Il treno 8017 era una tradotta bisettimanale di carri vuoti. Partiva dalla stazione di Napoli, piazza Garibaldi, arrivava a Salerno dove veniva instradato sulla linea Battipaglia – Potenza; doveva caricare legnane che serviva per esigenze determinate dalla guerra e di competenza del Governo Militare Alleato, necessario per la ricostruzione di ponti nella zona di combattimento.

Nelle ore pomeridiane del 2 marzo 1944 partì da Napoli il treno che, lasciata la stazione di Balvano dopo la mezzanotte, non subì un incidente, non deviò, ma non giunse mai alla successiva stazione di Bella-Muro.

Il momento era difficilissimo. Mancavano tre lunghi mesi per la liberazione di Roma. I mezzi di trasporto pubblico e privato non esistevano più, le strade erano impraticabili perché la maggior parte dei ponti erano crollati. Il treno era l’unico mezzo di trasporto rimasto. Sulla linea Battipaglia-Potenza era previsto un treno la settimana, il mercoledì. Erano necessarie speciali autorizzazioni per effettuare treni viaggiatori, i convogli erano scortati e le stazioni erano sorvegliate per evitare viaggiatori abusivi, oltre il massimo dei viaggiatori previsti. Benché fosse espressamente vietato l’uso dei treni merci da parte dei civili, passeggeri o non, e di superare il numero massimo di viaggiatori previsti, e benché fossero effettuati controlli da forze militari, i treni, veri treni della fame, erano presi d’assalto. Non si aveva più di che vivere, è dire poco che i beni alimentari scarseggiavano, e la fame spingeva centinaia di persone a prendere d’assalto i treni per raggiungere le campagne del potentino per acquistare o barattare prodotti alimentari, ovvero per esercitare la borsa nera. Gli Alleati e il personale ferroviario si rendevano conto della situazione e chiudevano un occhio e anche due. Sarebbe stato, infatti, impossibile non vedere l’assalto ai treni, con la gente a cavalcioni sui respingenti o aggrappati sui predellini.

Il treno era composto da 47 carri, tra chiusi, pianali e a sponde alte. Come treno merci non doveva portare con se passeggeri all’infuori del personale di macchina e di un ufficiale italiano con sette soldati italiani autorizzati dagli Alleati per la scorta del treno stesso. Treno formalmente vuoto, quindi; ma in realtà stracarico.

Alla stazione di Salerno si provvide al cambio di trazione, mediante due locomotive a vapore alimentate a carbone, giacché dopo Battipaglia la linea non era più elettrificata.

Il carbone, fornito dagli Alleati, di provenienza jugoslava era di qualità assai scadente, di piccola pezzatura, con potere calorifero insufficiente e con molto zolfo, tant’è che i macchinisti restavano spesso storditi per i gas tossici che il carbone emanava.

Già da Salerno il treno aveva a bordo viaggiatori abusivi.

A Battipaglia la polizia americana fa scendere qualcuno, ma molti altri riuscirono a salire a bordo nelle stazioni successive. Dopo Eboli il treno recava circa 600 persone.

Il treno arriva alla stazione di Balvano-Ricigliano circa 12 minuti dopo la mezzanotte, per ripartire dopo 38 minuti di sosta.

Alle ore 0.50 il capostazione di Balvano-Ricigliano batte al telegrafo il segnale di “partito” al collega della stazione successiva, quella di Bella-Muro. Otto chilometri da percorrere in venti minuti circa. Una volta giunto alla stazione di Bella-Muro, il capostazione avrebbe dovuto telegrafare alla stazione di Balvano che il treno era arrivato. Quel segnale non arrivò mai.

Dopo un susseguirsi di gallerie, il treno affronta l’entrata nella galleria “Delle Armi”- lunga circa 2 chilometri, la più lunga delle gallerie che si incontravano su questa tratta – a circa 20/30 chilometri orari, arrampicandosi su un dislivello del 13‰; le locomotive iniziano a perdere aderenza: tutti gli assi delle due locomotive girano a vuoto per via dell’abbondante umidità che c’era sulle rotaie. Nonostante che il personale del treno avesse scaricato abbondantemente sabbia, le ruote non mordevano ed il treno non riuscì ad andare avanti, finché si fermò definitivamente e si consumò la più grande tragedia ferroviaria della storia d’Italia e tra le più gravi del mondo. Una storia messa a tacere, perché avrebbe potuto deprimere gli italiani dell’appena liberato Sud e fare cattiva pubblicità agli Alleati che stavano lentamente risalendo verso il nord con aspri combattimenti.

