandosi di spazzare, con una scopa di saggina con manico lunghissimo, che gli consentiva di assumere, nell’esercizio delle sue funzioni, una posizione eretta e, direi, altezzosa, la piazzetta del vescovo, il corso, la piazza e via Roma. Zià Femia faceva le pulizie all’ufficio di mio padre e lavori pesanti a casa mia: lavava il pavimento, faceva il bucato con lo stricaturo – una tavola di legno zigrinata adoperata, spezzandosi la schiena, per lavare i panni a mano -, spostava i pesi.

Non le ho mai sentito raccontare particolari del suo passato, che leggiamo in questo racconto.

Dal matrimonio nacque una figlia. Io la conobbi quando, donna formosa e piacente, già sposata a un facchino, era andata a convivere more uxorio in un paese della Puglia con un medico di quel paese, che, capitato non so come a Tricarico, la vide, se ne invaghì e se la portò via. Il marito aveva accettato la buona sorte toccata alla moglie e, quando questa, di tanto in tanto tornava a Tricarico, bella, desiderabile ed elegante, le portava la valigia e (l’ho sentito con le mie orecchie) la chiamava “signora”. Col passare degli anni la bellezza sfiorì e il medico la rimandò con una mano davanti e l’altra dietro. A Tricarico la figlia di zià Femia ha vissuto e concluso problematicamente il resto della sua vita.

Femia e Cristina

In un tempo che pare ormai favolosamente lontano, vivevano nel mio paese due donnette: l’una si chiamava Femia, da Eufemia, e l’altra Cristina. Era poverissima gente, disgraziata nel corpo, istintiva, sempre pronta all’ira ed al turpiloquio.

Femia proveniva da Montepeloso, un Comune che si scorge chiaramente dal mio paese. Era scappata con la famiglia in un periodo politicamente turbinoso, per non subire dosi ancora più massicce di manganellate.

I tempi erano magri e bisognava arrangiarsi. E Femia fece la sua scelta, invero assai poco brillante: avrebbe rilevato a domicilio, con una latta vuota di benzina fornita di un robusto manico di ferro, tutto il liquame che stagnava negli appositi recipienti cilindrici accantonati negli angoli più riposti delle case le quali erano tutte sfornite di luoghi di scarico.

Femia non aveva età: era grigiastra, con radi capelli crespi da furia, un occhio cieco e biancastro quasi le schiz- zava dalle orbite, e vestiva in ogni stagione di cotonina grigia bluastra, come usavano allora in Puglia. Aveva pattuito con le famiglie dei “signori” le condizioni per il tra- sporto quotidiano del liquame dalle case alla latrina pubblica, che era situata sotto la piazza centrale del paese, a pochi metri dalla caserma dei carabinieri, proprio all’inizio della lunga discesa verso la valle profonda della contrada “Matina”.

I clienti non erano pochi, ma tutti, purtroppo per Femia, dislocati nei punti più disparati del paese: nel rione Monte, nel rione Civita, nel rione Saraceno, nel Calangone, nella Rabata.

Erano salitacce da mozzare il respiro, discese rip], dissime da spezzare le gambe, essendo il paese posto a ridosso di una lunga collina, con quel peso grave. Fernia arrancava per le strade allora sconnesse, a passo di carica, abbrancando con la destra il manico della latta strapiena, mentre con la sinistra si agitava in moto pendolare allo scopo di bilanciare il grosso peso.

Per evitare che il liquame potesse inzaccherarla, la poveretta si rimboccava la sottana fermandola alla vita, mettendo così in mostra una sottoveste cinerina che si piegava quasi ad angolo retto sul lato destro per creare più spazio tra corpo e bidone, e lasciava che il più traboccasse sulle strade che percorreva. Durante il tragitto, visibile tragitto, Femia parlava da sola, a voce alta; ma più che parla- re, pareva che ringhiasse, tanto era stravolta dalla fatica. Un sudore perenne le colava dal volto grinzoso, e lei se lo asciugava passando sul viso un pezzo della sottana. Imprecava contro i “signori”, contro il mondo intero e preferiva minacce indistinte, ed era quello il suo modo di sfogarsi.

