INFANZIA FAMIGLIA E SCUOLA.

DOLORE E GIOIA E SACRIFICI DELLA MIA VITA.

     Mio nonno era nativo di Calvello, si chiamava Di Grazia Nicola. Venne a Tricarico come tanti forestieri. Si ammogliò a Tricarico, si prese la mia nonna che si chiamava Miraglia Domenica. Ecco la discendenza della mia famiglia, da dove ne è venuta e come si è potuta risolvere. Ebbene un forestiero, che non aveva niente, e la povera nonna peggio. Eccolo il tiro appresso[1] come ne è venuto, che quando si sposò mio defunto padre mi contava che l’indumento non l’aveva, glielo prestò un certo Centoducati Antonio per comparire: glie, calzone e giacca; il cappello lo prestò un altro amico che si chiamava Caravello Pancrazio fu Nunzio, e cosi sposò. Questa è la discendenza di mia famiglia.

Mio padre, onesto lavoratore giornaliero, quando trovava la giornata presso terzo ci andava, e anche la povera defunta mamma. E quando mio padre non trovava la giornata, se ne andava a una contrada che si chiama Mezzana di Ferri, proprietà di Santoro Giovanni. Il povero padre lavorava il giorno con la zappa e la sera ci portava la fascia di legna addosso, o qualche ceppo, per farei riscaldare a noi, che eravamo quattro figli, e la povera mamma più di qualche sera gli andava incontro per aiutarlo.

Nella casa si viveva molto povero. Quanto mi viene impresso che qualche giorno ci mancava il proprio pane, e noi che ci crescevamo tutti lacerati … povera mamma, ci rattoppava i nostri indumenti la notte, ché la santa giornata andava in campagna.

Io, arrivato di sei anni, mi mandarono a scuola, e nella casa non c’era potere di comprarmi neanche i libri. Arrivato alla quarta elementare, non mi poterono fare più continuare, ché mancava la possibilità. Di dieci anni mi portarono per la campagna, insegnandomi di fare le sarchiature al grano, e altri frumenti. Quando mio padre andava a mietere, veniva anche la povera mamma a spigolare e mi portavano anche a me, che radunavo le spighe di grano, e mia madre si portava la sacchetta attaccata in cinta, e io quando le davo le spighe come si consolava. Quanto si viveva povero! Non solo quando era tempo della mietitura mi portavano a spigolare, ma quando ancora, povero padre e madre dopo la raccolta degli ulivi, mi portavano a spigolare le ulive; e quanti insulti che ci sentivamo! Un giorno mia madre pianse. Spigolava e c’ero pure io e altre due donne, che un proprietario venne, che si chiamava Lorigi Giovanni fu Luigi, strappò quelle poche olive che erano spigolate, tanto alla povera mamma che a queste due donne. Io, ero piccino di dieci anni… come ricordo la nostra povertà!

Poi io cominciai a far grande e andare a lavorare presso terzo, facendo le sarchiature al grano e fave; cominciavo a guadagnare pochi soldi e il pane che mangiavo, e, passando degli anni, mi feci solito giornaliero e il popolo mi acclamava primo con lode di Dio. Mi sono insegnato tutti i mestieri in agricoltura, e, per dire il mio racconto della vita, sacrificato da giornaliero in proprio, io ho fatto tutti i mestieri: mi sono avviato da nullatenente, ho pagato dodici anni la pigione di fitto di casa, dallo gennaio 1927 al 1938, mi sono acquistato la propria casa nel 1938, e primi acquisti dei terreni 1935-36.

Per dire il fatto di quando mi feci grande: mi invitarono a tenere il battesimo, e io avevo 16 anni. Il comparello si chiamava Monaco Paolo e il padre Monaco Innocenzo; mi conoscevano nei lavori, che ero onesto. Appena dopo tenuto questo battesimo, più di qualche altro battesimo ho tenuto, e la mia gioventù andava larga e gloriosa. La defunta madre diceva: – Sì, ti fai tanti compari e commare, ma, se ti guadagni qualche soldo, te lo consumi tu stesso -, però me lo diceva per dire, ma io mi accorgevo che lo diceva con gioia.

E per dire del primo compare Innocenzo Monaco, mi portò a mietere a Pisticci e poi a Grassano. Il mio defunto padre e mia madre non volevano che io ci andassi, ma io, capriccio, ci andai – neanche se dovevo andare in America – a Pisticci e Grassano, senza sapere che dovevo dormire nella piazza a terra. Delle belle giornate faceva qualche temporale oppure freddo, e ci toccava di andare vicino a qualche padrone se ci faceva dormire in qualche pagliera. Veramente capitammo per dormire dentro una pagliera di un padrone che si chiama Michele Selvaggi fu Innocenzo, di Grassano, e mentre che non mi veniva sonno, tante le spine che c’erano in quella paglia e foraggio, e i topi che ce n’erano in quantità, mi veniva impresso quando dicevano i genitori: – chi non intende a mamma e padre face la morte delli cani -. Mi guadagnai lire 100, con la giornata che prendevo di 8 lire al giorno, stetti 13 giorni. ché qualche giorno non si lavorava con riguardo del tempo.

