ANTONIO LAURENZANA di Domenico, nato il 1909, coltivatore diretto, affittuario, Tricarico, Matera.

RACCONTO DETTATO.

Ho ancora mio padre, tiene ottant’anni. Mia madre settantasette, e viene ad aiutarmi nelle faccende di casa. ora che sono solo e vedovo e devo cucinare per me e per i ragazzi, ma non ci vede più.

Non mi sono mosso dal paese. Mio padre sì: è stato tre volte in America (era analfabeta e contadino), a Indianapolis, e si chiamò pure il fratello mio maggiore. il primo, che era del ’96.

Da bambino, mentre facevo la scuola, mi mandavano a imparare il mestiere da scarparo perché mio padre non c’era. Feci fino alla terza e, a 12 anni, si ritirò mio padre, e andai alla campagna di un paio di ettari di terreno: mio padre ne teneva già uno, e quando tornò dall’America si comprò un altro ettaro alle Scalicelle, che adesso è metà mio e metà dell’altro fratello mio. Ci abbiamo fatto il 1943- la vigna, una casetta per comodità di tutti e due al centro del fondo e un pozzo per ciascuno.

Ho abitato sempre nella Rabata, abbasso al paese. dove sta ancora la casa di mio padre, e la mia casa l’ho pure nella Rabata. Siamo la maggior parte tutti una classe di contadini.

Appena mi portarono in campagna mi sentii bene perché non mi faceva l’aria del paese e del chiuso e, per l’affezione di mio padre, per stare unito con lui, mi piaceva la campagna. Si comprò una giumenta e imparai ad arare, seminare, lavorare attorno alle piante, qualche cosa di potatura, e alla vigna, che c’era pure in un altro pezzo di terreno di 43 are.

Quando mi ritiravo da campagna, ci riunivamo coi compagni, sotto la luce elettrica della strada. (In casa usavamo quella a petrolio e il mattino, quando mi alzavo, mi trovavo tutto il naso pieno di nero, e se non facevo in tempo a lavarmi, un po’ che mi asciugavo il naso, riempivo tutta la faccia di tinto.) Giocavamo alla morra – chi faceva 5 punti vinceva 2 soldi — e si parlava di fatti di passatempo, se si poteva trovare una zitarella.

All’età di 16 anni trovai la prima zita: mi prendevo la figlia di Campanello, una certa Teresa Piurno. Era discreta, di buona statura; adesso è un mufito che fa schifo. La trovai per avanti: era figlia di pastore e caso eccezionale che il padre e la madre si trovavano in paese; le dissi se mi voleva e rispose di sì. Ogni sera – non ne passava una che non ci dovevamo incontrare – ci andavamo trovando come cani e in una strada fissata facevamo una chiacchierata e qualche bacio. Quando faremo grandi – diceva – e saremo all’età, noi ci sposeremo. E io la pensavo lo stesso.

La prima volta che uscii dal paese, a 17 anni, mia madre mi portò a Viggiano con l’asino: Albano, Laurenzana e poi una boscaglia e poi il Monte, dove c’ è la chiesa e di là la Madonna la passano al paese abbasso. Sono molti chilometri, ci vogliono 4-5 giorni andata e ritorno. Vedendo gli altri posti dicevo che era un altro mondo, perché qui si era già spicciato di trebbiare e, arrivati là, vedevo certa gente ancora più indietro di noi di qua; là c’era la nebbia e si tremava un dente con l’altro, mentre sul Monte si tremava di freddo che pareva volesse nevicare.

Era il primo sabato di settembre. Mia madre, per devozione che due figli si erano ritirati dalla guerra, si trascinò con la lingua per terra; e io, la prima volta uscito, vidi quella chiesa: al centro avevano messo un’aquila verniciata e mi restò impressa. Ci erano assai forestieri che concorrevano da parecchie parti e mi restò anche impresso quel canto che facevano – me lo ri- cordo – accompagnato da cornamusa e zampogna.

So’ venuto da lunga via

e Maria non mi pento.

O che dolore mi

sento di lasciarti a te,

cantavano i montagnoli di quelle parti e significava « non mi pento» che volevano tornare ancora.

Là io feci la spesa allà zita; comprai una pettinessa, un fermacapellie 4 ferretti: potetti spendere una trentina di soldi. Ella, per cambio, mi dette un fazzoletto, che portavano allora i giovani, ricamato, e un bocchino per fumare: mi fece prendere anche il vizio di fumare quella disgraziata, mi comprò 4 macedonia.

Fui malato per molti mesi di febbre viscerale. Mi curava don Ciccio Paolo Ronchi, ora morto, e mi prese molto a cura, se no non guarivo. Teresa, con l’occasione di andare da una che faceva la sarta vicina a casa mia, mi veniva a vedere. Ma, dopo guarito, ci andammo allontanando allontanando, perché i suoi genitori presero un affitto di terra e la portarono in carnpagna; io non volevo più tanto perché mi sentivo debole. Cosi finì con Teresa.

Dato che mio padre teneva un compare a S. Chirico Nuovo e il figlio, un certo Lasala Gerardo, veniva a far zito a Tricarico, tante volte, per tenergli compagnia, andai a piedi a S. Chirico. Data la forte amicizia, dormiva con me a casa nostra e io a S. Chirico. Disse: – Ti devo trovare la zita a S. Chirico, ti devo dare la mia comara.

Questa la chiamavano «quella di Lapozzo». Mi voleva. Ci andai due tre volte, ma una volta mi partii a un orario tardi e c’era tempesta, tuoni e lampi. Allora si vedeva la strada quando faceva il lampo; distrussi una scatola di cerini perché mi trovavo sempre nelle frasche; abbaiò un cane, dopo il vallone; uno di guardia alla sua vigna mi sparò un colpo di pistola, sentii proprio il fìschìo della palla; me ne scappai indietro per non tornare più a S. Chirico.