Negli anni successivi la tragedia di Balvano ha suscitato vivo interesse e sollecitato inchieste e testimonianze di superstiti e personale delle ferrovie in servizio in quella fatale circostanza, che si possono leggere su Internet. Io mi limito a segnalare un libro, un noir storico, che ho letto alcuni anni fa: Alessandro Perissinotto, Treno 8017, Sellerio 2003, che riassumo. Torino, giugno 1946. Nel giro di tre giorni vengono uccisi due ferrovieri, la polizia archivia il caso, ma Adelmo Baudino, ex-agente della polizia ingiustamente epurato, comincia a scorgere un nesso tra le due uccisioni. L’indagine su quei morti è per lui l’ultima occasione di riabilitarsi e decide di condurla fino in fondo. Si troverà a seguire una scia di delitti che da Torino porta a Napoli e poi a Balvano, un piccolo paese vicino a Potenza dove, nel marzo del 1944, le cinquecento persone che viaggiavano a bordo del treno 8017 morirono asfissiate in una galleria. Da quel momento la storia dei delitti si incrocia con quella dell’incidente ferroviario e si allaccia con la Storia, quella dei fatti realmente accaduti (come appunto la strage dell’8017) e quella di un’Italia dove “fascisti e vecchi cialtroni” continuano a dominare. Segnalo pure il racconto del medico potentino Luigi Luccioni, amico di Rocco Mazzarone, mediante il quale sono venuto a conoscenza del racconto stesso pubblicato nel volume Frammenti di cronache e ricordi (Potenza 1939 – 1944), Congedo editore, 1993.

Riprendo il racconto della tragedia.

Il treno 8017 , ripeto, non deragliò, non subì incidenti, semplicemente non ce la faceva ad andare aventi e si fermò. Le locomotive continuavano a sbuffare ed il fumo ad uscire dai fumaioli delle due locomotive: in poco tempo la galleria divenne una camera a gas di monossido di carbonio. Quasi tutti i passeggeri passarono dal sonno alla morte, apparentemente senza accorgersene.

Nel frattempo il personale delle stazioni di Balvano e di Bella-Muro non si preoccupò di chiedere notizie. Non c’era nessuna preoccupazione per la mancata ricezione del segnale “giunto” del treno 8017 da parte della stazione di Bella-Muro: in quegli anni i treni partivano in orario ma per la strada accumulavano ritardi inimmaginabili, e per percorrere questo tratto a volte erano necessari anche 120 minuti. Il problema si pose solo quasi due ore dopo, quando arriva in stazione a Balvano un altro treno merci, che doveva proseguire verso Bella-Muro, trattandosi di linea a binario unico. Il nuovo treno, per ripartire ed essere istradato, doveva aspettare il segnale di via libera, ossia l’avviso che il treno 8017 fosse giunto alla stazione successiva. Le due stazioni entrano in contatto e si accerta che il treno 8017 non è ancora giunto a Bella-Muro. Alla stazione di Balvano fanno staccare la locomotiva del nuovo treno merci per effettuare un ricognizione e quando questa sta per giungere alla galleria Delle Armi, si vede spuntare una sagoma di un uomo, il che lasciava capire la drammaticità della situazione.

Si sale a Balvano, distante circa 3 chilometri ad informare il pretore, il sindaco, le forze dell’ordine e per organizzare una spedizione nella galleria, dove trovano un treno di morti, che viene riportano alla stazione di Balvano con una manovra di retromarcia.

I pochi superstiti ancora in vita vengono portati negli ospedali con autocarri militari giunti da Potenza, i corpi senza vita vengono deposti sui marciapiedi della stazione per essere quindi portati al cimitero di Balvano e sepolti in tre fosse comuni: due per gli uomini e una per le donne.

Un disastro fatto dimenticare in fretta e furia, sepolto e dimenticato con la stessa fretta con la quale furono sepolti i corpi senza vita dei passeggeri. Fretta di seppellire corpi e memoria, per non deprimere ancora di più il morale degli Italiani e per non gettare ombra sul buon operato degli Alleati.

A Napoli c’era un solo giornale autorizzato dagli Alleati: il quotidiano Risorgimento. La notizia fu lanciata talmente in modo attenuato da passare quasi inosservata all’epoca, senza specificare località e numero morti: poche righe soltanto per una vaga notizia di un numero non precisato di persone che erano morte per asfissia “in una località dell’Italia Meridionale”.

Gli unici documenti ufficiali riportano la data di 4 giorni dopo, ossia quella del 7 Marzo: si tratta di una relazione preparata dal sottosegretario delle comunicazioni Generale di Raimondo per il ministro delle comunicazioni Siciliani con dati e considerazioni tecniche. Con questa relazione il ministro Siciliani riferisce nella seduta del consiglio dei ministri del 9 Marzo. Gli atti ufficiali conservati negli archivi centrali riportano “Il ministro delle comunicazioni riferisce sul sinistro ferroviario della linea di Potenza il quale è da attribuirsi alle pessime qualità del carbone fornito dagli alleati. I morti sono 517:Tutto il personale ferroviario è deceduto all’infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo”

Dopo un attento esame da parte del generale Gray e dei suoi collaboratori, l’incidente venne dichiarato ufficialmente “causa di forza maggiore”.

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