Il lavoro della mietitura l’ ho continuato parecchi anni in paesi forestieri, e dopo della mietitura, riprendevo l’innestatura in viticultura, a zufolo, e occhietti, e anche in arboree. Questa innestatura se ne va di tempo fino al 15 settembre e si comincia all’ inizio di luglio; dopo si riprendono le arature per la preparazione dei frumenti.

Per continuare il racconto della mia vita, ora io ci avevo pratica con tanti, anche delle signorine. Arrivato all’età di 18 anni, mi ero innamorato di una signorina che si chiama Bolettieri Franceschìna, nativa di Grassano, e si stava con il nonno di battesimo, a Tricarico. La dichiarai, e essa fu tutta felice e contenta e mi disse di sì. Ci andavo a casa a fare l’amore, ma c’era la moglie del nonno, che si chiamava Carmela. Questi erano vecchietti, e dopo andato un poco di tempo mi cominciarono a dire: – Devi portare tuo padre e tua madre-. Ma io non avevo quel coraggio di dirlo a mio padre e mia madre, perché l’età non mi permetteva: avevo appena 18 anni. Ma un giorno mi cominciai a sfrontare a dirlo a mia madre, e dopo andò alle orecchie di mio padre, fin quando mi rusci a portarlì a casa della sposa: i vecchietti della sposa, tutti contenti. Ma però mio padre e mia madre dicerono: – Vedi, questo è piccolo, c’ è tempo per sposarsi -, e loro non risposero, ma dicerono che anche essa è piccola. Ci frequentai circa dieci mesi, e dopo mi cominciarono a dire di sposarrnì, ma io rispondevo: – Come siamo rimasti con mio padre e mia madre? che si presero 4 anni di tempo -. In tutto ciò una sera mi fanno trovare la porta chiusa; allora la Franceschina, dopo che loro erano addormentati, si affaccia alla finestra, dicendomi: – Non curare a loro, mi devi pensare a me, che io ti stimo tanto -. Allora io che ero troppo affezionato ci andavo tutte le sere: trovavo la porta chiusa, ma con Franceschina stavamo sempre in accordo di qualunque appuntamento. Se ne accorse la nonna di Franceschina, e quando mi vedeva di passare, come si faceva a sentenzie che mi mandava![2] Ma era bello: quando suonavano le campane della chiesa di Santa Chiara, si tozzava vicino al muro con la testa[3]. lo con la povera Franceschina stavamo sempre in accordo di poterei parlare e scriverei da parte a parte, ma, dato di questi capricci della nonna, fui costretto ad allontanarmi. Della povera Franceschina mi dispiaceva, dichiarai un’altra fidanzata, che sarebbe mia moglie, ma mi scriveva sempre Franceschina rimasta tanto dispiaciuta.

Intanto giunto all’età di 21 anni mi sposai con mia moglie, che si chiama Spano Anna di Mauro. lo, come ho detto che conoscevo tutti i mestieri, mi facevo i concerti[4]: – Mi sposo, ma sono sicuro che a mia moglie non mancherà il pane -. Perché io sapevo lavorare, di fatti sposai e non avevo niente.

Andai a stare nei primi tempi con i miei genitori, che dicevano che mi dovevano fare tutti i mobili e mi dovevano calzare e vestire. Sono stato per la durata di sei mesi: frequentando i lavori di innestatura, guadagnavo molti soldi e consegnavo tutto ai genitori perché convivevo con loro; ma, dato che dopo sei mesi non mi dettero nemmeno una forchetta e neanche un paio di pantaloni, dissi a mia moglie (ma avevo già parlato con un certo Mazzone Michele che mi doveva dare la casa) che me ne dovevo uscire: – Tu scàsati la roba e và da Michele Mazzone, che ci dà la casa -. Ci mettemmo a casa separata dai genitori, in fitto: era di un solo vano a piano terreno, pagavo 300 lire nel 1928.

