Francesco Chironna, altamurano, attivo negli anni Cinquanta come predicatore evangelico nelle campagne di Tricarico, consegnò alla ricerca sociologica di Rocco Scotellaro il racconto autobiografico della sua vita, che è il più valido fra i cinque testi, scritto interamente di pugno dell’autore, che mostra di sapere ben raccontare. I grandi eventi (guerra, dopoguerra, emigrazioni – in Germania e in Canada – fascismo) sono correlati alla vita del protagonista su un piano di concretezza e di razionalità, senza concessioni all’impossibile e alla fantasia. Ritornano con obiettività i nomi dell’azienda Turati di Calle e piace sottolineare la considerazione per la signora Sattamino, donna veramente di carattere eccezionale. (nota del blog)

FRANCESCO CHIRONNA di Michele, nato il 1897. ìnnestatore, mezzadro, Calle, Matera.

SCRITTO AUTOBIOGRAFICO.

     Nacqui nel 1897 in Altamura, paese pugliese in provincia di Bari. Il suo aspetto è dominante per il posto dove è stato fondato, che si trova su una collina alta m. 470, e tutto il dintorno è formato da una vastissima pianura quasi tutta alberata, che gli dà un magnifico aspetto. Il nome che gli fu posto fu più che preciso, e in esso racchiude l’aspetto esterno. Queste mura servirono per rendere più forte il paese contro vari tentativi di nemici e dette anche prova, bensì molto inferiore, contro l’esercito del cardinale Ruffo che, una volta entrato, lo mise a sacco e fuoco, ma che riuscì ad entrare per un traditore stesso di Altamura e per la sua inferiorità. Per la forte resistenza fu chiamata la Leonessa di Puglia. Per l’altezza l’aria è purissima: figuriamoci che anche Federico Barbarossa, venuto a conoscenza dell’aria magnifica, essendo di ritorno da una delle Crociate con il suo esercito, avendolo quasi tutto malato di malaria, scelse Altamura come posto di guarigione e si fermò fin quando i suoi uomini furono tutti guariti, e nel frattempo restaurò la magnifica Cattedrale.

Nacqui da una modesta famiglia di contadini piccoli coltivatori diretti. Crebbi sano e forte ed ero la gioia dei miei. Essendo il primogenito, su di me avevano tanta speranza come tutti i genitori hanno sui figli: la loro era di mandarmi alla scuola. Siccome in quei tempi c’era molto analfabetismo, tanto erano entusiasmati che dall’età di tre anni mi mandarono all’asilo infantile per incominciare ad avere un buon scioglimento di lingua e una buona guida nelle azioni e nel gioco. Passarono tre anni andando sempre all’asilo e, arrivato all’età di sei anni, incominciai a frequentare la prima classe elementare. Avevo tutti i giorni consigli e incoraggiamento dai miei che, raccomandandosi che io mi portassi bene, mi spiegavano quale utilità è nella vita avere un titolo di studio: specie nei tempi di allora era sufficiente la quinta elementare per il nostro ceto, e io mi sforzavo a fare più di quello che potevo. Alla fine dell’anno fui promosso alla seconda classe: ne ero molto soddisfatto e, contento di esser riuscito al mio primo sforzo, incominciai ad avere fiducia in me e nei miei. Ma nel secondo anno di scuola non fu cosi.

I casi furono due che mi sbarrarono il passo. Per primo, dopo esser andato un paio di mesi alla scuola, scoppiò una malattia contagiosa fra gli alunni, incominciarono a morire i primi, e venne un ordine di sospendere l’anno scolastico ed attendere sino a nuovo ordine. Per secondo, già da due anni mio padre aveva incominciato a fare un mal raccolto e quell’anno finì di rimetterei anche un po’ di risparmio che aveva. l tempi si presentavano difficili e incominciò ad affacciarsi la miseria. Allora mio padre decise che per me non più scuole per mancanza di denaro. Ecco come su di me svanirono le speranze, speranze dei miei, che mi volevano preparare una strada nell’avvenire o almeno far completare le scuole elementari. Niente: tutto lì finì.

La mia delusione fu abbastanza grande, da così piccolo che ero, perché già capivo in quale cerchio ero caduto io e la mia famiglia. Mio padre sin da allora mi incominciò a portare con sé in campagna. Mi poteva insegnare un altro mestiere ma siccome gli altamurani sono tutti agricoltori mio padre conservava lo spirito di tradizione e così dovetti ubbidire. È triste il pensare che un bambino di tenera età, quando è proprio il momento dell’ insegnamento della conoscenza, quando ha bisogno ancora del gioco, ha bisogno ancora della guida materna ecc. ecc. viene portato in campagna, per sfruttargli quel poco della salute che ha, allo scopo di economia finanziaria.

Sin da quell’età incominciai a condividere con mio padre le sofferenze del campagnolo; di più era che non avevamo una casa colonica e quindi ogni sera e mattina, presto e di notte, si faceva sempre la stessa strada. Figuriamoci come mi ritiravo la sera. Ero sempre stanco: anche avendo una guida di tanto in tanto di sera per aiutarmi, alla meglio che si poteva, per non dimenticarmi almeno quel poco che avevo imparato, non si poteva, è evidente. Gli anni passavano ma le male stagioni per l’agricoltore non cambiavano, non mutavano affatto. Così arrivammo all’anno 1907, che, come i precedenti, fu malissimo, anzi il male era di più che eravamo caduti in debito finanziario di parecchie centinaie di lire: era l’anno della disperazione.

Siccome avevamo i terreni vicino con i miei zii, fratelli di mio padre, un giorno di quell’anno, nel mese di settembre, c’incontrammo tutti assieme per bruciare la ristoppia. Quando arrivò l’ora per fare colazione mangiammo tutti assieme e, mediante che si mangiava, ognuno raccontava la sua, di come si viveva male ,e pieni di debiti. Uno di loro incominciò a dire che per risolvere la faccenda bisognava emigrare e partire in America. In meno di mezz’ora di ragionamento fummo tutti e cinque, con me compreso, della stessa unanimità e, così come venne quella decisione fulminea per la disperazione, ce ne andammo subito al paese, senza più nemmeno bruciare la ristoppia, e nella stessa giornata incominciammo a prepararci i documenti per potere ottenere il passaporto.