Abbandonai quella strada, anche perché mio padre prese a mezzadria un terreno a ortaggi e seminativi di 10 ettari alla contrada Pantano, lontano dal paese 7 chilometri, e là c’era la casa e dormivamo. Tenemmo questa terra tre anni, ma non c’era niente guadagno: i pomodori a 3 soldi, i peperoni da appendere a 12 soldi, non si guadagnavano neanche le spese. Poi venne una grandinata ‘e lasciammo anche da mietere e avemmo una batosta che l’abbiamo sentita fino a questi giorni, perché, spartendo col padrone, noi non avemmo neanche le spese.

Quando ero lì mi misurai alla leva; mi fecero rivedibile per pleurite alla spalla destra e mi mandarono a Taranto per visita. A Taranto, che mi parve una cosa buona, bella, vidi il mare, le macchine; qua si vedeva, caso eccezionale, solo il postale.

L’avventura amorosa l’ebbi allora con Cascitella, che poteva tenere una quarantina di anni e io 16-17 anni, la prima volta. Eravamo molti giovani insieme, ma quella, chi non le piacevano, li seguitava col palettino. Entrai io: santa cosa. Era pulita e trattava bene.

Tornato da Taranto mi trovai la sposa, che era senza padre e senza madre. Stava con un fratello, era contadina. lo tenevo 21 anni e lei 18, ci sposammo. Non ebbe niente di dote e ci mettemmo in casa di mio padre. Tolsero il loro letto dalla stanza e lo misero nel primo vano dove c’ è il focolare, ed io e mia moglie stemmo nella stanza.

Come era ? Qui c’ è il ritratto di mia figlia: vedi la figlia, vedi la madre. Di colore rosa, alta circa uno e sessanta, con un naso diritto e aperto alle narici, la bocca unita. Conosciuta che lavorava molto, era brava e aveva una massima pulizia.

Lavoravo da giornaliero, come e dove trovavo, nelle vigne per lo scasso, sulla strada per l’Azienda stradale, perché avevo uno zio cantoniere. Non avevo né mulo né niente, solo la zappa. Verso il 1931 la giornata era di 7 lire per le vigne, di 9 lire sulla strada: c’era distacco di paga, e l’Azienda mi fece comprare la pala. Pensavo a tirare la vita avanti con la famiglia (mi nacque subito una figlia dopo 9 mesi appunto), e a lavorare dove trovavo. Il divertimento: la sera a bere con gli amici, quelli stessi che lavoravano assieme, a giocare a chi pagava il vino e a chi comandava per bere.

Cominciarono a mettere i militi nel paese, che erano paesani, che facevano a turno con quattro fucili e dicevano: – Uè, che io son fascista, ti faccio arrestare -. Poco ti potevi fare sentire: per una parola, pure che uno parlava lecitamente, se un milite aveva una lite con uno, subito prendevano appunti che quello aveva parlato contro del Duce. Ma io non avevo interessamento in affari di politica, pensavo solo al lavoro, per- ché stavo indietro.

Me ne uscii dalla casa di mio padre dopo tre anni, perché c’era una sorella vacantìa[1] e lei e mia moglie cominciarono a far chiacchiere, si mettevano in gelosia tra loro, mia moglie le diceva di non andare troppo girando e quella ricambiava. Io, per non vedere, quando mi ritiravo dalla campagna, che si guardavano storto, trovai mezzo di andarmene.

Presi una casa, una sola stanza, con 200 lire di affitto; non avevo neanche sedia per sedermi perché non mi ero fatto niente prima, e andai a comprare a credenza quattro sedie.

Poi mi ordinai, sempre senza soldi, la mobilia: una cassa per tenere farina e pane, il « quadro» per impastare, il «quadriciddo» per portare il pane al forno, la «buffetta », un tavolino per mangiare sopra, un attaccapanni, un appendirame (ché avevo avuto qualche oggetto di regalo quando sposammo dagli amici), e la « piattara » per i piatti. Il comò usato, di seconda mano, lo aveva avuto mia moglie dal fratello, per tenere ipanni.

Spesi 170 lire e dissi al falegname: – Me li devo prima guadagnare e poi te li do -. Fui fortunato, perché andai a lavorare distante 13 chilometri da Tricarico sulla strada, al frantoio della breccia. Appena mi chiamarono e me lo dissero, fu come sentissi 1’Angelo. Lavorai coperto di polvere, con un po’ di pane bagnato nell’acqua e con quello mi dirigevo per risparmiare. Come fui pagato dalla Ditta detti i soldi al falegname.

Lavorando fino a notte per lo straordinario, usciva la giornata, undici dodici lire al giorno.

La Ditta si allontanò dalla strada perché proseguiva e io tornai agli scassi dei vigneti sempre con sette lire: 170-180 giorni all’anno li facevo e consumavo due zappe da 3 Kg. e mezzo all’anno, perché tutti facevano le vigne, ma si servivano degli operai più affiorati, quelli buoni e capaci, e c’era molta disoccupazione lo stesso.

E poi avevo un pezzetto di terra, di un tomolo, a seminativo, che andavo a coltivare; lo facevo a maggese a zappa, quando non trovavo a lavorare per gli altri. Tirai cinque sei anni così; ebbi altri figli, ogni due anni ne avevo uno, uno morì di sei mesi.