lo avevo 30 are di terreno date dalla felice memoria di mio padre: era seminativo, e io facevo sempre il giornaliero. Dopo un altro anno, mio padre, invece dei mobili, mi dette altre 20 are di terreno, e me le trasformai a vigneto. Con i lavori, mi mettevo qualche cento lire da parte fino a accumulare qualche mille lire il 1934-35; allora, il ’36, ho comprato già la prima terra di are 70, seminativo di terza classe, al prezzo di L. 500 di quell’epoca: me la vendette una certa Montesano Carmela (era una quota comunale) che se ne doveva andare in Argentina a raggiungere il marito. Questo terreno me lo feci maggese, l’anno seguente ci misi il grano e feci 10 quintali; il grano andava a 100 lire al quintale, presi 1000 lire già su quella terra che io ci avevo speso L. 500. Fu una bella resa e mi comprai l’anno appresso un altro pezzo di terra, vicino al primo, da Bonfiglio Maria Carmela, vedova, che aveva dei debiti, e la pagai L. 1600, era di 97 are. Il primo anno era di prima semente, feci 50 tomoli di biada e orzo, effettivamente una resa fortunata a Manca della Matina (anche questa comunale), e così ancora l’anno appresso mi presi un’altra quota in contrada Bocconero vicino .alla Matina, di are 97 al prezzo di L. 2000 da Mancinelli Giuseppe, che fece la divisione col fratello (la moglie gli aveva mancato e lui con quei soldi andò – aveva poco giudizio – nel convento di Sant’ Antonio: era un po’ stupido, poco spiegabile con la voce, faceva le cuccume con la lingua).

La giornata era di L. 7,50 a scatenare e zappare, ma io riuscivo a mestieri delicati di innestatore con L. 15 al giorno e a fare in un anno circa 90 giorni di innestatura.

La terra di Mancinelli la trovai maggese, perciò la pagai di più, e la resa fu 30 tomoli di grano (15 quintali). Il grano rialzò il 1937 a 150 lire al quintale. Poi la fortuna ancora venne che mi dette 2 tomoli di terreno mio suocero, già promesso in dote; ma non mettemmo i limiti della divisione e dopo pochi anni ci fu una questione con i fratelli di mia moglie e col padre. Questo mi aveva fatto la cambiale per 2000 lire di dote, ma la sfortuna fu che morì mia suocera, e le cambiali si trovarono in mano a mio suocero. Volevano farmi fare pure lo spostamento del terreno da un punto a un altro e nacquero delle questioni: io non ci avevo neanche una testimonianza e mi facevano minaccie tremende tutti di famiglia, il fratello di mia moglie con tutti i cugini, di farmi piangere.

Quell’anno (1938), 2 giugno – non posso mai dimenticare quella giornata – mi minacciarono di non farmi raccogliere il grano di quella partita di terreno. lo, veramente, dato che eravamo di famiglia, non pensai di fare una denuncia. Dopo aver fatto tutti i lavori, fatta la bica di grano sull’aia, mi bruciarono il grano la notte del 14-15 luglio. lo mi trovavo in contrada Montepiano, venendomi a dire che dovevo misurare la mula alla Commissione Militare. Arrivando trovai la gente per avanti e dicevano: – Mo’ si ritira -, senza dirmi il fatto, ma io mi accorsi di qualche cosa, di qualche disgrazia. Proprio a 100 metri dal paese una donna disse: – Poveretto, mo’ si ritira, a questo hanno arso il grano -. Subito mi recai alla Caserma e, facendomi interrogazioni, mi dicevano: – Con chi hai avuto questione? – lo dissi la pura verità: – Guardate il mio casellario che non ci ho neanche una testimonianza. Soltanto una questione l’ ho fatta con i famigliari di mia moglie il 2 giugno, minacciandomi di non farmi cogliere il grano e di farmi piangere -. E io figurati il pianto che facevo.

All’ indizio mio vennero chiamati tutti quanti, ma dichiararono che sul posto non girava nessuno di loro in quella nottata dell’ incendio: proprio loro, che non si ritiravano mai da una casetta in campagna che hanno vicino, quella sera dimostrarono che stavano tutti in paese. Il verbale si fece e la causa, ma uscirono assoluti con insufficienza di prove, perché chi li aveva visti? E le lacrime mie quando non mi vedeva nessuno!

Proprio quell’anno (1938) mi ero già prenotato di comnprarrni la casa della signora vedova Uricchio e le avevo dato la caparra di 5000 lire per fare l’ istrumento nel mese di ottobre, dopo il raccolto, perché non mi arrivavano i soldi e anche le 5000 lire le trovai in prestito, stanco di pagare la pigione di fitto. A ottobre la signora Uricchio, che se la vendette per aiutare i figli che studiavano, mi costrinse a fare l’ istrumento: 10.500 lire me le dovetti fare tutte a debito, che sono un milione e 500 mila lire di adesso. lo stavo sempre piangendo: – Mi sono comprato la casa e me la devo vendere un’altra volta -; e dicevo nei giorni: – Dio mio, Madonna mia dammi la forza.