In un mese di tempo circa eravamo pronti per partire. Sulla mia sorte non si era ancora certi se rimanere in Italia o partire; il fatto sta che, per me, fra mamma e mio padre succedette una viva questione. Mamma mi voleva tenere ancora presso la sua gonna perché ero ancora piccolo, mentre mio padre diceva: Se io lascio questo piccolo a te diventerà troppo insubordinato, mentre se sta sotto la mia direttiva starà in gamba, come è stato finora -. Questo diverbio durò un bel po’, ma quando si arrivò al momento di partire, fu mio zio che convinse mia madre che io andassi con mio padre, spiegandole quanto sarebbe stato il mio vantaggio andando in America ecc. ecc. e così mamma cedette.

Io aspettavo con ansia la vittoria di mio padre perché ero tanto entusiasmato dai miei zii, che mi dicevano: Tu vedrai un mondo nuovo; là tu farai un’altra vita, starai bene, non ti mancherà nulla ed io, udendo tutto ciò, mi animavo da me stesso, pensando in una vita futura piena di avventure per dimenticarmi il passato, la vita piena di patimenti e sofferenze che si trascorreva al mio paese. Allora pensavo come la vita fosse bella a goderla, a viverla! e non come avevo vissuto fino allora. Ma il cuore mi diceva di non partire perché sentivo il desiderio di rimanere con mamma, avendo ancora bisogno di cure materne, ma questo fu sopraffatto dal pensiero di partire.

Arrivò il giorno in cui partimmo. Era verso la fine di ottobre dello stesso anno. È inutile spiegare la partenza, il distacco dalla mamma per poi vederla chi sa quando. Piangevo ininterrottamente, però piangevo per l’allontanamento da mamma e per la gioia che partivo. Così arrivammo a Napoli per imbarcarci, ma dovemmo soffermarci tre giorni perché la nave non era pronta. In quel frattempo i miei zii mi portavano con loro camminando per Napoli. Allora incominciai a vedere molle cose e per me erano tutte cose nuove, cose che non avevo mai visto e neppure ne avevo la minima idea.

Arrivò il giorno che c’imbarcammo sul piroscafo chiamato Conciai Berio, di una compagnia germanica, proveniente dalla Grecia. A bordo di questa nave c’era un sacco di gente, italiani e stranieri e la maggior parte di questi ultimi erano greci. Io, per dire la verità, mi vedevo smarrito in mezzo a tanta confusione ed ero sempre attaccato ai pantaloni di mio padre, ma man mano mi ambientai. Appena la mattina del giorno seguente, io avevo tanta voglia di visitare la nave: uno dei miei zii mi portò girando e così. vidi gente che parlava da una parte, cantava dall’altra. Si suonava, si giocava, si mangiava e si beveva, ma la mia curiosità era, di più, di vedere come ballavano i greci che facevano la loro danza e lì mi fermavo a guardare per parecchie ore. Così passammo lo stretto di Gibilterra.

Fin che arrivammo nell’oceano il mare era calmo ma tutto una volta si infuriò: una tempesta terribile che le onde talvolta sorpassavano l’altezza della nave, l’acqua in qualche punto entrava dentro. Tutta la gente che vi era dentro, la maggior parte svenirono, chi vomitava da una parte chi dall’altra, erano tutti accasciati sul pavimento; non si sentiva più tutta l’armonia che c’era prima, ma si era mutata in urli, lamenti, implorazioni. Fortunatamente nessun male mi venne ed ero là. vicino ai miei, mezzo sbigottito dalla paura, ma mi davo sempre coraggio, aiutando ora uno ora l’altro, chi voleva un po’ d’acqua e chi un’altra cosa, e talvolta anche chi non conoscevo.

Dopo sette giorni di così tempestoso viaggio, la tempesta si calmò. Dentro la nave non si poteva più stare, c’era un’aria afosa, putrefatta dai vomiti dei giorni prima, era irresistibile. Finalmente la mattina seguente andò in giro il nostromo invitando i passeggeri che andassero a prendere l’aria, si doveva sgombrare completamente per fare un lavaggio; ma i passeggeri non ne volevano sapere perché erano tutti sfiniti morti, e il nostromo continuava a gridare: Passeggeri all’aria, all’aria passeggeri! ma nessuno si muoveva. Dopo un po’ di tempo vidi costui che andava accendendo zolfo da tutte le parti e così in meno di dieci minuti di tempo tutti furono in coperta. E così dopo ancora due o tre giorni incominciammo a vedere i monti, la terra e infine arrivammo a New York.

Appena sbarcati ci misero in battello e ci portarono alla cosidetta batteria per visita di controllo e passammo proprio vicino alla maestosissima statua della Libertà; nel vedere questo grande monumento chiesi conto del significato e mi dissero che era il simbolo della libertà che regnava in quella terra. In giornata stessa, dalla batteria ci portarono nella stazione centrale per prendere il treno che ci doveva portare a destinazione. In quel momento avevo da soddisfare un bisogno corporale e, rivolgendomi a mio padre, gli chiesi dove potessi andare e lui, informatosi, mi indirizzò al gabinetto. Alla porta v’era un negro di una statura abbastanza grande e faceva il portinaio: vistomi mi additò un seditoio e v’andai. Vedere quel negro ché io mai ne avevo visti mi suscitò un’ impressione come pure il posto dove mi trovavo, in un vastissimo locale tutto di mattonelle luccicanti e specchi. Dunque, mentre ero sul seditoio, venne la scarica dell’acqua facendo un fragoroso rumore: non so come spiegare di quale salto acrobatico che feci per la paura e incominciai a gridare chiamando aiuto di mio padre. Il negro, vista quella ridicola scena, era crepato dal ridere, ché io ero caduto a terra. Entrò mio padre e vide me annichilito di dolore e il negro che se la rideva: pensò subito ad avventarsi al negro che fosse stato lui a farsi gioco di me, ma io gli spiegai che lui colpa non aveva. E così incominciarono le prime impressioni dell’ America.

In realtà l’America era un altro mondo, come mi si diceva; ma per noi, non per gli stessi americani, per l’emigrante, specie di nostre condizioni, significava solo un miraggio. Finché c’era lavoro si guadagnava, quando poi si stava a spasso era troppo triste. A stento, dopo tanti sacrifici, incominciammo a spedire un primo gruzzoletto che a casa tanto bisognava. Così man mano la vita d’America ci divenne più facile, specialmente a me anzitutto per la lingua che me l’ero imparata bene, poi perché mi ero ambientato.