Molti compagni miei andavano e venivano da Matera, chi a piedi e chi col postale, per fare domande per andare volontario e operaio in Africa. Io, sentendo che tutti facevano domande e che stavano meglio all’ Africa, per avere un’altra risorsa per fare qualche sviluppo mi presentai con la tessera da permanente agricolo; e, senza andare a Matera, il collocatore mi disse che la domanda era stata ammessa, di partire. Mi fecero le iniezioni, tre, ma la domenica che si doveva partire il segretario politico ci chiamò e disse: – Non potete partire perché siete classe giovane -. lo ero del 1909, potevano partire fino alla classe del 1905. Mi ribellai perché credevo che era un trucco che faceva il segretario che voleva far partire qualcuno più a suo gusto; allora lui fu costretto a farmi vedere il telegramma che erano sospese le partenze.

Ripresi il lavoro di campagna dove lo trovavo, e quelle ‘iniezioni mi fecero effetto buono, mi misero un buon fisico e molto appetito. Disse il dottore: – Non fa niente che non parti. Hai avuto una fortuna. Chi te le dava a te queste iniezioni?

Mio cognato mi dette altri due tomoli di terreno, così feci la quota intera di 3 tomoli alla Foresta, che spettò a mia moglie per eredità, tutti seminativi, di- stanti 13 chilometri dal paese.

Quando tornarono dall’Africa, gli amici dissero che là c’erano gli animali selvatici e particolarmente le iene: se non stavano accorti, queste si avvicinavano agli accampamenti, rimanevano spaventati soltanto a quel bramare che le iene facevano. Portarono però qualcosa di soldi. Un solo contadino morì, Lasala Giuseppe, che già da militare permanente era caporal maggiore. Non te- neva nessuno di famiglia, solo una matrigna, se la faceva con tutti, era bravo, amabile con i compagni.

La cosa di soldi che portarono che poteva essere? due, tremila lire. Quella somma, quanto comprarono oggetti di casa, o qualche asino, finì subito; anzi la buon’anima di Paolo Munachicchio, arrivato a Napoli e sbarcato, andato ai bagni, gli rubarono le tremila lire e non sapendo come presentarsi a casa senza soldi, se non c’era un altro paesano con lui, portò pericolo di menarsi a mare.

Io, vedendo tutte quelle cose, dissi: – Che dovevo ricavare andando? Lo stesso come gli altri -. E quelli che si trattennero come operai, molti sono stati pure ammazzati.

Avevo già tre figli, una femmina e due maschi, il più piccolo di due anni. Lavorando avevo anch’ io comprato un asinello. Il 20 maggio 1939 cadde ammalata mia moglie: cominciò con un mal di testa, che il dottore diceva che era una stitichezza forte, disse: – Appena alleggerisce di corpo, le passa il mal di testa -. Invece era tutto diverso. Il farmacista diceva che ‘era un’anemia attaccata alla testa: il medico diceva di non darle a mangiare, invece quella aveva bisogno di aiuto e di rinforzo. Vidi che aggravò, la gente mi diceva che era qualche cosa fatta, qualche magia. I familiari dicevano questo perché mia moglie s’era litigata con una ragazza vicina. Mia figlia aveva bastonato la sorellina della ragazza, mia moglie bastonò mia figlia, ma la ragazza disse: – Pare una scema la tua bambina e mena le mani -. Mia moglie le rispose: – Tu ti stai prendendo uno scemo per fidanzato -. E quella: – Va bene, non te ne incaricare, ti devo fare inciumminire[2] io!

Da questa parola mi costrinsero ad andare a Genzano dove c’era una che dicevano era adatta per queste cose.

Andai a piedi, sono 70 chilometri. Arrivato, l’indovinatrice prese un libro, io detti l’età di mia moglie, lei disse: – E sei sicuro che ci ha questa età? -. Sì -le risposi. E lei continuò: – Sta grave e passa di peggio in peggio, è stata fatta una cosa, è stata fatta la fine di maggio. E’ passata una zingara, l’ hanno chiamata in casa quelli contrari a tua moglie e loro credevano di farle una cosa leggermente e invece è stata aggravata. Trattiamo se la posso aiutare. Farò di tutto e se non muore venerdì di questa settimana, deve morire all’altro venerdì, perché quando fanno queste cose, le persone segnate devono morire dal venerdì al sabato.

Non si prese neanche una lira: – Figlio mio, vai a mangiare e vattene. Quando vieni un’altra volta, allora ti dirò del tutto, anche di chi è stato.

Mia moglie morì verso mezzanotte del venerdì di quella stessa settimana. E subito dopo io partii di nuovo a Genzano, correndo per sapere l’autore della morte di mia moglie. Arrivai in cinque ore dalla indovinatrice, che aveva una casa abbastanza buona, nuova, l’entrata e i pavimenti a mattonelle. Prese di nuovo il libro e volle indovinare prima me. Io mi ero levata la camicia nera di lutto prima di arrivare nel paese per non farmi conoscere. Figlio mio – disse – tu ci hai un punto che, di 33 anni, se vai in galera non esci più. Se io ti dico qualche cosa, forse sarà proprio questo punto e, se commetti una vendetta, non esci più da galera e la legge non ammette queste cose.

Volevo pagare, ma di nuovo mi disse: – Vai a mangiare, e te ne vai in pace -. Mi fu detto da altre persone che quando la ragazza vicina di casa e la madre seppero la morte di mia moglie si misero a piangere: – Uh, madonna che abbiamo fatto.

Io non ero sicuro, sospettavo in base alla lite fatta, e non feci niente. È rimasto l’odio ancora oggi: col padre ci diciamo « dove vai» e « dove non vai », ma con le donne non ci parliamo.

Io certe volte non credo e certe volte dico che, in base a come è morta mia moglie (non era stata mai con una febbre), efl’ettivamente sarà stata fatta qualche cosa. Chi ne capisce niente? Qualche cosa c’è da pensare quando vengono quelli che con gli occhi chiusi indovinano chi è una persona, l’orologio che ora fa, quanti denti gli mancano in bocca, e spesso sono ragazzi che indovinano, di sei o sette anni, non uomini di età matura e competenti di esperienza.