Mi venne in testa di seminare, l’anno seguente, il lino; mi feci venire la semente dal Consorzio Agrario di Matera, Kg. 40, e seminai a contrada Montepiano. Ecco quel che significa fortuna e sfortuna. Iddio quando ti vuole aiutare! … e i pensieri come vengono. Un amico di Montescaglioso mi fece venire il pensiero di mettere il lino, faccio 14 quintali, lo vendo a L. 650 il quintale (adesso va a 17.000 al quintale), vendo perfino la paglia a uno di Irsina a L. 200 al quintale: 10 quintali. Dunque fatti il conto, che il lino mi ristabilì tutto. Quando Dio ti vuole aiutare, e il buon pensiero … Risanai tutto il debito col solo lino.

Nella casa di mio suocero, nella famiglia di mia moglie, io neanche mettevo il piede da dopo l’incendio, e abbiamo fatto pace per riguardo dei figli grandi e di mio figlio che si fa prete.

Non ho fatto la guerra, ma ho partecipato per regali, ho dato grano e rame.

Se fosse venuto un angelo nelle tristi condizioni dopo l’incendio a dirmi che dovevano cambiare le condizioni fisiche della famiglia, io avrei detto: – Angelo, vattene via ché tu mi conti una fesseria.

I miei ragazzi andavano a scuola, io sempre solo a lavorare. Non mi sono visto mai nessuno vicino: con terreni distaccati in tante zone e con spostamento a tutti i mestieri, pure se avevo bisogno di una bevuta d’acqua, non c’era nessuno; dovevo io andarla a prendere e passavano anche giornate senza bere nelle Matine, dove non c’ è un pozzo. E la notte, con le tempeste che capitavano in campagna, sempre solo, pensavo a Dio: «Se i figli miei devono fare questi mestieri che ci tengo io meglio che muoiono o che fanno i ladri ». Quando io stavo con l’acqua addosso, mi toglievo i vestiti e restavo nudo vicino al fuoco e quante botte di spine e cadute.

Ho quattro figli:

Teresa, di anni 26, sposata a un piccolo proprietario;

Pancrazio, di anni 22, che prende la messa tra tre anni, nel 1956;

Mauro, di anni 21, studente di III liceo;

Maria Carmela, di anni 16, che aiuta la madre in casa.

Volevo far studiare Pancrazio, ma dato che la possibilità non c’era, l’ ho mandato con tre anni di ritardo, nel 1943, quando mi ripigliai di più, come tutti i contadini, con l’aumento del grano. Lo misi nel seminario di Potenza, lo misi con l’intenzione di farlo studiare da prete diocesano. L’intenzione mia era di farlo studiare, ma la vocazione è venuta a lui.

Frequentando gli anni, è passato al liceo del Seminario a Salerno. lo ci sospettavo questo: tutto il mio piacere, tutta la lode di Dio di avere un figlio sacerdote e, se si guastava, era un dispiacere per me se se ne usciva. Ma intanto Dio ha voluto ancora una vocazione superiore, di farlo andare nei Missionari di Oblata Im- macolata Maria a Ripalimusano (provincia di Campobasso), dove ora fa il noviziato dal 14 dicembre 1952.

Quando veniva in licenza, figurati la mortificazione ‘e il dolore. Tanti sacrifici io ho fatto per lui, 9 anni in Seminario a pagare 74-75 mila lire a Potenza, 84-85 mila lire a Salerno, senza degli indumenti: una sola sottana 10-12 mila lire. Più di 100 mila lire all’anno. In tempo di guerra che non si poteva avere nulla, quando non bastava il Seminario, mi scrivevano di portare qualche cosa.

È una mortificazione a fare un giovane grande di 22 anni e poi non vederlo più. lo non gli ho scritto neanche, con questo disturbo che mi ha dato di farsi missionario. Però lui venne quando fu la votazione del 7 giugno. lo stavo facendo l’istruttore alle ACLI di agricoltura generale, vado a casa e trovo lui. Non gli dissi nulla. Pancrazio mi chiamò: era rimasto mortificato, quasi piangeva. Allora io gli domando: – Come hai fatto tu di fare questo spostamento, da prete diocesano andare nelle missioni? Come, io non volevo pagare? lo stavo in corrente a pagare -. E gli dissi: – Tu pensaci se puoi ritornare ancora a Salerno -. Lui mi confortò, disse: – Babbo, io mi faccio sacerdote per salvare le anime facendo la carità, non mi faccio sacerdote per tenere la casa o per la famiglia o per la campagna, perché sono scrupolosissimo delle critiche. Dio mi ha voluto così e io debbo essere a sua soddisfazione-. E io gli risposi: – Pensaci, che io ho 500 mila lire di debiti per fare studiare a voi, a te e a tuo fratello. E sto lavorando per il solo interesse che devo pagare ai creditori; pensaci che ho venduto anche un pezzettino di terreno il 1952 (quello di 70 are che mi presi per 500 lire), e mi dovrò vendere ancora la vigna e gli ulivi per saldare il debito che io tengo. Ma mi vorrei vendere anche qualche altra cosa, pure che tu ritornassi al solito posto a Salerno -. Ma non è stato possibile. Adesso, per amore di padre, ho cominciato a rispondere a qualche lettera, ma lui è tutto contento e io sempre mortificato.