I ragazzacci del paese, sempre pronti a torturare gli infelici, non la risparmiavano, e le lanciavano parole di scherno e spesso anche delle grosse pietre che coglievano il segno, provocando la fuoruscita del liquame. Femia reagiva immediatamente. Depositava in un angolo il bidone e si lanciava a testa bassa all’inseguimento tra i vicoli sconnessi, che le procurava un affanno penoso e tanta rabbia e tanto scoramento.

La latrina pubblica, un’istituzione locale quasi se- colare, era seminascosta da una fitta vegetazione di acacie che un accorto sindaco aveva creato dal nulla per imbrigliare il terreno frano so a ridosso dalla piazza principale. Un casotto sberciato, maleodorante, a doppia porta per gli uomini e per le donne, in cui liberamente giocava il vento e penetrava l’acqua e la neve. Rara la vuotagione dal materiale putrido, sicché nei giorni in cui spirava vento “di basso”, ossia scirocco, stagnava d’intorno un atroce fetore, sopportato come una fatalità dai buoni paesani, abituati a sopportare tante consimili cose. Il torrido sole dell’estate o i venti di borea e di ponente impetuosi disperdevano i miasmi, evitando terribili epidemie. Al casotto si accedeva per una ripida strada sassosa, larga nel primo tratto, e, dopo un gomito più stretta e più ripida ancora, con vaghi accenni di scalini sbrecciati dal tempo e dall’incuria.

D’estate il compito diventava per tutti assai più facile, ma nella stagione invernale le difficoltà di accesso al casotto aumentavano.

Fanghiglia e rigagnoli, neve, ghiaccio erano nemici

dichiarati della povera gente, che in processione incessante, spintavi dalla necessità, si avvicenda in ogni ora del giorno e della notte verso quell’unica meta.

Femia, per giorni, per mesi, per anni ridiscendeva e risaliva per quella stradaccia, appesantita nello scendere, più leggera nel risalire. Una fatica d’inferno insopportabile per tutti tranne che per lei. In paese anche il più miserabile ed erano tanti, disprezzavano quel mestiere così repellente, e ciò consentiva Femia di svolgere indisturbata la sua fatica nell’assoluta sicurezza di non avere concorrenti.

Ma un giorno. Di ciò parleremo più innanzi.

E’ bene che dica due parole sullo stato dei servizi igienici del paese in quel tempo lontano.

In paese dunque non esistevano fognature, ed in conseguenza il materiale di rifiuto non aveva nessuna possibilità di essere naturalmente scaricato. Le acque putride venivano senz’altro sventagliate sulla pubblica strada anche in pieno giorno con una particolare tecnica convalidata da anni di esercizio. Per il resto alludo ai rifiuti solidi, si attendeva che arrivasse l’ombra amica della notte per riversarli a casaccio o per accantonarli nei vicoli o sulle stesse strade principali. Ogni finestra, ogni balcone che si aprisse nel buio della sera, costituiva un’incognita per il disgraziato passante che si fosse avventurato in quelle ore per le strade dal paese; di qui l’elementare prudenza, per i ritardatari di dare una “voce”, come si diceva allora, di gridare, di fischiettare, al solo scopo di annunziare la propria presenza in quel luogo ed in quel momento. Pur con tale accorgimento, in apparenza efficace, non era raro il caso che dall’alto di qualche balcone o di qualche finestra piombasse sui malcapitati una massa putrida di cui era poi estremamente difficile liberarsi. Ricordo bene come se fosse ieri ciò che accadde ad un distintissimo medico del paese, da poco rimpatriato dalle Americhe, il quale una sera, passando per il corso principale con un candido abito di fresco lino, era diretto ad una festa familiare, fu letteralmente intasato dal blocco massiccio di liquame piovuto dall’alto che lo rese irriconoscibile.

Il problema di eliminare i rifiuti solidi o liquidi costituiva una spina, per tutte le famiglie, specie per quelle del ceto medio. Molti anni prima il comune aveva gestito un servizio di raccolta rifiuti a mezzo di una botticella di metallo, trainata da un somaro, che passava per le strade maggiori del paese ed accoglieva nel suo grembo rifiuti d’ogni genere.

Barbamoscia, il nocchiero della botticella, vi troneggiava dall’alto, dettava legge, imprecava, si sorbiva con estrema disinvoltura quel fetore atrocissimo.