Maghi, «masciari », ancora ci sono nel paese: il camposantiere mi ha detto che ci sono donne che vanno a prendere le ossa per fare le polveri e medicinali e le buttano o nelle bevande o sui capelli delle persone per far loro venire una malattia. Appena sposato, il figlio di Bambino dopo di tre giorni non consisteva più, non gli sembrava più che sua moglie era sua moglie; ma, quando andarono a trovare Donato di Capria, tutto passò, perché Donato lo toccò e disse: – È cosa di niente. Forse la zita vecchia lo aveva affatturato.

Conosco che sono «masciari» Donato, Giuseppe «’u sperdate»[3] «’u seneche d’a Porta ‘u Monte»[4], Lacertosa Carmine e donne: Carmela Circhione, Lialedda. Il medico per la malattia di mia moglie diceva sempre che era niente: – Anche se ve lo dico, che cosa capite voi? – diceva. Forse per questo motivo io penso che efl’ettivamente poteva essere una fattura di «masciare ».

Quand’ero ragazzo, c’era un mio zio che era segnato alla Confraternita della Madonna del Carmine (c’è un convento abbandonato sotto la Rabata e la chiesa della Màdonna dall’altra parte del vallone) e mi disse: – È buono, vieni pure tu a segnarti come confratello, tanto non si paga niente, solo mezza lira all’anno, e se muore qualcuno per l’accompagnamento c’ è la paga e il 2 febbraio hai la candela della Candelora: secondo la carica di priore, vice-priore, assistente hai la candela più grossa o più piccola, che si tiene per devozione in casa e si accende quando ci sono le intemperie -. (Io, se mancava la luce elettrica, usavo la candela, se no ora dovrei avere almeno trenta candele e non ce n’ho nemmeno un pezzo.) Allora mi segnai, all’età di 14 anni, alla Confraternita e ancora sono iscritto e ho guadagnato qualche cosa, oggi anche due, trecento lire a morto. Prima eravamo una sessantina, oggi una quindicina, perché ora l’abbandonano.

Per ogni accompagnamento, mettiamo, sono tremila lire di paga: quindici confratelli, il prete rettore, il sagrestano e la cassa della chiesa, siamo diciotto a dividere; vengono centosessantasei lire per ciascuno. (I soldi della cassa servono a far dire le messe alla Madonna e, gira gira, se li prende il prete rettore.)

L’abito della Confraternita è di colore caffè, come un impermeabile appuntato avanti; poi c’è la cappetta bianca. Quello ce lo facciamo a conto e spese nostre. Miracoli la Madonna, per me, non ne ha fatti, ma c’ è tanta gente che dà i soldi, sempre pensano: – Madonna mia, fammi questo che io ti dò tanto – e appendono orecchini, anelli e moneta alla statua.

Io, per detto e sentito dagli altri, ci credo che ci sarà qualche essere, perché io dico così: se noi non ci siamo sulla terra, se io non ci sono, possono fare la fotografia? Se noi non esistiamo, la fotografia non la possono fare. E dei santi e della Madonna e di Cristo ci sono tante fotografie e pitture e statue nelle chiese e nelle case. Ma si capisce che, se vedi tanti San Rocco, non sono tutti di una maniera: è come noi quando andiamo a zappare e potare, uno ha una mano e uno un’altra a zappare e a potare, così sono i fotografi. Mi dici che ci sono pure le Madonne nere come i negri: questo è un guaio imbarazzante, forse si sarà cotta al sole. E’ perché cosi sono loro, i negri, e così fanno la Madonna, e fanno credere che è nata là. Ognuno cerca, anche di cuore, di aiutarsi verso i santi, forse è per questo, ma alla fine si trova sempre allo stesso punto.

I ricchi? I ricchi non credono ai santi, quelli fanno credere a noi; se credevano loro le prendevano in collo le statue, come noi. È la massa del popolo che crede, per la debolezza, e perché ci fanno credere che è cosi. Ma quanto più uno comincia a risvegliarsi, dà poca importanza e pensa diverso, e non c’ è più quell’ influenza della Chiesa.

Morta mia moglie, mi vendetti l’asino per le spese,. tornai da mio padre, che mi dette 10 stoppelli di terreno[5] a seminativo, e stetti là due anni vedovo: mia madre mi guidava le tre creature, io andavo a lavorare. Mi presi 4 tomoli di affitto e partecipavo alle spese.

Ma non potevo andare avanti così. Dopo due anni fui costretto a prendere la seconda moglie, che era vedova pure lei e aveva tre anni più di me, senza figli col primo marito e neanche da me li ha avuti.

Sistemato il 1941, misi ottocento viti in 12 are alla. contrada Scalicelle, un paio di chilometri distante. Mia moglie teneva solo una casuccia di una casa e di una camera – cioè di due stanze, una grande e una piccola -, trattava bene i miei bambini. Era stata una quindicina d’anni col primo marito e non si è saputo mai perché non aveva figli; ma ce la passavamo bene così, c’erano già i tre figli miei; sapeva fare i mestieri di campagna e, durante le giornate libere, cuciva camicie- alle creature, a me mutande e camicie.

L’anno appresso, nell’ottobre, e poi a ogni ottobre- ogni anno, mettevo altre viti; il terzo anno, il 1943, mi feci il pozzo.

Alla guerra non mì.chiamarono perché riformato, e· io stavo sempre qui.

Non si poteva avere sale e parecchie volte facevo il pane senza sale e, per avere un chilo di sale, una volta feci a cambio un chilo di sale con 14 chili di biada. Viste le necessità strette che non potevo avere sale; mi menai al mercato nero.