Ma la vita si faceva più dura nel senso economico finanziario e il lavoro lo si affrontava qualsiasi fosse e dovunque purché si guadagnasse la giornata. Io mi sento di avere dato dure prove di lavoro e di coraggio, benché all’età di 11 anni, anche lavorando di notte nelle vergini foreste del Canadà, disimpegnando con precisione il lavoro affidatomi. Nell’ inverno del 1908 lavoravo a Brunswick (Canadà) in una foresta, si faceva la ferrovia ed io lavoravo con la squadra notturna. Per il trasporto del materiale, che o ci occorreva o si toglieva, si formavano due binari di legno e sopra si metteva una piattaforma di legno con l’incastro sui binari, trainata da un cavallo. Per facilitare il tiro a questo cavallo si metteva l’acqua sui binari, questa ghiacciava e la piattaforma scorreva con meno tiro. Era questo il lavoro che io facevo in quel periodo.

Una sera attaccammo il consueto lavoro, ma, quando fu sull’imbrunire, si spezzò l’attacco del cavallo alla piattaforma; allora il capomastro mi mandò a prenderne un altro di ricambio, che avevamo in una fattoria a 5 km. da dove eravamo. Bisogna premettere che in quella foresta c’erano molti animali feroci, ed appunto per questo temevo un po’. Volevo rifiutare ma misi coraggio e andai. Nell’andare tutto andò bene senza trovare difficoltà: in quella fattoria incontrai mio zio e mi lamentai perché dovevo far ritorno da solo ed erano due ore di notte circa, ma lui mi dette coraggio e mi affidò una lanterna per guida. Era una sera di una immensa oscurità ed era troppo fastidioso camminare dentro il bosco. Mi trovavo a mezza strada, quando in un momento sentii urlare i caiuzzi, che sono come lupi ma feroci. Volevo far ritorno ma non potevo, cambiare strada neppure, perché non ce n’erano altre, andare al largo di dove sentivo urlare non potevo perché il bosco era fittissimo. Allora decisi di proseguire, ma, quando arrivai vicino, ebbi una paura matta vedendoli con quegli occhioni spalancati, ma mi presi d’animo quando vidi che, invece di avvicinarsi, indietreggiavano grazie alla lanterna. Così d’allora non mi spaventai di andare solo di notte.

Dopo tre anni d’America prendemmo decisione di far ritorno in Italia. Io volevo rimanere, invece mio padre mi forzò di far ritorno con lui e mi disse: Se tu non vieni con me, per me sarai perduto -. Al ritorno passammo dal Canadà negli Stati Uniti e ci soffermammo

una diecina di giorni a Boston e New York e così venni a conoscenza della realtà della vita d’America. Considerando tutto ciò forzavo mio padre che io mi rimanessi, ma lui mi obbligò di seguirlo.

Venuto in Italia, mio padre mi trovò il lavoro presso un proprietario di Altamura, un certo Tragni, come salariato, ma il lavoro che si faceva in campagna era più duro di quello d’America, anche perché in America venivo bene pagato e bene si mangiava, mentre ad Altamura c’era ancora miseria. Passò un anno e non volli più andare a fare il salariato: non volevo andare più in campagna, volevo cambiare mestiere; mi veniva in sogno la vita d’America, l’idea era sempre di ritornare ma veniva sempre contrastata dai miei. Così passai un periodo di tempo lavorando da bracciante con mio padre e speravo sempre che si realizzasse il mio sogno di non fare il contadino.

Avevo l’età di 16 anni circa quando una sera incontrai in piazza un mio coetaneo che portava in mano un bel gruzzoletto di soldi, che allora erano di rame, e gli dissi: Be’, stasera hai preso una buona giornata, ti vedo con tanti soldi. Che mestiere hai fatto oggi? Ho fatto l’ innestatore, sono andato ad innestare a tavolino al Consorzio di Viticoltura. Allora posso venire anch’ io? Ma per venire con me devi fare prima un corso. Io sono disposto a farlo -. Allora mi portò dal tecnico del Consorzio per fare il corso, ma questo mi assicurò che era troppo tardi perché era incominciato da una ventina di giorni. Mentre si parlava, mi domandò il cognome ed appena lo sentì, disse: Allora sei figlio a Chironna Michele, io conosco tuo padre -. Fu per questo che mi aggregò con gli altri e dopo una ventina di giorni detti gli esami e fui approvato- Così da allora incominciai pure io a innestare a tavolino e poi andavamo sul posto.

La vita cominciò ad essere più soddisfacente perché facevo un mestiere più delicato e considerato. Per quanto avessi il pensiero di non stare ad Altamura, man mano incominciai a persuadermi, datosi il mestiere che frequentavo (che non ero contadino autentico ma specializzato) e perché incominciai a essere trastullato dal pensiero della mia presente Maria. Ma dopo poco tempo di questo periodo, si incominciò a sentire lo scoppio di quel caos infernale del ’15-’18, che mise l’Italia sotto sopra: la guerra.

Nel settembre del 1916 fui chiamato di 19 anni, come millesimo, ma ne avevo 18. Ero talmente entusiasmato di difendere i sacrosanti diritti italiani, che avrei potuto non partire essendo sordo ad un orecchio di natura, ma non ci feci caso. Partii, fui destinato nei Bersaglieri nel primo reggimento Napoli e in dicembre del 1916 ero già in zona di operazioni rafforzando il quattordicesimo Bersaglieri.

Una sera in caserma avvenne una rissa fra commilitoni. Io ero in disparte, o meglio non appartenevo a quel gruppo che si bisticciava, ma non potetti più stare indifferente quando chi aveva ragione si trovò nella parte del torto. Questi era uno studente di Benevento e la sera, quando andammo in libera uscita, mi voleva offrire qualcosa in un bar come riconoscenza ma io non accettai e gli dissi: Piuttosto scrivimi una lettera -. E così non solo mi scriveva, ma ebbe la pazienza d’ insegnarmi a leggere e scrivere.

Incominciai a sentire il peso di un vero militare al fronte. Ci trovavamo a Caltrano, provincia di Vicenza, ci portarono alla messa del campo, dopo la messa ci parlò il cappellano e dopo il colonnello Piola Caselli. Fecero tutti e due discorsi entusiasmanti: prima il cappellano confondendoci con lo spirito religioso, poi il colonnello con spirito militaristico ci disse: Bersaglieri del 14°, io vedo dalle facce degli anziani che sono scontenti di non aver fatto l’azione di Cima Undici e Cima Dodici, ma, ora che è arrivato il rinforzo del 97°, dimostrate loro cordialità e spirito patriottico, e il vostro colonnello vi procurerà un’altra azione più forte e più gloriosa di quella che si doveva fare ecc. ecc.

