ANDREA DI GRAZIA di Pancrazio, nato il 1906, piccolo proprietario, coltivatore diretto, Tricarico, Matera.

NOTA DI Rocco SCOTELLARO.

     Tricarico è sede vescovile; il vescovo che venne sul cavallo bianco il 1925 è, malgrado i suoi 74 anni, .rosso in volto, robusto e un po’ grasso, ma ancora agile: è giudicato come uno dei vescovi moderni che attivizza il clero della diocesi e lo impegna in istituzioni benefiche, dagli asili ai mendicicomi, e manda in Italia e all’estero, fino in Brasile, le suore di Gesù Eucaristico, congregazione da lui creata. A Tricarico ha dato muri nuovi e impianti moderni alla vecchia casa vescovile, ai monasteri di Sant’ Antonio e di Santa Chiara, già morti ruderi per colombi e cornacchie, ora squillanti di campanelli elettrici e voci femminili delle suore, delle convittrici del Magistrale parificato, delle allieve delle scuole di taglio e di cucito e di ricamo, e ha dato energia, gentilezza ed eleganza ai sacerdoti, sebbene molti di questi, i vecchi, siano ancora impenetrabili come contadini, altri, i giovani, diplomatici e faziosi. Gli artigiani, i commercianti e qualche contadino hanno visto nella carriera ecclesiastica dei loro figli promettenti un investimento sicuro, agevolato dal contributo del vescovo moderno e comprensivo.

Di Grazia Andrea, cattolico, come egli dirà, « perché Dio esiste perché esiste di padre in figlio» un po’ come la magia e la superstizione e i riti pagani della benedizione dei campi, fu toccato dalla lusinghiera grandezza del prete il 1938 (egli non lo dice, ma è così), quando si svolse, per opera del buon vescovo, un grande Congresso Eucaristico al quale parteciparono ben 13 cardinali e vescovi e le Autorità civili e militari nelle sahariane bianche del sole di settembre. E ci fu l’ impianto del microfono, sull’altare eretto in piazza, da dove i canti delle suore e i discorsi correvano sulla folla e toccavano le montagne. Infatti Di Grazia Andrea, contadino povero allora, basso un metro e cinquantadue, porta, a distanza di 15 anni, dal 1938 il distintivo di quel congresso, di alluminio a forma ovale che rassomiglia stranamente al distintivo dei privilegiati invalidi o mutilati di guerra, che vivono di pensione.

Il 1943 Di Grazia aveva già fatto delle compere di terra, aveva anche la casa, riscuoteva gli assegni familiari, si può dire che stava relativamente comodo. Mentre per gli altri contadini, come lui, comincia da quegli anni la vita migliore, il primo profitto e il primo risparmio, Di Grazia, che crede nella forza della personalità con l’aiuto di Dio, vuole avvicinarsi alle categorie più elette e avvia due figli allo studio. Ma sa di non farcela, le sue forze sono limitate: il figlio maggiore lo deve far prete, seguendo l’esempio dei più avveduti; e spera nell’aiuto del vescovo buono, che non glielo nega e nemmeno glielo dà, a sentire il Di Grazia, che fu, invece, agevolato nel pagamento di rette ridotte, essendo, risaputo in paese che tale trattamento è esteso dal vescovo a quasi tutti i genitori dei seminaristi, dei quali poi molti, un anno o l’altro, « si spogliano» per proseguire gli studi statali e diventare chi maestro, chi veterinario. Chi arriva alla messa è «la grandezza» della famiglia: «Beata quella casa dove cappello di prete trase ».

Ma il figlio di Di Grazia né si spoglia né potrà arrivare alla messa da prete diocesano, perché è capitato questo particolare, riferito in confidenza: i frati missionari, ogni tanto, vanno in giro nei seminari in cerca di giovani anime disposte alla più grande rinuncia del mondo. Capitò nel seminario di Salerno uno di questi frati e chiese al Padre Rettore se c’era qualcuna di quelle anime disposte. Nessuna avrebbe osservato, in prima, il Rettore, ‘e, dopo un momento di meditazione- forse uno sì, il Di Grazia Pancrazio di Andrea. E lo avrebbero «convinto» il figlio di Andrea, con tutte le buone maniere, con tutte le lusinghe; Andrea dice « convinto », e rotola le mani aperte per dire quasi «imbrogliato ».

Andrea ora racconta la sua storia: è fiero del suo lavoro e delle sue svariate specializzazioni (una vera, di innestatore, le altre più che specializzazioni sono le’ pratiche diverse sapute da quasi tutti questi contadini usi a piantar vigne e a far seminativi).

Ricorda con orgoglio le sue origini di giornaliero, accentua il fatto di essere arrivato senza dare troppa importanza all’eredità sua e di sua moglie, al buon accordo con i proprietari che gli cedono in fitto altri pochi ettari, sicuri che lui non chiederà il 50 e il 30 per cento di riduzione del prezzo di estaglio e avrà in cambio il beneficio o il privilegio di tagliar legna.

Oggi dice di aver venduto un pezzo di terra per il debito di 500.000 lire contratto per lo studio dei due figli, ma un altro pezzo ha comprato, che è una meraviglia.

Come togliersi il debito? Da qualche giorno, mentre il giovane genero va a lavorare le terre di Andrea, lui è riuscito a farsi assumere dal Centro di Colonizzazione dell’ Ente Riforma. Gli altri contadini lo accusano di abbandonare le terre per l’impiego e il lavoro all’ Ente, che fa ingiustizie; lui si scuserà protestando il debito.

A parte questo, indubbiamente, Di Grazia è un contadino attivo, si muove svelto come per compensare la sua piccola statura, è sempre riuscito e parla di sé con vanto ma anche con la umiltà dei contadini. Eccolo. Alcune pagine le ha scritte di suo pugno, le altre sono dettate.

 

 

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