La prima volta scesi allo scalo di Grassano. Là venivano napoletani, che portavano sale, tabacco, quintali di filo e giubbe e pastrani, e noi in cambio portavamo sull’asino che mi comprai, farina, fave, pane, ceci. Non compravo per tornare a vendere, era tutto per la casa e, se capitava, per qualche amico.

Andai anche a Bari tre o quattro volte a prendere scarpe, ché non ce n’erano, e queste le portavo per venderle; e mi trovai quando bombardarono i tedeschi e tutti scappavano. Sul merci che riuscii a prendere, c’era l’oscuramento; certi abruzzesi dicevano: – Adesso che arriviamo a Cosenza … – e io pensavo: – Dove vado a finire, per la via della Calabria? – La notte, dopo tanto, scesi sullo staffone e domandai a un uomo avvolto nel mantello: – Qua dove siamo? – Quello rispose: – A Grottole – e io non rientrai più dallo staffone fino alla prossima stazione di Grassano e Tricarico.

Anche gli altri contadini si arrangiarono, specie a vendere grano di contrabbando, e anche io. Il grano arrivò a 14 e 16 mila lire al quintale. Cominciò a cambiare un po’ la vita; io mi comprai 17 are di arboreto (qualche mandorlo e 4 piante di fichi) e 22 piante di ulivi per 85.000 lire nel 1946. Era la prima compera che facevo, all’età di 37 anni: dopo 17 anni di lavoro credo che dovevo riuscire, però sempre a mezzo del contrabbando, con quel poco grano che producevo e con i sacrifici di mangiare noi fave e ceci in modo di risparmiare qualche quintale di grano da vendere. Il primo olio che ricavai dagli ulivi – che erano un po’ arretrati di lavoro e io li coltivai bene, li potai e li zappai – fu di 127 litri e lo vendetti a 800 lire al litro e mi ripresi un poco, mi pagai il terreno. E poi col ricavato di olio e grano mi comprai la stalla nel 1947 per 110.000 lire. Dopo la stalla, comprai un muletto, 90.000 lire.

Molti contadini andarono in galera, ma non avevano pericolo di arresto i grossi proprietari che facevano lo stesso il contrabbando ma erano accordati a tutte le caricavano perfino i camion; si presentava qualche sottufficiale sotto forma di caricare per la Sussistenza militare con i camion inglesi. Le Autorità ci invitavano a dare bonariamente all’ammasso, non avevano però più quel potere di una volta, perché era caduto il fascismo e non sapevano loro stessi come si dovevano comportare e non sapevano dove andare a finire.

Invece il 1942 quando d’autorità il podestà ritirò le tessere di macinazionee il popolo disse: – Mo’ come facciamo a mangiare? Al mulino non possiamo an- dare -, a cominciare dai bambini e dalle donne il po- polo si schierò contro il podestà e contro la commissione che era venuta a requisire il grano casa per casa con prepotenza. Botte di legna, sassate contro il maresciallo dei Carabinieri, il segretario politico, il podestà e i signori, che si andarono a nascondere chi alla caserma e chi nell’ufficio postale, che ha la saracinesca di ferro; ma le comunicazioni erano interrotte perché i contadini tagliarono i fili del telefono. Verso la sera, per accordo, non trovando il podestà, molti giovani contadini andarono al Municipio e scassarono la porta e saltarono sui balconi e incendiarono tutte le fetenterie di libri, facendo un ammasso. Parte andammo al circolo dei signori e levammo le sedie e i tavolini da gioco, li buttammo in piazza fracassandoli. La notte appresso venne l’arresto di 150 persone, che uscirono dopo molti mesi. Mia sorella tremava di più: – Chi lo sa se arrestano pure me stanotte -, perché ogni notte facevano l’arre- sto, andavano a prenderli nel letto, la maggior parte donne e giovani, dato che tutti noi contadini grandi facemmo solo atto di presenza nello sciopero.

Dopo caduto il fascismo, nella Rabata c’era Rocco Mìraglia, un contadino anziano che era stato sempre socialista. lo poco mi interessavo alla politica, avevo solo la tessera di permanente agricola, ma nella Rabata una voce diceva: – Ci dobbiamo unire tutti i contadini e fare il partito socialista. Che ne abbiamo ricavato prima? sempre guerra. Formiamo la sala a conto nostro. Col socialismo, che è con la massa dei contadini, ci sonoaltre beneficenze per trasformare la situazione e per fare nuove leggi.

Ci tenevanosempre sottoposti i ricchi, e su questa differenza io ha avuta questa idea. L’odio, che c’era sempre tra noi e i proprietari, c’era perché vedevano. che non aderiva più a quella che dicevanoloro : – Perché tu fai il socialista? tu sei una brava persona: non ti immischiare con la feccia, ché potrai trovarti male.

Io sono entrato nel trappeto, che durava quaranta giorni, facendo. un sacrificio. per tirare la vita avanti. Si lavorava di notte e di giorno trasportando un sacca di 70 chili addosso. Prendevamo. le olive nelle case dei proprietari. Era un torchio antica, il frantoìo era mossoda muli e noi azionavamo la pressa: un lavoro da muli. Si lavorava 15-16 ore al giorno, per avere 15-16 lire. Il padrone ci metteva a giornata, Tutto il ricavato era suo. Si prendeva l’olio di molitura, un chilo. per ogni tomolo di olive. Vendeva la sansa al prezzo stabilita dalle Federazionì e dal Ministero. Stava sempre nel trappeto per sorvegliarci e per incitarci al lavoro: – Se non lavorate – diceva – l’anno. prossimo sceglierò altri uomini.

Novembre e gennaio sono due mesi cattivi. Non si può andare in campagna. Per guadagnare quelle dieci lire al giorno eravamo. costretti a sottostare a quella che ci comandava il padrone.