Ritornando all’accantonamento gli anziani scuotevano la testa per ciò che aveva detto il colonnello e ringraziavano Iddio di non aver fatto l’azione: tutto al contrario di come diceva il colonnello. Gli anziani ci spiegavano i dolori che si passavano e tanta gente che ci rimetteva la pelle, specie in quelle zone citate dal colonnello e appunto il Passo dell’ Agnello era il massacro di tante vittime. Io, nel sentire questo e il ragionamento del colonnello, capii ciò che significava la guerra e in me svanì quello spirito di patriottismo che avevo conservato finora, specie a considerare le parole dette dal colonnello «Vi procurerò un’altra azione più forte e più gloriosa di quella che si doveva fare », mentre tutti quelli che erano in ascolto disapprovavano completamente.

Subito dopo incominciò il turno di trincea ed è inutile ricordare punto per punto le sofferenze che si passavano. Dopo un periodo di tempo ci spostarono nel1’altopiano di Asiago come rinforzo, e mi ricordo che un giorno e meglio precisare fu il 18 giugno del ’17era la festa dei bersaglieri e per quell’occasione lo stesso colonnello ci fece un discorso incoraggiante, come pure il cappellano, che in ultimo ci disse che il nemico calpesta il sacro suolo a noi appartenente, e noi contribuiremo con tutte le nostre forze a scacciare il nemico al di là dei nostri confini. Io incominciai a rifletterei di quello che disse il cappellano, che bisogna distruggere il nemico, mentre pensavo che in Austria erano anche cattolici e in mezzo alla truppa c’erano altri cappellani che imploravano Iddio che ci distruggesse a noi: cosicché la implorazione per la distruzione era a vicenda. Allora incominciai ad essere ribelle a me stesso contro l’ ingiustizia di Dio.

La guerra diveniva più accanita, la perdita dei nostri fratelli di giorno in giorno aumentava. Dopo un periodo cambiammo fronte e ci portarono a Palmanova e di là ci mandarono a Luico, dirimpetto a Montenero, e, come spettatore, senza poter fare uso delle proprie armi, perché non c’era ordine di far fuoco, assistetti alla ritirata di Caporetto. In quella giornata fui ferito leggermente alla testa e fui ricoverato nell’ospedale di Cividale. Rammaricato per quella ferita che avevo, ero contento di scampare un po’ di giorni dal fronte, ma non fu così : nella stessa giornata anche dov’era l’ospedale arrivò il nemico e dovetti darmela a gambe. Insieme con me, nello stesso plotone, c’erano dei paesani e, da quel giorno della ritirata e che fui ferito, non seppero più niente di me e mi portavano come prigioniero e così pure riferirono ai miei genitori, ma per fortuna in quei giorni appunto ebbi la convalescenza.

A quel tempo credevo ad una disfatta completa, dato che la sconfitta travolgente era incominciata. Ma non fu così : i giorni della convalescenza passarono e dovetti partire un’altra volta per il fronte a rinforzare il 18° Bersaglieri. La guerra divenne più aspra e più accanita : ci trovavamo tutti in disagio militari e civili e così continuava. Andammo di nuovo al fronte, nelle paludi del Basso Piave, dove non solo si dovevano sopportare i mali di guerra, ma anche i mali di quelle terre infettive paludose.

Così dopo un susseguirsi di mali, arrivò il 4 luglio, giorno per me indimenticabile: dopo un’azione di assalto alla baionetta, fui ferito e rimasi prigioniero. Al primo momento credetti che la ferita era leggera, ma invece tutto al contrario, e per un filo mi scampai la vita. La pallottola mi fece quattro buchi: mi prese dal braccio destro, passò l’ascellare e mi prese la spalla, sfiorando il polmone e uscendo vicino alla colonna vertebrale. Vedendomi prigioniero e con quella ferita insopportabile, volli scampare la prigionia e così tentai e riuscii: mi recai a Cava Zuccherina e di lì andai all’ospedale a Venezia. Dopo la convalescenza ritornai di nuovo al fronte, ma presto venne l’armistizio e così da Trento ci mandarono a Napoli, di lì c’imbarcarono per Tripoli e là, in quelle terre aride, mi feci ancora 14 mesi di «naia ». E così finalmente arrivò il giorno del congedo da tempo desiderato.

Tutti questi sacrifici furono ripagati con duecento lire, non avendo il pacco di smobilitazione, e, per gh scomparsi da questa terra, lagrime e lutto nelle famiglie …

Ritornai alla vita normale ma le crisi tanto politiche che economiche erano quelle del dopo-guerra … Nel vedere tanti ostacoli nella vita ero ribelle a me stesso e contro la esistenza divina, ma, avendo uno zio evangelico, questi tentò di convincermi, o meglio, di darmi ragione coi fatti di questo argomento, per mezzo della parola divina e attribuendo la colpa non alla Divinità ma alla malvagia umanità. Questi ragionamenti accadevano di tanto in tanto, ma io tentavo sempre di approfondire qualsiasi discussione, quando mi trovavo con lui, e talmente ero divenuto curioso di questo argomento che, siccome la sua base fondamentale era la Sacra Bibbia, me la comperai pure io.

Con la Bibbia alla mano incominciammo a tenere parecchie tesi, ed io battevo molto sulla esistenza dei santi, mentre lui mi citava dei passi biblici, come il Salmo 115 e 44 Isaia. Di tutto rimanevo quasi convinto finché ebbi il desiderio di andare nella chiesa evangelica ad ascoltare le predicazioni che si facevano. Data la persecuzione che c’era per gli evangelisti non mi era tanto facile a convertirrni completamente per la mia timidezza, per non sentire critiche ed altre dicerie; ma, col passare del tempo, credetti fermamente nella parola di Dio e, per quella forza maggiore della persuasione convinta del cristiano, mi sentivo fiero di entrare in chiesa evangelica, non considerando più la critica, affrontando la controversia («non ti curar di 101′ ma guarda e passa») come spauracchio. Tutti furono contro, amici, fidanzata, persino i famigliari con insulti di eretico e di scomunicato, ma anche di questo mi feci persuaso, come dice il Vangelo di S. Matteo, X vv. 34-37, che l’avversità dovevo incontrarla anche coi famigliari. Mi trovai di nuovo in difficoltà e presi decisione di partire in America, ma la mia fidanzata non volle per la paura che la dimenticassi.

