ESTATE _ Un racconto di Enrico Buono
ESTATE è (secondo l’ordine di pubblicazione su questo blog) è il quarto e ultimo racconto di Enrico Buono. Il volume su cui i racconti sono pubblicati si chiude con un’Appendice in omaggio all’autore, intitolata Il viaggio, che è esso stesso un racconto e, pertanto, come tale sarà a suo tempo pubblicato.
Con la pubblicazione dell’intervista di Rocco Scotellaro a Cosimo Montefusco risulta completata la pubblicazione delle opere di Rocco Scotellaro (E’ fatto giorno, L’uva puttanella, Contadini del Sud, Uno si distrae al bivio), a parte numerose poesie. C’è ora bisogno di ordinare ed eventualmente correggere le categorie del blog relative a tali opere: a sistemazione avvenuta di ciascuna categoria darò apposito avviso.
Nel frattempo il blog prosegue con la pubblicazione delle poesie di Giuseppe Giannotta di Una passera grigia. (a.m.)
Questa luce, mio Dio, nella grande estate!
Tanta che ancora oggi me ne sento abbagliato! L’aria ondeggiava sulle pietre infuocate; i cani erano distesi per le strade come morti; i silenzi pesanti. Abitavo in una casetta a piano terra: quasi povera, con la volta bassa e i mattoni grezzi, le camerine guardavano a Sud verso il colle di S. Maria, ed il sole del pomeriggio le inondavano di luce.
Nel giardino del commentatore i lillà sfiorivano tra un molle profumo ed il grande gelso dai frutti neri toccava con rami i davanzali delle nostre finestre. Vivevo tutto il giorno, d’estate e d’inverno, nella strada con i miei piccoli amici e il caldo e il freddo passavano, con l’alterna vicenda delle stagioni, senza che me ne rendessi conto. Preferivo l’estate: questo sì, lo ricordo perfettamente: l’estate ch’era per me una più lunga giornata di luce. In quei caldi pomeriggi le nostre voci erano l’unica cosa viva nel rione che pareva addormentato. Per terra, incuranti della polvere e del letame profusi dovunque, giocavamo a bottoni: mi rifornivo direttamente dai calzoni di mio padre o a pennini vecchi e non: arrugginiti, sciancati, rilucenti d’oro o d’argento, di marca Ferrj, parlamento, a forma di mano; ovvero correvamo a rotto di collo tra l’intrico dei vicoli per poi tornare al punto di partenza ansimanti e sudati. Il tema delle scorribande non variava mai: si faceva a “briganti e carbonieri”, io mi riservavo sempre la parte del carabiniere, o a “fra Girolamo” che usciva solo con i figli dalla tana e per l’occasione annodavo robustamente le nocche del fazzoletto, infilandovi subdolamente una pietra, perché, secondo la regola; chi perdeva le doveva prendere. Durante la contr’ora, la gente amava riposare e non aveva torto. L’afa toglieva le forze ed invitava al sonno. Riposare: ma come, se quella massa di sforcati non dava requie?
“Briandi, maleducati, svergognati, senza coscienza: fato silenzio! Pore voi vi mettete con questi cafonacci? Lo dirò a don Giulio”.
Che altro poteva dire e fare quella povera gente?
“mettetevi la maschera” urlavano i più arrabbiati.La maschera? E perché? Era forse carnevale? Proprio non riuscivo a capire.
Compar Notaro soffriva più di tutti per quello stato di cose. Afflitto com’era da periodica nevrastenia, ai primi calori crollava ..
“zitti che il compare ha la nevrastenia”.
“non gridate che papà ha la nevrastenia”.
“il notaro ha oggi cento diavoli per capello”.
Per me, la nevrastenia era quella cosa che faceva arrabbiare il commentatore e lo spingeva a maltrattare i poveri cafoni che andavano da lui per stendere lo strumento in quei giorni, di questo ero certo, il notaro prendeva an-ti-ne-vro-ti-co e lischi-ro-ge-no, due medicinali miracolosi, come affermavano mia madre e zia Concetta, sulle cui etichette :spiccavano i volti baffuti dei chimici scopritori della formula e giudizi calorosi sui benefici effetti del prodotto.
Il commendatore aveva dunque bisogno di tanto riposo e di tanta pace e non potendo chiudere occhio tutta la notte, confidava nel pisolino pomeridiano per rimettersi in forze. Possibile che non ce l’avrebbe mai fatta? Possibilissimo!
“Antonia, Antonia gridava fa tacere quella teppaglia maledetta. Che baldanza, Gesù che baldanza schiamazzare senza riguardo e senza respiro”.
Antonia, la perpetua, interveniva allora decisa a farla finita ad ogni costo. L’invito del padrone era per lei, fedelissima, un perentorio ordine che non si discuteva. Dopo vani e stentati appelli che ci rivolgevano dal balcone perché la smettessimo di gridare per non svegliare il signorino, ossia il commentatore, aveva sempre a portata di mano, ad ogni buon fine, un grosso secchio pieno d’acqua, zitta zitta compariva sul portone di casa, brandendo una scopa di pennacchio e senza aprir bocca, nera di collera, ce la sbatteva a tradimento sulla testa, convinto di compiere un sacro santo dovere.