Mangiavamotutti insieme, la squadra di sette pesone, quello che ci portava il proprietario della partita di olive. Però il padrone andava a mangiare per conto suo. Si mangiava tre volte al giorno. A mezzanotte ci. sdraiavamo. sui pagliericci uno accantoall’altro attorno al fuoco. Dopo tre oquattro. ore di riposo si riprendeva il lavoro, come il giorno prima.

QuandoRocco Miraglia disse che dovevamo unirei tutti i contadini per cambiare le leggi, iopensai a me stesso e trovai che era giusto quella che diceva. Ho lavorato tanto senza cambiare mai posizione, ma c’ è chi, senza lavorare, diventa sempre più ricco. Così fondammo la Sezione, riunendo. una buona massa di operai agricoli.

Il 2 giugno1946 si fecero. le elezioni e abbattemmola monarchia che ci aveva trascinati sempre in guerra. Vinsero. i socialisti e i comunisti e le cose incomìnciarono a cambiare un po’. Ci riunimmocirca 300 contadini e formammo la cooperativa e riuscimmoad espropriare le terre ai singoli proprietari che tenevanomolte terre. Arbitrariamente andammoad occupare le terre e ci sistemammocirca 200 contadini con un ettaro. a persona. I proprietari volevano. farei arrestare, ma non potevano perché a Roma c’eranoi compagni nostri. Si agitavano, facevano. venire il questore, ma alla fine, con un decretodel prefetto. Ponte, essi furono costretti a mettere la coda tra le gambe.

Poi cadde il decreto Ponte e il prefetto che aiutava i contadini andò via da Matera. Fummochiamati dai proprietari per fare un nuovo contratto. Pagammoil terratico: un quintale per tomolo di terreno. Nel ’46 si fecero. anche le elezioni amministrative. Fu eletta sindaco un giovane pelo rosso[6] come me che era stato con noi dal primo giorno e ci difendeva. I consiglieri avversari, democristiani, repubblicani e liberali, si dimisero per ordine dei preti e l’amministrazione cadde. Nel ’48 di nuovo si fecero le elezioni e io fui eletto assessore di campagna: il sindaco era di nuovo Pelo rosso. Io volevo fare bene al popolo. Facemmo costruire l’acqua del Conte nelle Matine, dove si muore di sete, una latrina nella Rabata, facemmo sistemare le strade del paese. Volevamo far passare il dazio al Comune, ma non riuscimmo perché il prefetto non volle. Siamo stati lottati continuamente dai preti e dalla Democrazia Cristiana e molte deliberazioni in favore del popolo sono state respinte dalla Prefettura. Volevamo molte cose per il benessere del paese, ma il prefetto e il Ministero si opponevano. Deliberammo che i contadini potessero far la legna nel bosco comunale sia per riscaldamento sia per la fattura di attrezzi agricoli. Prendemmo provvedimenti per alleviare la disoccupazione. Il nostro sindaco prese l’iniziativa per la istituzione di un centro sanitario nel Comune e tutta l’amministrazione e il popolo lo appoggiò. Poi fu deliberato di chiedere un mutuo di 40 milioni per la costruzione di un ospedale che ancora si deve fare, ma che già funziona in un locale preso in fitto, con 40 ricoverati al giorno.

Le elezioni di gennaio 1953 furono vinte dai democristiani perché il nostro sindaco Pelo rosso si era allontanato e ci aveva lasciato per andare a guadagnare scrivendo poesie e racconti. Nella prima riunione del nuovo Consiglio fu deliberata la tassa su tutti i generi di consumo; noi della vecchia amministrazione l’avevamo respinta per ben quattro volte. Il popolo ora non può parlare come prima col sindaco, che è un avvocato aristocratico. Prima era consentito fermare il sindaco anche in piazza, dove firmava documenti e dava consigli. Tutti gli impegni presi a favore del basso popolo non sono stati mantenuti. Durante la campagna elettorale dicevano che con il governo d.c. ci voleva un’amministrazione dello stesso colore. Così soltanto, dicevano, si poteva eliminare la disoccupazione. Intanto la disoccupazione c’è ancora, i disoccupati aumentano e i lavori promessi non si vedono. Se domani si facessero di nuovo le elezioni andrebbero al Comune quelli del popolo. Se qualche lavoro si è fatto in questi mesi, lo dobbiamo all’azione della vecchia amministrazione.

Col contrabbando misi da parte un po’ di soldi, comprai un mulo, ho preso in fitto altri terreni: due ettari in contrada Piscilo a 7 chilometri da Tricarico, un altro ettaro ai Piani Sottani a 13 chilometri da Tricarico.

Questo, dopo 4 anni di sacrifici, se l’ è preso l’Ente Riforma. Fui chiamato dagli impiegati e dissero di non mettere più piede sull’appezzamento fino a nuovo ordine. Si lavora sempre e non si vive mai. Si chiedeva la riforma per migliorare la vita, per ottenere terreni, ma invece di darceli ce li tolgono. La situazione può peggiorare. Ci sono i privilegiati d.c. che lavorano e avranno anche la terra. La riforma agraria è cosa buona, se la fanno come si deve. Devono espropriare più terre se vogliono far migliorare i contadini. Ma tutti i contadini. Col sistema attuale ne accontenteranno 100 e ne rovineranno 300 e forse più. Nella zona espropriata c’erano 700 contadini affittuari: adesso ci sono molti motori che arano ma la terra è dell’ Ente Riforma.