Una domenica mattina vado a sentire il culto ed il pastore ne parlò sui Comandamenti (Esodo cap. 20). Dopo la predicazione invitò il pubblico se qualche simpatizzante volesse spiegazione in merito: mi presentai e, dopo avermi dato abbastanza spiegazioni sull’ Esodo cap. 20, mi disse: Se vuoi essere più sicuro, vai da un prete da te conosciuto, chiedigli la sua Bibbia e leggi Esodo cap. 20 che è lo stesso -. In verità così feci: andai da uno conosciuto, un certo reverendo Ciccimarra Nicola, e riscontrai le testuali parole del pastore. Posso dire che quella fu la chiave di apertura alla con versione.

A 26 anni chiesi di sposarmi e la mia fidanzata acconsentiva, ma voleva che ci sposassimo alla chiesa cattolica, avendo l’appoggio dalla mia famiglia. Io tentai con ragionamenti persuasivi, ma lei insisteva. Pensando a quell’atto di sottomissione mi sgomentavo, ma era la forza, perché amavo pur essendo contraddetto. La mia fidanzata fu chiamata alla diocesi di Altamura e fu accusata di sposare uno scomunicato e insistevano di non sposarmi e tentavano di confonderla, dicendo: Se tu sposi quel giovane, non godrai mai bene -. Ma la mia presente moglie rispose loro che si intrigavano molto nei fatti altrui, che non era di loro interesse.

Il dramma si svolgeva ridicolo e pieno di ipocrisia da parte di quella gente incosciente: come mai loro potevano ostacolare il mio amore di dodici anni? Preso di mira da quella brava gente e costretto a sposare alla chiesa cattolica per volontà di mia moglie, dato che non mi volevano sposare, decisi di fare un atto di sottomissione al Vicario Tritto Giacomo, raccontandogli delle frottole: che mi pentivo del passo che avevo fatto e ritornavo cattolico. Poi mi recai da un conoscente, il Canonico Gengo, e gli dissi: Fammi sposare senza che ci voglia la confessione ecc. ecc. -, e mi disse: Vieni stasera a casa mia e ne parleremo -. La sera andai e invece di pattuire attaccammo una viva discussione intorno alla religione. Arrivammo al purgatorio cui io non credevo, e lui mi citò Dante per la «Divina Commedia»; ma io misi in evidenza la non esistenza del purgatorio e che Dante allude ad una sua vendetta in letteratura ma non alla realtà di una esistenza di purgatorio. E poi come mai che fino al 1439 non se n’era mai parlato? Poi gli domandai: Quali sono più potenti, le fiamme del purgatorio o quelle dell’ inferno? -. E quello mi disse che erano più potenti quelle dell’ inferno, mentre io insistevo per quelle del purgatorio e lui mi domandò il perché. Gli spiegai il perché; ché per i l purgatorio, sebbene lente le fiamme, il popolo cattolico si preoccupa per messe ecc. E così le fate risaltare per il vostro guadagno, mentre per l’inferno non c’ è niente da fare -. Così ci bisticciammo dopo sei ore di discussione, senza concludere niente.

Questo mise in allarme tutte le parrocchie e nessuno mi voleva confessare. Andai di nuovo dal Vicario e mi feci fare un biglietto con sua firma, obbligando così a uno di confessarmi. Allora andai alla parrocchia della Consolazione, il prete mi disse di inginocchiarmi ed io gli dissi che non posso per reumatismi. Dopo terminato voleva sapere il perché non mi ero inginocchiato ed io gli citai un passo biblico (Atti Ap. cap. 10 vv. 25-26): Figuratevi che fu l’Apostolo Pietro e disse a Cornelio « Alzati, anch’ io sono un uomo come te », e fra noi due poi … -.

Dopo due giorni fu predicato in tutte le parrocchie che un evangelico si era convertito per il suo sposalizio, mentre fu per non dare dispiacere ai miei e alla mia sposa, mentre non sapevano che io conservavo in me lo spirito, come lo conservò Enrico Malatesta, che, dopo la seconda volta che apparì davanti al tribunale per essere giudicato, per spirito di conservazione testimoniando disse: Mi avete sbattuto nei carceri, mi avete messo parecchie specie di manette, persino quelle alla romana, mi avete legato le mani ma non il cervello-. Dopo io e il Pastore Ricci Gaspare facemmo un riassunto sul mio sposalizio e mandammo un opuscolo a ciascuno dei preti intitolato «La malafede clericale» e dopo un po’ di tempo detti la mia testimonianza battezzandomi.

 

Giacché il contadino autentico non mi andava, decisi di specializzarmi in potatura e innesti, come avevo incominciato prima di partire alle armi. Realmente per mia abilità, non per vanto, sono stato in gamba e me la passavo discretamente. Ho serviti tanti padroni di Altamura che mi affidavano i loro oliveti e vigneti per potature ed innesti ed ho sempre diretti i lavori. Ho fatto parecchi corsi ad Altamura, molti dei quali mi sono serviti come tecnica e pratica. A mano a mano la famiglia ingrandiva, i figli si facevano grandi: per me ero a posto come mestiere e guadagno, ma dovevo preparare un lavoro per i figli. Ebbi la terra dal comune di Altamura e lì lavoravano.

L’epoca era critica per i sindacati fascisti: ogni giorno che si andava a lavorare ci voleva il foglio di ingaggio. Per di più mi ritenevano come sovversivo ed io intuii che ero preso di mira. Non c’era via di scampo: dovetti piegarmi e nel 1938, siccome tutti i combattenti avevano diritto per decreto ministeriale alla tessera fascista, dovetti farmela. Mi fecero anche capo rione di Monte Calvario e di conseguenza mi vestivo anche d i nero …

Nel 1939 l’Ispettorato Agrario di Matera fece una richiesta ad Altamura, tramite il sindacato, di uno specializzato in potatura e slupatura. La scelta del collocatore Demarinis Michele cadde su di me, obbligandomi ad andare presso l’Ispettorato. Io non volevo andare per non abbandonare i miei clienti, ma lui mi obbligò, dicendomi: Se ti rifiuti, ti denuncio al Consiglio di disciplina -. Così costretto gli dissi di sì, ma non volevo andare. Venne da Matera il dottore agrario Decapuo di Montemilone per prendere accordi su quando si doveva andare. Ancora quando si parlava tutti e due, ero sempre per non andare e gli chiesi, per mettere ostacoli, una giornata un po’ favolosa credendo di non pattuire, perché la giornata comune del mio mestiere era da 14 a 15 lire, mentre a lui gli chiesi 25 lire e vitto e convitto; ma lui accettò subito e cosi non potetti sfuggire. Andammo a Ferrandina e Miglionico e stavo una giornata per proprietario: loro avevano i potatori locali ed io insegnavo, spiegando sulla potatura e spulatura. Ai paesi dei dintorni non potemmo andare perché il tempo della pota tura era passato.