Ma quando una epidemia di tifo di estrema violenza dilagò e fece strage in paese, il servizio, forse causa non ultima del male, fu troncato di colpo e mai più riattivato.

Come risolvere allora la delicata questione?

Vi provvide in parte Femia, che si rimboccò le maniche, povera tapina, e si sobbarcò per via della fame nera a quel mestiere orrendo, ma anche provvido.

La povera donna contesa tra tante famiglie, Si moltiplicava e non si rifiutava mai. Ma voleva prima, giustamente, contrattare con chiarezza le condizione per attuare il servizio: fissare per prima l’ammontare del salario mensile, che si aggirava sulle lire 3,50 circa; stabilire gli orari del prelievo: la preferenza era per le prime ore del mattino; pregare infine che le lasciassero libero accesso nelle case, bisognava aprire in tempo le porte, che raggruppassero i recipienti in un determinato modo; che evitassero per il possibile di appesantire i recipienti con liquidi eccessivi. Una mia spassosa cugina fece osservare a tale proposito che non poteva certo adoperare il colabrodo per venire incontro ai desiderati di Fernia.

Superfluo aggiungere che tutte le condizioni poste ed anche altre, se ce ne fossero state, venivano accolte in blocco senza discussione. Ciò fatto veniva dato inizio al servizio di trasporto.

Puntualissima sul fare dell’alba Fernia arrivava nelle case del cliente.

Il chiavistello, secondo le intese, era già stato sbloccato e non restava che spingere la porta ed entrare. La spinta era cosi energica che la porta sbatteva con un tonfo contro il muro opposto, accentuando sempre più la breccia aperta dalla sporgenza del lucchetto. Il solito cane randagio, onnipresente si intrufolava nella casa ed annusava in tutti gli angoli alla vana ricerca almeno di un osso.

L’arrivo di Femia provocava un vero trambusto.

Bisognava per prima cosa sbarrare le porte in attesa che avesse inizio l’operazione di scarico. Seguendo un rituale immutabile nel tempo Fernia deponeva, meglio sarebbe dire “scaraventava” a terra il coperchio del bidone, abbrancava uno per uno i recipienti allineati e stracolmi e ne versava il contenuto, tra un susseguirsi di tonfi e di schizzi, mentre un’aria grave, inesorabile, atroce dilagava per la casa, filtrando da ogni dove, vana ogni barriera, vano ogni accorgimento vano tutto contro quell’invisibile flagello. Si spalancavano balconi e finestre e l’aria pura del mattino irrompeva nelle chiuse stanze a ridarei la vita.

Tutto il lavoro di travaso veniva compiuto in fretta e con malagrazia, ed i segni evidenti erano li sul pavimento e che sforzi per raschiare, lavare, rilavare, disinfettare.

Così per anni, e tutto pareva normale, senza speranza di cambiamento. Mio padre ebbe un giorno il coraggio di cambiare casa. Gli amici del vicinato, il compare notaio, tutta la brava gente con cui avevamo comunanza di vita, ne furono addolorati come per una perdita grave: ma la decisione fu irrevocabile. Nella nuova casa, più ario- sa, tutta balconate che davano sulla valle, c’era in un camerino piccolo piccolo, un minimo di servizio e questo per noi bastava.

Femia, nel suo campo era padrona indisturbata della piazza poichè nessuno aveva tentato di farle concorrenza. Ma un giorno, c’è sempre un giorno infausto nella vita di ogni uomo, la poverina vide qualcosa che la disorientò: una nuova portatrice comparve per le strade del paese, una concorrente che si chiamava Cristina, anch’essa fornita di fiammante bidone, la quale era già alla ricerca di clienti.

Cristina era una donnetta completamente diversa da Femia: bassa, tarchiata, pelosa come una scimmia, con un perenne balordo sorriso sulle labbra.

Servizievole per natura, si nasce servi come si na- sce padroni, accorreva da chiunque le chiamasse per dare una mano, per fare bucato, per trasportare legna. Era soprannominata la “carvinera” per il fatto che il marito, era anche sposata, il padre del marito, il padre del padre del marito erano da tempo immemorabili carbonai. La tapina dovette capire ad un certo momento che le possibilità di un buon guadagno c’erano a fare il mestiere di portatrice di rifiuti, e, mettendo da parte ogni ritegno, ma era capace di ritegni?? Si avventurò con la disinvoltura dei semplici nel nuovo mestiere.