Ammalatasi mia moglie io mi scoraggiai. I figli non erano in età da lavorare. C’era mia figlia che dirigeva la casa e io e i due ragazzi facevamo quello che si poteva. Il guadagno non bastava a coprire le spese per i medicinali e i medici. Aveva il cancro mia moglie. Mentre era ammalata, mio cognato, dall’ Argentina, mi scrisse che là c’era un giovane che voleva sposare mia figlia. Scoraggiato com’ero, accettai di mandarla in Argentina anche perché qui non si può andare avanti. Le dissi: – Vattene che qui non c’è sorta di vita. Nel caso potrai chiamare anche i tuoi fratelli, che ccosì si levano da questa terra.

Il primo maggio del ’52 partì. Dopo la sua partenza io rimasi solo in casa. Il figlio più grande faceva alla meglio il lavoro in campagna ed io stavo con mia moglie che gridava di dolore giorno e notte, preparavo la minestra quando potevo, facevo anche la pulizia. Non potevo uscire di casa perché mia moglie mi aveva detto di volersi impiccare o buttarsi dalla finestra.

Dopo otto mesi che mia figlia era partita, morì.

La malattia di mia moglie nacque come un cece. La prima volta fu visitata a Tricarico e i medici ordinarono la cura che a botte di iniezioni doveva farlo sparire. Prima il medico D. (ero abbonato per le cure e pagavo un tornolo di grano all’anno, cioè mezzo quintale) mi ordinò la cura, e niente combinammo. Non ci fu nessuna risorsa. Visto che andava male, passai a un altro medico, B., e questo cominciò lo stesso la cura delle iniezioni e mi disse che doveva sparire. Finita questa cura le fece le scosse elettriche e allora andò peggio. Ricorsi all’ospedale dal chirurgo G. che le fece l’operazione. Dopo fatta l’operazione mi disse che era cosa da niente, che ormai tutto andava bene perché era stata operata. – – È niente – pensavo io. Ma avevo speso 70 mila lire senza ricavare niente, perché appena uscita dall’ospedale, quindici giorni dopo, riprese di nuovo la malattia.

Andai di nuovo all’ospedale dove c’era un nuovo chirurgo che le passò la visita e mi domandò: – Che ti è? – Mia moglie – risposi. Dopo disse: – Figlio mio, mi dispiace a dirtelo, io non la posso operare perché bisogna fare prima l’esame, bisogna tagliare un pezzettino , bisogna mandarlo all’esame -. Dopo mi chiamò G. di nuovo, disse: – lo mi sono trasferito all’ospedale di Matera, tanto abbiamo levato il grosso, ora è una sciocchezza. Parlerò con l’amministrazione a Matera, poi vieni là. e si opera di nuovo -.

Dopo una ventina di giorni ricevetti una lettera da G. e portai mia moglie a Matera e il secondo giorno la operò di nuovo. Fra l’operazione e l’esame che fecero a Bari spesi, compreso viaggi e tutto, circa 30.000 lire: mi fece una agevolazione dopo che mi uccideva di spese.

Dopo 10 giorni me la portai a Tricarico. G. aveva detto che tutto andava bene: – Abbiamo mandato a fare l’esame, così mandiamo pure l’esito -. A Tricarico ebbi l’esito che era un carcinoma, ossia cancro o tumore maligno, come si dice. Dopo pure G. mi mandò a dire che l’esito era malamente: – Falla mangiare che non c’ è niente da fare più -. Dopo una quindicina di giorni il cece si ripresentò di nuovo più sotto all’orecchio, poi passò alla gola senza nessuna rottura. Io a lei cercavo di confortarla, cercavo sempre di non far sapere niente, dicendo che ormai, appena se ne andava non c’era più niente, guariva.

Dopo una mesata la portai prima da uno specialista privato, e quando la vide disse: – Non c’è niente più da fare. Te l’ hanno ammazzata. Questo non era caso di un’operazione. Mi dispiace che questo chirurgo è un professore; due sono i casi: o l’ ha fatto per fr4egarti moneta oppure per esperimento su di essa -. Questo si prese tremila lire e mi disse che non c’era niente più da fare, soltanto il radium, ma per riparazione non per guarigione. E mi mandò all’ Università. Là mi dissero la stessa cosa, che non c’era niente da fare, soltanto applicazioni di raggi radium, tanto per tenere contenta l’ammalata, per darle un conforto. Spesi mille lire per l’applicazione e mille per conto, forse, dell’ospedale. Tra tutto se ne andarono una ventina di mila lire.

Io la trattavo sempre di conforto e dicevo sempre le stesse cose: – Appena fatte queste cose, se ne va -. E lei mi diceva: – Mi sono messa in questo letto, che devo fare? Perché devo morire cosi? Debbo stare senza far niente e debbo morire di dolore?

La portai di nuovo a Bari, se potevo ricoverarla, perché tanti dolori aveva che non li sopportava. A Bari fecero altre applicazioni. La portai soltanto per conforto, non è che speravo di vederla guarire. Se ne andarono settemila lire. lo volevo farla rimanere nell’ospedale ma il medico mi disse che non poteva rimanere se no i malati non potevano dormire, ché essa doveva gridare per i dolori che neanche i cani possono sopportare. Soltanto qualche iniezione di morfina, così possono calmare questi dolori.

E me la portai indietro a Tricarico. Quando arrivò. che aveva i dolori forti, andai a chiamare D. e gli domandai cosa bisognava prendere per calmare i dolori. Si consultarono D., S. e il farmacista e dissero che dopo la morfina saranno peggio i dolori. Cosi mi dettero una medicina che si chiama Tabbasole. Mi dissero: – Appena ha i dolori, le dai da 15 a 30 stille in un bicchiere d’acqua -. E cosi ho continuato due o tre mesi fino a quando è morta.

Io non andavo più in campagna, stavo ai piedi del letto a guardarla e fu allora che la Commissione comunale mi scancellò dagli elenchi anagrafici, come se non andassi a lavorare perché facevo il vagabondo.