L’anno dopo il direttore Gorgone della azienda Turati si recò dall’ Ispettorato di Matera dicendo che aveva bisogno di un operaio specializzato in potatura: questo fece il mio nome e così mi venne a trovare ad Altamura. presi accordi e venni a Calle per la prima volta. Sin dal primo anno mi voleva a salario, ma a me non conveniva perché mi era scomodo e poi perché di lavoro ne avevo abbastanza e vivevo bene in Altamura. Dopo tre o quattro anni che venivo a Calle, sia per potatura di olivi che per vigna, voleva fissa la mia manodopera, ma per me non era conveniente anche se mi offriva un ottimo salario. Ma nel 1943-44, dopo l’armistizio, gli americani scelsero per campo di aviazione proprio la contrada dove avevo i terreni: così mi vennero tolti più della metà. Allora, trovandomi un’altra volta con il sig. Gorgone, mi invitò di nuovo come salariato ma questa volta, spinto dalla forza della necessità, non per me ma per i miei figli, per dar loro lavoro sotto la mia direzione, accondiscesi con Gorgone ad entrare non come salariato ma come mezzadro così che assicuravo lavoro a me e ai miei figli.

Credetti opportuna la residenza a Calle per tante ragioni: anzitutto perché mi ero stufato di stare ad Altamura, perché in quel periodo critico la società era diffidente, i padroni non volevano più pagare gli operai ed io mi trovavo fra l’incudine e il martello, e poi per sfuggire alla reazione del dopo-guerra, a quella catastrofe che non è finita ancora e, infine, perché la mia aspirazione era di vivere con la famiglia unita in un posto come Calle. Il 22 settembre ’44 feci il contratto di mezzadria con Gorgone, e mi fidai di ciò che lui mi diceva avendo conosciuto che era un uomo a posto.

 

Guerra dopo la guerra: realmente fu cosi. Si pensava che dopo il termine della guerra con l’America la vita sarebbe divenuta meno costosa, ci sarebbe stata più concordia fra italiani e italiani, che si sarebbe ritornati ad una armonia di fratellanza, dopo una guerra fessa e tanti fratelli non ritornati: vita libera, libertà di pensieri dopo il regime fascista. Pensare questo significava illudere se stesso. La vita era costosa, c’era chi si faceva milionario e chi gli mancava il pane; tutti quei negozianti che in tempo di guerra non avevano venduto vendevano dopo a prezzi esageratissimi. E i poveri dovevano vestirsi: come mangiare, come calzarsi, se moneta non ce n’era? Allora, costretti, si davano all’arrembaggio. Milioni e milioni di disoccupali; qualcheduno che lavorava, il padrone non lo voleva pagare relativamente al costo della vita. Allora quella lotta secolare tra ricco e povero si accaniva sempre più forte. Sorsero vari partiti; pochissimi partivano con base solida: c’era solo vendetta, l’uno contro l’altro, sinistra e destra. Così incominciò a realizzarsi ciò che avevo pensato sul dopo-guerra.

Nel primo momento mi vedevo male a stare a Calle, finché mi ambientavo ed anche un po’ come vitto, perché non era tutta la famiglia con me e ci mancava anche mia moglie. Il sig. Gorgone ci ha aiutati come meglio ha potuto, mentre i callesi vedendo che io, forestiero della zona, mi ero preso la mezzadria, cosicché sui terreni alberati e i vigneti avevano finito di fare i padroni (quando volevano qualcosa se l’andavano a prendere mentre ora c’era un interessato diretto e dovevano pensarci un po’) incominciarono a sparlottare contro di noi: chi si voltava con minacce, chi con sentenze di fulmini e di saette. Ci fu anche chi disse: Bada che solo tu sei forestiero e noi siamo tutti paesani… Ma allora io che cosa dovevo fare? Andare con un coltello in tasca e un fucile i mano? Ma io mi sentivo di essere un cristiano, e dissi che non conoscevano il mio procedere. Forse avevano creduto che io provenivo da qualche bosco come loro che là erano cresciuti. Però non tutti erano così.

Poi incominciarono a venire a chiedere qualche favore, ed io se potevo ne ero largo anche a chi non si meritava. Più tardi questi favori erano divenuti un’abitudine e sempre da Chironna venivano, specie che in quei tempi, dopo la guerra, mancava quasi tutto e specie in questi posti; invece io, quando andavo ad Altamura, gli portavo cosa volevano. Allora si verificò la verità dell’ Epistola ai Romani cap. 12 vv. 9-21. Così incominciarono a cambiare un po’. Molto mi fu d’aiuto la famiglia del fattore Sattamini, specie la moglie, che si merita realmente di essere stimata: siccome mia moglie non c’era, essa ci faceva del pane, ci faceva qualche focaccia e ogni tanto ci dava anche un po’ di minestra. Quella buona signora mi faceva questo e gli davo molto fastidio, ma ero costretto a stare senza di mia moglie, perché essa stava ad Altamura perché avevo un figlio, il secondo, che si era fatto un’operazione al ginocchio e stava in convalescenza.

Incominciai a fare amicizia con qualcheduno e con gli altri ci salutavamo: ma era un saluto forzato, non so il perché, forse perché poco avevano in uso di salutare conoscenti. Siccome la vigna era affianco alla strada, che sale dall’ovile a Calle, e lì parecchi giorni lavoravo ed ogni mattina e a mezzogiorno salivano e scendevano i ragazzi che andavano a scuola, questi passavano e mi guardavano in faccia silenziosi e vergognosi e questo si replicava giorno per giorno. Un giorno pensai: «Come debbo fare? Quando passano li debbo far salutare, fargli dire buongiorno» giacché era da mesi che eravamo conosciuti. Un giorno, mentre scendevano che andavono all’ovile, mi feci vicino alla strada e li fermai già avevo pronto un po’ di uva e un po’ di frutta, la diedi un poco per ciascheduno e dissi: Io vi dò l’uva, ma quando passate un’altra volta e ci sono io nella vigna dovete dire buongiorno. Ormai ci conosciamo da tempo ed io starò sempre a Calle come voi e saremo amici, e così quando passate ogni tanto vi darò un po’ di uva -. Così dopo quella morale ogni volta che passavano, o c’ero io o i miei figli, incominciarono a dire bongiorno.