L’altro figlio, Mauro, è andato alle scuole a 14 anni nel 1945, ha studiato da privato tre anni in paese fino al III ginnasio, poi, promosso, è rimasto a studiare a Matera, 15.000 lire al mese per la pensione dove sta. È arrivato al III liceo. Di Mauro sono ancora più contento, perché, se pure ho fatto i miei sacrifici e dolori, come ho detto, pure che non mi dà qualche poco di aiuto, è una grandezza che lo vedo sempre. Vorrei che si sposasse con una signorina di famiglia nobile e anche studiosa, perché io gli do un titolo di studio: e così sarei ancora più contento.

Adesso sto sempre solo, come sono sempre stato; faccio i seminativi – 5 etlari in proprielà e 2 ettari in fitto -, coltivo un ettaro di vigneto e 50 are di oliveto; nel mese di marzo faccio gli innesti nelle vigne a corona, frequento la potatura a febbraio per terzi, innesto a zufolo gli oliveti (agli olivastri da maggio a giugno), muovendomi sempre da una contrada all’altra, e anche nel mese di luglio.

D’inverno faccio il frantoiano a mezzadria: noi facciamo la mano d’opera e il diretto padrone mette il frantoio attrezzato di tutto, e l’utile è a metà per ciascuno. A un frantoiano può venire in media 70-80 chilogrammi di olio e in denaro 15-20 mila lire per la vendita delle sanse, ma noi frantoiani partecipiamo a tutte le spese e tasse (legna, luce, acqua, ricchezza mobile e assicurazione), metà noi e metà il padrone. Faccio il frantoiano dal 1° dicembre, secondo la campagna delle ulive, fino al 10 gennaio e la vita sta sempre in movimento: finisce un fatto e piglia un altro.

Ora che stiamo tanto in contatto di coltivazioni e mestieri in agricoltura, c’ è una natura di entrare in politica per la propria famiglia e personalmente. lo trovo questo contrasto tra comunisti, socialisti, democristiani e altri partiti di tante specie, Movimento Sociale, saragattiano, Partito Liberale, monarchia e repubblicano. Il mio partito dell’ idea politica è la Democrazia[5], ma in che senso? Non col fatto che ci faccio mio figlio sacerdote, ma che i miei antenati e la famiglia sono stati sempre democratici credendo sempre in Dio; non col fatto del partito, ma credendo alla voce di un essere, di Dio, in contrasto di tanti amici e parenti che dicono che Dio non c’è, quando stanno bene, e, quando si vedono un po’ malamente, chiamano Dio. lo porto dei. paragoni: i miei figli il mio nonno non lo possono ricordare, ma noi glielo facciamo vedere: – Questo era il nonno -. Allora si possono rammentare. Con i paragoni si fanno dei buoni concetti: segno che sarà vero. E un essere significa che c’ è di padre in figlio. Gli evangelisti. credono soltanto in Dio, ma io credo che altri santi ci sono, perché quando uno si vede o a un temporale o che deve passare un fiume: – Oh Madonna mia, evitami da questo pericolo -, e agli altri santi la gente va scalza, a Tolve per San Rocco e a Foggia per l’ Incoronata.

Degli spiriti e magia io sento dire e effettivamente io non credo e credo. lo ho avuto un fratello malato, e c’era uno che sapeva fare fatture e sapeva guastarle. lo veramente non credevo, ma, per tenere contenta la propria madre, mi toccò andare a trovare questo individuo, lontano, nella marina a Ginosa e a Genzano, a Grassano. Chissà quanti soldi ci ha sciupati senza aver ricavato niente; lo portammo fino all’ospedale pagandogli il viaggio a Napoli, che a me veniva il desiderio di menarlo dal treno perché mio fratello non aveva migliorie. Quello di Grassano diceva che erano gli spiriti, non più fatture e volle un coniglio da mia madre, che glielo portò perché lui diceva che la malattia la doveva levare a mio fratello e metterla in testa al coniglio. A me si imbrogliavano gli intestini in pancia per la rabbia, perché lui si mangiò il coniglio. C’erano tanti conigli di altra gente e io me ne accorgevo; qualcuno gli portava qualche gallo buono e come ingrassavano, secondo me, se li mangiava. Ma però riusciva a qualcheduno la magia, o per volontà di Dio che dovevano stare bene o per opera della fattura. L’essenziale, che quello si mangiava i conigli. Mio fratello morì all’ospedale.