E noi via di corsa, dopo il primo sbalordimento, finché a rispettosa distanza noi le facevamo orribile boccacce e gesti osceni, mentre la tapina, impotente ed addolorata ci fissava con i suoi piccoli occhi spenti.
Per le strade vagavano in libertà porci magri, imbrattati di fanghiglia rappresa, su cui i più spericolati tra noi montavano giostrando come in un famigliare rodeo in piena velocità.
Famelici cani bastardi: menelik, spagnoletta, comete, con la coda lunghissima, costole sporgenti ed una strana indifferenza ai nostri calci, erano alla continua ricerca di cibo. Il venditore dì “felpa” altissimo, vestito di panno nero in pieno agosto con sulla spalla sinistra il pesante rotolo della merce, portava in paese ad ogni estate, si fermava all’imbocco dei vicoli con le mani fatti ad imbuto, lanciava il suo grido, che era solo un lungo lamento: “felpaaaaa”.
Si fermava un istante per riprendere fiato e ad asciugarsi il sudore che gli colava abbondantemente sulle guance e quindi ricominciava: “felpaaaa” ma nessuno acquistava niente: almeno così ricordo.
Da Sant’angelo frattanto scendeva Paoluccio il povero scemo del paese passando per il vicolo strettissimo di Scotellaro. Era vestito con la sola camicia, aveva circa ventenni, un sudice straccio tanto corto d’avanti che non riusciva a coprire le vergogne. Trotterellava per le strade più che camminare, proprio come fanno gli animali, piegato quasi in due, con una lunga canna tra le mani con cui. scompigliava i gruppi di galline razzolanti tra i mucchi di letame. Sulla maschera atroce del viso errava un pietoso ghigno. Noi gli correvamo dietro per dargli la baia, lo spingevamo per farlo cadere, come eravamo impietosi, ma lui non sentiva e non capiva niente. Mastro Antonio, lo scarpaio seduto sulla porta di casa beatamente perché fatto a vino, elevava di scatto in difesa dell’infelice:
“Zitti e quieti! Bè , be? Un povero, figlio di mamma’ disgraziato e stroppiato! Vergogna” .
Si, dovevamo proprio vergognarci. Mastro Antonio non scherzava e noi lo sapevamo fin troppo bene. Con quel viso paonazzo divenuto di colpo cattivo, con quegli occhi lacrimosi soffocati dalle palpebre gonfie, ci incuteva un sacro terrore. Meglio facevamo a sedere in un cantuccio, quieti quieti, buoni buoni: per far dimenticare la incosciente crudeltà di poc’anzi. Quel forzato riposo quasi ci voleva, ne avevamo bisogno, poiché la spossatezza ci vinceva d’improvviso, come a tradimento. In fondo, ora lo so, era pur bello seguire con gli occhi socchiusi per la grande luce, quasi un sogno, le piccole vicende di quel piccolo mondo. Vedevo un po’ dovunque uomini scamiciati che sonnecchiavano sulle soglie delle case, in pose scomposte, con bocca aperta costellata di mosche e quella lucertolina verdissima da dove era sbucata? Si arrampicava con piccole tappe veloci su per il muro di fronte, con un guizzo finale era bella e sparita in un ampio spacco dove un ciuffo di viole gialle fioriva come d’incanto. Pensavo allora alla lucertolina: come viveva? Dove dormiva? Cosa mangiava?
Quando moriva? Che schifo le mosche. Che schifo, mio Dio! Erano a milioni dappertutto, toccavano tutto e tornavano senza tregua sullo stesso angolo di occhio, sullo stesso dito, fin dentro il naso; erano il mio incubo, le mosche; mi bastava di vedere una sola sull’orlo del piatto perché non mangiassi. E quante non riuscivo a trovarne nel fondo dei piatti, proprio quando era quasi finita la mia abbondante porzione di maccheroni di ziti?
Scorreva il tempo e ancora non veniva il noto richiamo; sottile fischio modulato di mio padre, antica tradizione di famiglia, che distinguevo tra mille. Che potessi farla franca oggi? Odiavo dormire il pomeriggio; il bucìo della stanza mi opprimeva e il sonno non veniva, non poteva venire. Eppure la legge era quella: bisognava dormire perché i bambini, così dicevano i miei genitori, convintissimi, hanno necessità di sonno più che di pane: era poi vero? Me lo chiedevo ogni volta e non trovavo risposta! .