Dopo un periodo andavano calmandosi perché avevano conosciuto che non ero di vendetta e non davo sfogo alla loro ira, che non deriva da malafede ma in parte da ignoranza. Nel 1945, proprio il 4 luglio, successe una disgrazia alla famiglia di Innocentini Erminio residente a Calle ma dell’ Italia settentrionale: gli morì il figlio di diciassette anni con una polmonite. Questo era un bravissimo ragazzo rispettoso con tutti, e molto si era affezionato con i miei figli: dunque fu un dispiacere per tutti. Pensai di fare una colletta e di fargli una lapide a nome di tutti i callesi. Per primo parlai con il Direttore, acconsentì anche Prognolato Guerino e qualche altro. Già fra noi avevamo unito qualcosa, ma non si degnò più nessuno di contribuire per la colletta, anzi facevano critica su di me per questa spontanea iniziativa, iniziativa che era insieme di creare a Calle unanimità di fratellanza, di aiutarci l’uno con l’altro, giacché si viveva uniti in questa piccola borgata, di creare un ambiente di cristianesimo, ma ogni sforzo fu vano. Così mi ritirai con una tristezza d’animo, perché i calle si non avevano capito quest’atto di generosità o erano forse in malafede.

Finalmente era tutta unita la mia famiglia, mio figlio si era guarito e regnava quella placida contentezza famigliare cui un padre aspira. Ma in quello stesso anno del ’45, la sera della prima di novembre, mi toccò a me una sventura, la morte di un mio figlio di 13 anni. Questo morì di disgrazia, sotto una bica di paglia: quando ci accorgemmo che questo figlio mancava, era troppo tardi per pensare di trovarlo vivo: pur essendo morto, ma caldo ancora, si fecero dei tentativi, ma tutto fu inutile. È doloroso ricordar mi quella sera di così straziante avvenimento, tutti mi furono d’aiuto (credo che non sia legale dire di come lo portai ad Altamura); quella sera si trovava anche il reverendo Mazzarone ed anche lui si prestò dandomi conforto, ed al riguardo lui scrisse una poesia che ho molto cara. Ai funerali era presente anche Gorgone, Sattamini, Pregnolati e Cellini Pasquale. Quest’ultimo fu il primo a muovere la pedina per fare una colletta tra i callesi, e fare una lapide a nome di tutti: già avevano unito una buona somma quando Cellini me lo fece presente ma io rifiutai. Per me era un onore di fare la lapide a nome dei callesi nel cimitero di Altamura ma sapevo che non lo facevano di volontà e la prova evidente la avevano data quattro mesi prima alla morte del figlio di Innocentini.

Siccome molti tricaricesi venivano lavorare a Calle, incominciai a tenere amicizie con qualcheduno, poi incominciai ad andare a Tricarico e qualche amico mi portava alla sua casa: venne così una più larga conoscenza con i tricaricesi. Feci anche conoscenza con il sig. Sindaco, che era Scotellaro Rocco, perché avevo bisogno della sua mano per certi documenti, ma per questa relazione fu un sussurrare di voci, perché mi ero dimostrato apolitico ed ero evangelico, anticattolico: in quei tempi c’era una lotta sfegatata per i partiti ed essendo lui socialista qualcuno dubitava …

Io, essendo evangelico, ogni domenica facevo il culto e cantavo gl’ inni di lode al Signore perché in S. Matteo, cap. 18, v. 20, dice «Poiché dovunque due o tre son radunati nel nome mio, quivi sono io in mezzo a loro ». E tale è la nostra fede. Qualche callese incominciò a venire a casa a sentire e mi facevano delle domande sull’evangelo ed io gli davo spiegazioni evangelizzando. Ogni tanto veniva il prete a Calle ma io non ci andavo; poi venne padre Addamino e questo, oltre la messa, predicava: io, sentito che parlava bene, andai qualche volta a sentirlo, e una sera parlò sul cap. 5 di S. Giacomo e parlò molto bene come regola di evangelizzare. Poi seppi che a S. Chirico Nuovo c’era la chiesa dei fratelli stessi evangelici e incominciai a prendere relazione con il fratello anziano, Rocco Russo: le visite erano scambiate a vicenda e, quando veniva a Calle, giacché quasi tutti i callesi si avevano piacere di sentire la parola di Dio, si faceva l’adunanza nella mia casa e tutti ascoltavano con piacere, dandosi spiegazione a chi ne chiedeva.

Questo divenne una cosa abituale per noi callesi ed io ero molto soddisfatto di compiere il dovere di qualsiasi credente in Dio di portare l’evangelo in luoghi dove non se ne è mai parlato. A S. Chirico andò un certo fratello Brandi di Firenze e questi, saputo dalla fratellanza di S. Chirico che a Calle c’era un evangelico, venne assieme a Russo a farci una visita. Approfittando dell’occasione tenemmo il cullo e per avere un locale più grande dove raunarci chiesi il permesso al direttore Gorgone di riunirei nella scuola e lui gentilmente acconsentì. L’aula si riempì di tutti i callesi e di operai di Tricarico, il Brandi tenne un magnifico culto, l’evangelo si incominciò a diffondere fra i callesi ed anche in qualche masseria vicina. Dopo un po’ di tempo venne anche a trovarci il missionario Evanzini della Svizzera e tenne anche lui il culto ai callesi, esortandoci con la parola di Dio.

Si parlava a Calle dell’evangelo e tutti volevano sapere per essere in piena conoscenza, anche i giornalieri di Tricarico che lavoravano a Calle, ma arrivò il 1948, alle elezioni governative vinse la Democrazia Cristiana che incominciò a metter radici dappertutto non democraticamente ma da dittatura; la Chiesa cattolica romana ne era in pieno possesso. Le cose mutarono immediatamente. Il monsignore di Tricarico era già a conoscenza che a Calle si parlava dell’evangelo e anche a Tricarico per mezzo di qualche simpatizzante di quei contadini che venivano a sentire il culto, ma dopo le elezioni il monsignore dette l’alt. I callesi furono tutti intimoriti dicendo si : Se qualcuno frequenta ancora la casa di Chironna gli verrà tolto il lavoro e tutti ci pensarono sopra. Anche con me hanno tentato ma, con la mia onestà e con il mio dovere di lavoratore, per la verità sono rimasto libero.