La benedizione dei campi è utile. Qui io ci trovo un contrasto: credo in Dio e così credo allo scongiuro contro i temporali. Lo fa chi lo sa fare, anche i sacerdoti, ma anche persone così, che dicono parole per fare allontanare il tempo brutto e lo mandano a qualche altro punto o lo fermano dove si trova, dove non fa danno. lo ho visto Nicola Sabbatone, contadino, che ha fermato il tempo brutto e lo ha fatto scomparire, e Lacertosa Carmine, che l’ ha fatto davanti a me. Le parole non ce l’ hanno insegnate; alcuni fanno un cerchio per terra e mettono un coltello in mezzo o un crocifisso, dicendo 33 Credo con le parole all’avanti e all’ indietro, e nominano quando è stato il giorno di Natale, se è di giovedì, venerdì ecc.

A nome del Padre e del Figliuolo

e dello Spirito Santo allontanatevi

come spirito maligno, io ti scongiuro

e poi dicono le altre parole. Certo il clima, la temperatura, i venti e le trasformazioni di temperatura sono conosciuti dagli scienziati, ma anche la scienza è un dono di Dio. La benedizione per la campagna si fa per farla, per lode di Dio, ma però la siccità può venire ugualmente perché è proprio la temperatura che apporta così : qui non c’è la irrigazione a pioggia e anche con la benedizione non raccogli niente, perché la bene- dizione propria è l’acqua a tempo e il clima opportuno e, prima cosa, fare i lavori per bene.

Ogni domenica vado a messa. La sera, la preghiera, mi faccio solo la croce. Ho letto i libri della quinta elementare e manuali di agricoltura. Sono socio del- l’Associazione Cattolica, che ha il fine di credere sem- pre in Dio e che effettivamente c’ è l’inferno per salvare l’anima.

Una mattina mi alzai e andai nella stalla, mi alzai così bello (perché alla magia credo e non credo) … ma vado per prendere la striglia per strigliare la mula e non fui capace di strigliare la mula (mi devi credere per la giornata di oggi); mi si spezzarono le braccia, mi vennero dolori al petto, ma dolori forti; piano piano potetti salire a casa e la striglia la buttai a terra. Mia moglie aveva messo la semente nei sacchi e aggiustato la spesa (il pane e companatico) per partire alla campagna, e non fu possibile, non andai in campagna, mi andai a mettere sul letto e i dolori erano peggiori. Mia moglie (1946) si recò subito da Antonio ‘u Petrogliaro, fattucchiaro che è morto, faceva il fornaio. Venne questo, mi passò le mani sul petto e sulle spalle e verso la sera i dolori passarono. Il medico non lo chiamai e 11 giorno appresso scomparirono i dolori e ripresi andare a lavorare. Erano le tre del mattino quando scesi in stalla, alle tre e mezzo stavo male e il fornaio era lì vicino perché si alzava presto. Mia moglie sapeva che il Petrogliaro era capaée a fare queste cose. lo quando lo vidi dissi: – Sarebbe bene che me li facessi passare i dolori -. Mi disse che mi avevano fatto la fattura che mi doveva far morire o rimanere storpio. Poi si vantò anche: – Vuoi vedere che non ti faccio fare niente con tua moglie? lo son capace che la tieni vicina e non te la faccio toccare -. lo lo minacciai scherzando: – Quant’ è vero Dio, se fai una cosa di questa ti uccido -. Un po’ di paura ce l’avevo perché in 24 ore mi aveva fatto sanare.

In conclusione credo e non credo. Dai preti non conosco mai un bene, il bene che conosco è il fatto di mio figlio: e poi ti dicono di fare la strada buona e di educare i figli modesti e religiosi.

La legge di Mussolini mi piaceva come disciplina ed effettivamente era buona, coi ladri precisamente. Ma non ti potevi fidare dentro un lavoro o in piazza, che era preso un sopravvento[6] che chi parlava contro del Duce era esiliato, ma senza commettere niente. I con- finati che stavano qui erano uomini di politica, che avevano detto male del Duce. C’erano operai, muratori e pittori e Renato Bitossi,che era meccanico, e qualche impiegato pure: erano brava gente anche di buona vista e lavoratori. I preti non potevano essere esiliati perché c’era una colleganza fra il Papa, il Re e il Duce e giravano tutti nel ramo di quel partito. Col regime fascista i preti avevano l’interesse di fare propaganda e di avere il sopravvento loro, come lo avevano, e comandavano insieme al segretario politico e tutte le altre autorità.

Il fascismo aveva un terremoto di impiegati, era un esercito regolare. Quando è finito il fascio, tutti non erano più fascisti e i caporioni del fascio sono andati nella Democrazia Cristiana; ma adesso i grandi grossisti si sono rivoltati e non ci sono più nella Democrazia, e vanno col Movimento Sociale e con la monarchia, perché credevano di essere agevolati e di tenere sempre il comando loro e intanto hanno visto che hanno pagato contributi di guerra, tasse straordinarie e toccate le terre: la Democrazia non la possono più vedere.