Come un cane bastonato me ne rientravo in camera, mi stendevo supino sul letto di ferro, sempre in bilico per via del pagliericcio mobile, fatto con foglie secche di grano turco e con le mani intrecciate dietro il capo le gambe accavallate, fissavo il labile gioco delle ombre sui muri della stanza. Un moscone ronzava a tratti nel silenzio, cozzava qua e là alla cieca, e quindi taceva come tramortito. Ora aspettavo, che mio padre si addormentasse: e non passava troppo tempo perché il brav’uomo piombava di colpo in un sonno profondo, che mi consentiva di attuare il mio piano di fuga abilmente covato. Pianissimo’ mi sol- levavo a metà sul letto per ridurre al minimo lo scricchiolio delle foglie secche del pagliericcio; fatta una conversione a destra, trattenendo quasi il fiato, scivolavo poco per volta fino a toccare con i piedi il pavimento; pianissimo giravo il pomo della porta con tanta maestria che lo stridòlio del congegno quasi non si avvertiva; aprivo la porta solo quel tanto che mi consentisse di passarvi appiattito, di traverso e con le scarpe in mano a passi silenziosi, e guardingo, ritornavo nel mondo vivo della luce, nel mio mondo, con una felicità sempre nuova.
Ma sentivo l’aria era ormai diventata più densa ed il cielo meno luminoso. Guardavo in alto quasi per istinto come per sincerarmene; ma non trovavo conferma: o cosi mi pareva. Erano forse i vapori infuocati che salivano dalla terra al cielo e si condensavano più in alto, creando una invisibile leggera cortina, ma bisognava sapere tutto questo.
Pago della libertà guadagnata, contagiato dalla generale quiete, preferivo ora starmene in un cantuccio a sentir raccontare da Mariannina che le sapeva tutte, le vecchie favole del cece, del monacello, del soldo bucato “C’era una volta un cecere .. “ così cominciava Mariannina, la buona compagna di giochi, un po’ rachitica un po’ balbuziente, la quale parlava parlava a non finire, strabuzzava gli occhi respirava male mentre raccontava, tanto male che pareva dovesse morire sfiatata da un momento all’ altro. Eravamo ormai sulla via del sogno, tra boschi e castelli incantati, immemori del mondo, allorchè nel silenzio pieno del pomeriggio, un grido acutissimo si levava nell’aria, come di belva ferita a morte. Scossi nel profondo, con le orecchie tese, restavamo come impietriti.
Allora ci lanciavamo a precipizio per gli sconnessi vicoli in discesa, in una miracolo di equilibrio, come spinti da un’assoluta urgenza, e ci buttavamo ansanti sulle pietre infuocate dello spiazzo assolato: la nostra meta, da dove avremmo visto e sentito meglio.
Maria Oliva, la raussa, l’avara, era una donna senza età, senza sorriso, sempre vestita a lutto. Viveva sola e come vivesse era un mistero. D’estate vendeva cesti di splendidi fichi bianchi, pesandoli con la stadera come fossero d’oro; d’inverno vendeva mele limoncelle avvizzite ma saporose.
I vicini di casa la odiavano e la temevano per le “fatture” che la “masciara”, la chiamavano così, combinava, nel segreto del suo antro con filtri e parole magiche. Preferivamo tutti di starle alla larga e solo di tanto in tanto, cosi, quasi per gusto, qualcuno prelevava dal fornito pollaio di Maria Oliva la migliore gallina. Allora la strega esplodeva: a suo modo, con i mezzi che aveva, imprecando e lanciando “sentenze” ossia maledizioni all’aperto con voce resa disumana dall’odio e tutto con un rituale fedele nel tempo: un prologo e tre brevi apparizioni in cui mali orrendi erano invocati sul capo dei ladri sacrileghi. Sbucava Maria Oliva, da una porticina sul piccolo ballatoio inondato di luce :alta, magrissima, nera, le braccia ossute volte verso il cielo. Se ne stava ferma per alcun tempo, quasi alla ricerca di una ispirazione e quindi rompeva l’alto silenzio:
“Giustizia di Dio cada sopra le carni fracide di chi mi ha rubato la “gaddina”. La stridula voce attingeva a toni più alti e quasi moriva nella strozza.
“Tante piaghe sul cuore del ladro per quante penne teneva la mia “gaddina”. Una. pausa più lunga, misurata, densa, atroce rancore.
“Deve abbattere mani e piedi e morire verminoso chi ha rubato la mia “gaddina”, aveva ormai finito. Le lunghe braccia calate lungo i fianchi, girava solennemente l’alta persona, abbassava la testa e spariva come inghiottita nell’antro buio della casa.
Noi ce ne stavamo ancora, fermi, come inchiodati e senza voce, con nel cuore che batteva forte la eco angosciosa di quel grido del malaugurio.
L’aria frattanto era divenuta fosca e grosse nuvole di tempesta si accollavano nel cielo spinte dal vento che si era levato subitamente. Poi un lampeggiare improvviso, uno scoppio fragoroso di tuono e scroscio violento dell’ acqua.
Fuggivamo allora atterriti nelle nostre case, nel nostro porto sicuro.
L’estate era forse già morta.
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