Come occupo il mio tempo libero? Da quando imparai a leggere, la mia passione è stata la lettura e per mezzo della lettura ho avuto la conoscenza di tante cose. Per l’avidità di sapere, di conoscere, il minimo momento libero è stato sempre per leggere; dapprima leggevo tutto ciò che mi veneva sotto le mani, giornali, riviste, romanzi, storia, bibbia, un po’ di tutto, ma come mi son fatto più anziano, mi è rimasto solo la Bibbia base fondamentale del cristianesimo e qualche giornale evangelico. Sono molto appassionato per la musica e l’opera ed anche per questo mi comperai la radio. Per i giochi ogni tanto faccio qualche giocata a carte e a dama.

Quando si avrà un popolo realmente cristiano? Mai, finché viene guidato da uomini che dicono di predicare l’evangelo, ma a fior di labbra. La realtà è evidente: finché ci si intromette nei testamenti sacri per offuscarne e velarne la verità con inganni, rimane solo al popolo una confusione di idee su ciò che doveva essere come un faro per una vita cristiana.

Dicono che non è data a noi la conoscenza dell’evangelo e il popolo segue ciecamente e senza interesse la loro dottrina, come è detto in S. Matteo, cap. 15, vv. 8-9: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il cuore loro è lontano da me. Invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che son precetti d’uomini ». Perché celano quelli di Dio? Questo è l’enigma. Lo scopo che seguono non è uno, ma tanti e tanti. Uno dei tanti è che a dare la Bibbia a chiunque, per loro significa dare le proprie carte da gioco all’avversario, far capire che tanti dogmi sono scritti da mani di uomini, intrusi nella base del cristianesimo. Lo fanno poi per interessi pecuniari (dice Cristo: «In dono avete ricevuto e in dono date») per tenere il gioco politico nelle loro mani e tenere il popolo ignorante: ecco per quali motivi agiscono i preti in ciò che riguarda la religione. Cristo dice ai discepoli: «Voi siete il sale della terra e la luce del mondo, ora, se il sale diventa insipido, con che si salerà? ».

Ora, il popolo che segue questa dottrina ha già capito che questa non è basata sulla giustizia ed è rimasto come una cosa passiva credere o non credere. Allora dal cristianesimo passano al dubbio del materialismo e ateismo; cadono persino in superstizioni. Tanti dicono che esiste la magia e che un uomo può far qualcosa all’altro per mezzo di parole ecc.; altri credono che, quando una persona minaccia sentenze volgari ad un’altra, questo si avveri, o se ci si affida ad un loro qualsiasi santo; altri affermano che hanno una tale potenza da scongiurare un temporale per mezzo di loro parole; nel caso di due cuori innamorati, se una delle famiglie si oppone al matrimonio e ugualmente si sposano, dicono: È una magia che ci hanno fatto-; tanti uomini fanatici portano alle cinture come ciondoli un ferro di cavallo ed altri un corno di ferro di parecchi centimetri lungo ecc. Ma può un ferro combattere l’invidia di un uomo? Se due cuori sono innamorati è magia? Si può credere alla vanagloria di un uomo che scongiura il temporale? che minacci e e sentenze vengano prese in considerazione dai santi? Ecco, infine a quali superstizioni si abbandona un popolo.

L’uomo non spera tanto da uno Stato, ma almeno la coadiuvazione, come figlio, dalla propria patria. Mentre quale godimento ho ricavato dallo Stato, dopo averlo servito con tutta la mia forza e persino con il mio sangue, dopo le guerre vinte e perse? Perché questa oscillazione? io mi vedo sempre decadente e i signori della burocrazia fanno progresso di lucro di giorno in giorno, o si vinca o si perda. Non è questa giustizia sociale! A che Stato si appartiene? Non intendo speculare sullo Stato, ma almeno un atto di riconoscenza. Solo quando si ha bisogno della mano del popolo è pronta la caramella per noi, come quando nelle piazze e in altri posti si sente: A voi sta, o figli della grande madre, a voi patrioti -. Sì, ma siccome si è visto che nulla fa lo Stato per noi, non ci importa, ci interessa solo la parte vitale. Ormai il popolo è stufo di guerre e si domanda perché si fanno le guerre: nella maggior parte è per soddisfare l’opinione di un solo uomo. E la catastrofe piomba sempre sul povero, per il ricco è sempre lo stesso.

Questi, quando vedono un povero nella squallida miseria, dicono che è per abitudine, lo chiamano poltrone, perché non si è saputo creare un tenore di vita più equilibrato. Lo Stato dovrebbe risolvere questo problema, che è il più importante per la collettività dei lavoratori. Non è mica colpa del povero se è povero e non tutti possiamo nascere in case lussuose e ricche ma il lavoratore non pretende se la natura non lo accompagna, ma almeno bisogna soddisfarlo dandogli un continuo lavoro e una giornata equivalente al costo della vita; invece proprio per questo sta malissimo. Il ricco si fa ricco, non per altro ma per lo sfruttamento del lavoratore con il sudore della sua fronte; ma se noi lavoratori lavoriamo sotto la dipendenza dei ricchi, procurando loro con il nostro braccio ricchezze e beni che sono per loro arcisuperflui, perché non deve il ricco avere riguardo del lavoratore? Si parla di diritti e doveri: ma il dovere pretendono dal lavoratore e ai diritti, che gli spettano, sono lungi dal pensare. Ma ne sono a conoscenza e come! Ma abituati sempre a spadroneggiare, la loro fierezza è quando un lavoratore lo vedono ai loro piedi chiedendo il necessario. Ma Dio non ha creato il mondo a beneficio della intera umanità, chiamandoci tutti figlioli? «Voi siete tutti fratelli!». E perché questa natura, creata a nostro beneficio, sarà da me sfruttata con il mio lavoro e da te goduta? E perché di buon senso non ci sarà un avvicinamento fra ambo le parti, che da secoli e secoli si spera? Si spera che lo Stato italiano voglia prendere seri provvedimenti su ciò che riguarda la necessità del povero, basandosi su una legge vera cristiana, procurando pane e lavoro a tutti.

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