Ora noi che siamo rimasti dobbiamo fare accordi con i socialisti veri, non con i comunisti, che vogliono essere tutti uguali, perché l’altezza della persona si deve rispettare. C’è differenza tra gli uomini e c’è differenza tra i terreni e gli animali: chi è di altitudine e di bellezza, lo è per un particolare di stato fisico di natura: anche sul personale è così. Tra cinquanta piantoni uno deve essere il migliore. Il cervello mio, per esempio, è combinato in questo senso: che adesso zappo, ma penso a diversi punti.

Così quando mi dissero di andare al Congresso dei coltivatori diretti a Roma, io pensai questo ordine del giorno, che dovevo presentare all’ Eccellenza De Gasperi, ma poi non fu possibile.

PROVINCIA DI MATERA

SEZIONE COLTIVATORI DIRETTI DI TRICARICO

lo sottoscritto Di Grazia Andrea fu Pancrazio, operaio agricolo e istruttore in viticolture e selvicolture, faccio questo ordine del giorno a nome di tutti i coltivatori diretti.

1) lo vorrei sapere con chi lavora il coltivatore diretto.

Lavora con la collettività di tutti: significa che lavora con lo Stato, prepara tutto per l’efficienza dello Stato, con la sua intelligenza. Lavora la sua azienda per farla fruttare quanto più è possibile su tutte le materie, tanto in viticolture e cereali, e in arboricoltura di ogni specie di piantagioni, e anche in allevamenti zootecnici, tanto da carne che da latte. lo trovo questo contrasto su questi coltivatori diretti: dopo avere versato allo Stato tanti di quei contributi, sia per il grano che per il vino, e sia per l’olio e la frutta d’ogni specie, carne, latte, uova, ecc., è un dispiacere per un coltivatore diretto non essere a posto con la Mutua Malattie, prima base. e neanche partecipare alla pensione per l’invalidità e vecchiaia, dopo aver lavorato per lo Stato! E per questo io faccio questo ordine del giorno, perché non è giusto quanto si verifica, che un operaio che lavora sotto una ditta, o giornaliero presso terzi, è a posto in tutto, tanto per gli assegni, tanto per la Mutua Malattie, e tanto per la pensione per l’invalidità e vecchiaia. Questi sono a posto per i fatti loro, ma più a posto sono gli operai industriali, che prendono gli assegni anche quando non lavorano, e metà giornata! E io per questo voglio spiegare le cose come stanno. Poveri noi tutti coltivatori, nessuno ci pensa fino a quest’ora; siamo buoni solo a pagare contributi unificati, tasse fondiarie, profitti di guerra, e quando viene una cattiva annata, o di siccità o di deperimento per rugiada o grandine, poveri noi! Pensate che in questo nostro mestiere si campa di speranza, e questa speranza più di qualche anno si perde, e le tasse bisogna pagarle. Questo è l’incoraggiamento all’agricoltore! lo non ho dimenticato quanto ha detto la radio, che dovevate mettere a posto i coltivatori diretti.

2) Pensate che io sono un operaio agricolo, e così tutti i partecipanti a questo VII Congresso nazionale coltivatori diretti, e con tanta simpatia e fiducia e piacere di venire a celebrare questa festa di questo congresso, e di vedere Sua Eccellenza Padre Pio 12 celebrare la Santa Messa a Piazza San Pietro.

3) Poi tengo a dire che ringraziamo Sua Eccellenza De Gasperi, Capo del Governo, di tante opere di ricostruzione compiute nella nostra Italia, che era ridotta che non si poteva guardare né camminare. E questo l’ammiriamo. Ma ora che l’Italia l’abbiamo ricostruita, io credo che le tasse fondiarie le potremmo pagare un poco in meno, secondo il nostro pensiero.

4) Adesso accenno un poco agli impiegati statali. Non sono mai contenti di quella mesata che prendono, vogliono sempre aumenti, vogliono fare sempre scioperi per avere aumenti. Poi il popolo si lamenta che la mesata che prendono è esagerata, oltre il 13° mensile, che non spetterebbe, perché l’anno è 12 mesi, non 13 mesi.