La concorrenza ebbe inizio, e con la concorrenza, divampò l’odio di Femia, che vedeva minacciata dall’intrusa il monopolio che sembrava solidissimo.

Cristina agì a colpo sicuro, offrendo i suoi servizi ai signori che ben conosceva, e riducendo al minimo le pretese salariali, per vincere la concorrenza sia pure slealmente.

Evitava con cura ogni spiacevole incontro con l’antagonista, sicura che una zuffa sarebbe scoppiata e che lei avrebbe avuto la peggio. Ciò nonostante non perdeva mai quel suo buon umore, frutto più di naturale incoscienza che di raziocinio.

Lo sforzo che sosteneva per trasportare il bidone era quanto mai penoso, bassa com’era, costretta quindi a piegarsi tutta a sinistra per evitare che il recipiente stri- sciasse per terra.

Cristina era paga del suo povero destino. Nata per soffrire, aveva sofferto anche troppo, e senza un lamento. Aveva fame sempre, una fame remota, incolmabile, ed uno stomaco dilatato e senza fondo capace di contenere e di bruciare un bue intero se ne avesse avuto la possibilità.

Ignorava sovranamente l’uso dell’acqua a ne facevano fede il suo viso da negro e le sue mani incrostate di sporco. I microbi con lei c’era poco da fare. Le cose procedevano cosi da tempo, i giorni passavano monotonamente, si avvicendavano le stagioni e stranamente regnava tra le donne quasi un tacito patto di non aggressione.

Ma un giorno, quel giorno era splendido davvero come avviene in settembre sulle nostre colline quando ferve la vendemmia e l’aria è fresca e trasparente.

Le donne già da qualche ora avevano iniziato la loro fatica quando si trovarono faccia a faccia, uscendo nello stesso tempo da due usci l’uno dirimpetto all’altro. Era scritto che la lite, già nell’aria, dovesse scoppiare, tanto’ valeva che scoppiasse presto.

Si guardarono, anzi ai squadrarono come se non si fossero mai viste prima di allora, e Femia attaccò per prima, anche questo rientrava nell’ordine delle cose.

“Disgraziata”, urlò Femia: “morta di fame che abbassi il prezzo della fatica” e deposto il bidone per terra, le si avventò contro con l’impeto di una guerriera. Ne nacque una zuffa confusa, inconcludente poiché Cristina, ferma come una torre sulle sue gambe arcuate, più che al contrattacco, pensava alla difesa, ed imbrigliava quindi la foga disordinata di Femia.

La folla era intanto accorsa numerosa, aveva circondati i contendenti e rideva di cuore, aizzando le povere donne e guardandosi bene dal dividerle o dal placarne l’ira. Più la baraonda durava e più il divertimento si prolungava. Fu a questo punto che dall’alto di un balcone che dava sulla strada si levò una voce ad un tempo forte e divertita: “Vergogna, vergogna, che porcheria è questa?” L’effetto fu quasi immediato, poiché le due donne smisero di suonarsele e si voltarono verso l’alto da dove proveniva la voce. “Ma perché vi conciate in quel modo”. Era zio Pancrazio, un vecchio maestro buontempone, che parlava così .”In paese, grazie a Dio, di quella roba ce n’è per tutti e in abbondanza” risate generali. “Fate storie per una cucchiaiata di più o di meno? “Tutto si accomoda, riprendete il vostro carico ed andate” . La zuffa fini e la folla, soddisfatta di quel numero fuori programma, si diradò.

Le donne cercarono di ricomporsi alla meglio, ripresero fiato, ne avevano bisogno! e ripresero la lunga strada, così dura e senza speranza.

La storiella che vi ho raccontato sembra inventata; ma è vera, credetemi: è vera.

lo emigrai dal paese tanti anni fa e non seppi più nulla di Femia e di Cristina. Svanirono forse come ombre nel nulla e nessuno vi fece caso. Che ora non siano in qualche remoto, dimesso, sperduto cantuccio, perché no? di paradiso? Perché avevano sofferto inferno e purgatorio in terra, e Dio offre sempre agli umili la Sua immensa pietà.

 

 

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