Mi sentivo sconfitto ed ero solo. Come potevo pensare ad una fattura? La malattia era visibile, si vedeva già il male. E pure uscirono certi cretini che con gli incantesimi dovevano far sparire il male come un cece. Io glieli feci fare questi incantesimi perché volevo dare tutte le soddisfazioni a mia moglie. Ormai già sapevo che non c’era più risorsa perché me l’avevano detto i medici. E nonostante gli incantesimi il male andava avanti.

Spesi per il « mortizzo » [7] tremila e più lire per la fratellanza di S. Antonio, duemila lire per la fratellanza di S. Donato. La fratellanza del Carmine l’accompagnò gratis perché io sono fratello. Detti quattromila lire e dispari alla chiesa per la messa a tre preti, per la cassa spesi quindici mila lire e settemila per la lapide.

In casa rimanemmo più soli di prima. Ripresi ad andare in campagna. La casa chiusa. Mamma – ha 77 anni – fa quello che può, ma debbo cucinare io perché di sera non vede. Ora ho ricevuto la lettera da mia figlia e mi dice di fare partire il fratello. Se ne andrà anche questo. E io sono contento che se ne va. Starà meglio. Mio genero ha un’azienda agricola di 200 ettari ed ha bisogno di aiuto. Se tutto va bene farò emigrare’ anche l’altro figlio più piccolo e rimarrò proprio solo. Non lo faccio andare più in campagna. Va da un falegname per apprendere un mestiere, visto che il contadino viene sfruttato e non può mai arrivare a stare meglio. Anche se uno ha migliorato, oggi si deperisce giornalmente. Ho detto al ragazzo che è meglio fare il vagabondo anziché il mestiere di contadino.

Ma ora col bisogno che c’ è in casa sono costretto a pensare che forse è meglio risposarmi ancora una volta. Sarà la terza moglie.

Non ho nessuna volontà di sposarmi. Ma vedo giorno per giorno che ho bisogno di pulizia, di aiuto, di tutto. Sono costretto a rimanere in casa tutti i giorni sempre agitato. Voglio una donna per sistemazione di casa, lo stesso contadina, e mi sposo fuori di Tricarico, a S. Chirico. Ha un tipo come noi di campagna, è una bella donna, ha un fisico energico e ha pure una figlia sposata. È proprio come la cercavo. Andai a S. Chirico per un servizio a una sorella, per prendere le fronde di canna, e fu proprio una commara nostra che me la propose e disse: – Compà, se ti devi sposare, l’unica che c’ è sarebbe questa che va per voi, lavoratrice seria; dato che è sposata la figlia, ha avuto una questione col genero e non ha trovato il genero a sue idee e mo’ è decisa di sposarsi, se trova qualcuno che va bene. E difatti poi glielo feci sapere io regolarmente. Si volle prendere tutte le informazioni di Tricarico su di me e allora dopo abbiamo deciso che alla fine del mese di ottobre dobbiamo sposarci.

Dal primo giorno che è morta mia moglie già dicevano, amici e compari, che mi dovevo sposare una vicina di casa. Dicevano: – Oramai l’unica è quella donna, che tu puoi sposare – E io per ragioni di famiglia, perché aveva figli, non la voletti. Non mancavano tutti i giorni di farmi questa proposta e chiunque trovavo mi diceva sempre la stessa cosa. Ora la vicina di casa è dispiaciuta e io mi sposerò quella di S. Chirico, che è quasi la stessa, con la differenza che questa non ha figli.

Così non posso continuare, faccio la donna di casa ed ho quarantaquattro anni. Poi arriva qualche cartella delle tasse, debbo andare a pagare. Vado all’ Ente per sapere se debbo lavorare la terra che hanno espropriata, e una volta mi chiedono lo stato di famiglia, un’altra lo stato catastale, ed io non posso dividermi in due per fare questo e i lavori di casa. Chiedo questi documenti. Vado al Comune e mi dicono che è pronto lo stato di famiglia, vado al Catasto e là non è pronto l’estratto catastale. – Vieni fra qualche giorno – mi dicono. E la mia pazienza se ne va.

Questo si fa in Italia oggi. È venuto il 7 giugno. Essi volevano fare un passo avanti con la legge truffa e noi gli abbiamo fatto fare un passo indietro. Se gli facciamo fare ancora un passo indietro, potrei avere subito la terra e i documenti non sarebbero uno strazio: prima con la nostra amministrazione tutti noi assessori e consiglieri e maggiormente il vice-sindaco pareva che fossimo diventati venditori ambulanti a chiedere a questo e quello o alle donne: – Che ti serve? qualche cosa? dammi qua -. E il sindaco andava firmando sulla spalla della gente in piazza, e il vice-sindaco, quando doveva mettere la firma, faceva ridere tutti, diceva agli impiegati: – Dammi la zappa – per dire la penna. Se veramente cambiassero le leggi come penso io non farei emigrare i miei figli. Se prendessero il potere i contadini la riforma sarebbe attuata come desiderano i contadini. Dovrebbero togliere tutta la terra ai padroni, dovrebbero fare case, acquedotti, bonifiche, scuole per tutti fino a quindici anni, perché sotto questo governo anche se un figlio di contadino è molto intelligente non può studiare e preferisce fare il vagabondo anziché andare in campagna.

Adesso basta questa storia perché sono due giorni che mi tieni sotto e mi sento più stanco, peggio di zappare. Sono le sei, i ragazzi tornano da campagna e io devo andare a preparare da mangiare.

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[1] nubile

[2] diventare storpia

[3] lo spiritato

[4] il sindaco della Porta del Monte

[5] 50 are

[6] appunto Rocco Scotellaro

[7] i funerali

 

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