5) Signor Illustrissimo Onorevole Paolo Bonomi, Ministro dell’Agricoltura e dei coltivatori diretti, cercate di prendere in fiducia questo ordine del giorno, e di farlo presente a Sua Eccellenza il Capo del Governo De Gasperi. E noi preghiamo di mettere tutte le cose in regola, i prezzi tanto dei cereali che di tutte le specie di materie di alimentazione, e stoffe, e cuoiami, eccetera; e di creare più lavoro, ché quando c’ è lavoro in abbondanza, lavorano tutti indistintamente e si sta tranquilli. Come è la famiglia, così si va a lavorare: quello che non tiene niente lavora sempre, e quello che tiene qualche cosa lavora di meno. Quando si arriva a questo punto si diminuisce la disoccupazione e i soldi stanno sempre in giro. Noi vi preghiamo ancora con sollecitudine di questa riforma che non si è fatta ancora a Tricarico, e di dare le terre a chi è capace di coltivarle e conosce come farle progredire per la nostra nazione. lo sono stanco di sentire il popolo lamentarsi di questo che io vi ho spiegato, perché io e parecchi della Sezione siamo l’avanguardia della Democrazia, e siamo costretti a dire le cose come stanno. lo e altri avevamo deciso di scrivere all’Onorevole Emilio Colombo, a Montecitorio, di farglielo capire a Sua Eccellenza il Capo del Governo De Gasperi. Ma la fortuna ha voluto che venissimo noi personalmente, e perciò lo presentiamo noi direttamente con osservanza, a nome della Sezione di Tricarico, Provincia di Matera.

Tricarico, 21 marzo 1953.

Per la riforma agraria il mio pensiero è questo:

Una volta c’erano le grandi estensioni incolte e ognuno aveva la possibilità di coltivare animali, chi mille, chi duemila, chi cinquecento, ma di ogni specie, cioè vaccine, ovini, caprini, suini, cavalli e tutto. Ma ora che effettivamente la terra si riduce e si fanno trasformazioni per cui nelle grandi aziende vanno i piccoli concessionari, quella quantità di animali non si può più tenere. Per la coltura moderna, specialmente per il latte, anziché tenere 200 vacche di latte di allora ci bastano 20 di adesso: cioè oggi una vaccina o svizzera o olandese arriva alla tariffa di 70-75 litri di latte al giorno. Partendo cioè dal primo parto la vacca olandese di anni tre fa da 25 a 30 litri, e al secondo parto arriva dai 30 ai 45, e al terzo arriva a 70-75. Tirano così fino all’età di dieci anni, e poi cominciano a ritirarsi, come erano all’ inizio. Allora bisogna scegliere la vitellina di altitudine, cioè di razza buona, che servirà sempre per semente per i prossimi anni, perché quella di dieci anni viene rimpiazzata e portata al macello, non potendo più produrre come quando era giovane.

Dunque oggi, invece di duecento si tengono venti vaccine, e si ha la stessa produzione, anzi di più. Ma, date le trasformazioni, si deve rendere noto come allevare le venti vaccine, cioè che si tengono due ettari di terreno per foraggere, cioè un ettaro di erba medica e un ettaro di sulla e veccia, con miscuglio di favini e qual- che poco di crusca, qualche poco di aiuto di beverone, che è un’alimentazione nutritiva; e così si allevano quelle venti vaccine al chiuso in stalla, e con poca estensione di terreno.

L’Italia 1911-12 era di 25-26 milioni; dopo la guerra con la Turchia e la guerra mondiale 1915-18 l’Italia è’ giunta a 34-35 milioni; poi, nel periodo fascista è giunta a 44-45 milioni per le tasse celebri che si pagavano col defunto Duce, cioè con più milioni di umanità che non ci dovevano essere. Ora che è arrivato il tempo della riforma è com’ è, per esempio, allo stato fisico della famiglia, che un marito e moglie e otto figli che avevano di proprietà otto ettari di terreno, arrivata l’ora dello sposalizio dei figli, il povero padre dà a chi un ettaro a chi un altro ettaro, e scompare la proprietà che aveva uno solo, e va a finire che i figli con un ettaro ciascuno non possono vivere. Ecco che la riforma porta a questa conseguenza: quando ce li siamo divisi una volta questi grandi latifondi, due tre volte, pure dieci volte, per dire, la popolazione, come abbiamo detto, aumenta e non diminuisce. Dividendo tante e tante volte come si va a finire? che dobbiamo dividere? restano le rocce e il mare. E io non so il popolo nell’avvenire come dovrà regolarsi, come dovrà agire. La pensata mia, dei miei paragoni e consigli a certi amici contadini, su queste materie, è che per star comodi dovrebbero figliare le terre come figliano le mogli: allora ci potremmo trovare bene. Ma dato che la terra diminuisce e non aumenta, per frane e inondazioni e torrenti e burroni, io non so come pensarla. Il rimedio è che quel poco terreno sul quale si fa la riforma bisogna saperlo mettere in buono stato fisico di coltivazione, per far rendere la terra all’utilità familiare.

 

[1] ecco il seguito

[2] quante maledizioni mi mandava

[3] batteva la testa contro il muro

[4] calcoli

[5] Democrazia Cristiana

[6] che era divenuto consueto il sopruso

 

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