Scotellaro. Lucania metafisica 

Massimo Onofri, 28 agosto 2014

Quanto s’inarcò la già irredimibile disperazione di Amelia Rosselli, la figlia di quel Carlo assassinato esule dai fascisti, per poi incistarsi per sempre nel suo cuore? Quanto si sollevò, altissimo sui giorni, il suo lamento funebre per Rocco Scotellaro, il sindaco socialista di Tricarico, in provincia di Matera, incarcerato ingiustamente per concussione, su calunnia dei suoi nemici politici, morto improvvisamente d’infarto a Portici, a soli trent’anni, il 15 dicembre 1953? Leggetevi questi versi intitolati Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro) – quelli con cui Amelia abbandona l’inglese e comincia a scrivere in italiano – composti di getto a ridosso dell’evento tragico che le strappava quell’amore grande e stupito, che avrebbe potuto forse salvarla per sempre e che invece, ferocemente reciso, la condannò definitivamente. Rosselli ha solo ventitré anni: «Dopo che la luna fu immediatamente calata / ti presi fra le braccia, morto». E più avanti: «Un Cristo piccolino / a cui m’inchino / non crocefisso ma dolcemente abbandonato / disincantato». E ancora: «Rocco vestito di perla / come il grigiore dei colli vicino al tuo paese / mostrami la via che conduce / non so dove».

Rocco Scotellaro: l’ex partigiano amico di Carlo Levi, il meridionalista che, deluso dal partito, si stava ormai legando agli amici di Giustizia e Libertà, Carlo Cassola e Aldo Capitini; l’autore d’indimenticabili libri, pubblicati purtroppo postumi, come Contadini del Sud (1954) e L’uva puttanella (1955), ma anche d’un cospicuo numero di notevoli poesie, che dieci anni fa Franco Vitelli ha raccolto per Mondadori, con una bella introduzione di Maurizio Cucchi. Ha ragione Cucchi quando dice che il “primo merito” di Scotellaro, quello epico e popolare, sta «nella capacità di restituire voce a chi per secoli, storicamente, l’aveva perduta, o non l’aveva mai avuta, o se l’era vista tacitare per le sue asperità scomode». Ecco, da Topi e condannati (1948): «Solo le lire che abbiamo spaccate! / Poveri siamo e poveri siamo stati, / domani ci ficcano dentro, nell’inferno. / Ma, diteci, si salva nell’occhio dei mendicanti / l’uomo piccolo e torto, / cui comandano / di scarnare le strade dai pidocchi che siamo?». Ma si tratta d’un merito etico e civile, che ha il suo correlato più suggestivo in un realismo di forte, dolorosissimo, impatto. Capace di cogliere lo sconcio della vita, anche nel momento in cui la si va celebrando, magari in un ballo da festa di paese. Così in È un ritratto tutto piedi (1948): «Nella grotta in fondo al vico / stanno seduti attorno la vecchia morta, / le hanno legate le punte / delle scarpe di suola incerata. / Si vede la faccia lontana sul cuscino / il ventre gonfio di camomilla. / È un ritratto tutto piedi / da questo vano dove si balla».      La poesia di Scotellaro, coi suoi endecasillabi dilatati e poi sfondati, con la sua vocazione narrativa, raggiunge infatti i migliori risultati quando la disposizione metafisica si accentua: là dove, seppure dentro una conclamata vitalità, si carica di presagi, accogliendo, pascolianamente, la visita dei morti. Una poesia subito debitrice nei confronti dell’invisibile. Cito da Pace con i miei morti (1948): «Abbagliano i balconi a cielo aperto / le notti di luna e il vento, / un bambino allora mi sento. / Allora so condiscendere / alle voci serene dei miei morti / che fecero la casa dove abito». Oppure, in L’acqua piovana (1949): «Salute, miei parenti morti, l’acqua piovana vi lava la faccia».

Come dovevano apparire, gli innamorati Rocco e Amelia, agli occhi di chi li incontrava, non tanto a Roma dove Rosselli viveva – ci sono tante testimonianze in proposito – ma lì, in Basilicata, a Tricarico, o magari in quella Matera che, oggi come ieri, non s’è mai riuscita a impedire – anche nel degrado economico e ambientale, anche nelle parossistiche differenze di classe – quell’aura di città felix. Lo confesso: non riesco a leggere i moltissimi versi di Scotellaro dedicati al paesaggio della sua terra, se non dentro uno sguardo, anche trepidante, che immagino condiviso, persino nell’assenza, con quello della giovanissima amata: un paesaggio che sembrava promettere un amore normale, nei modi d’una normalità che Amelia aveva troppo presto perduto, nella famiglia d’origine, e che non avrebbe mai più ritrovato dopo la morte di Rocco. Cosa che giustifica in Scotellaro un certo lirismo, che talvolta entra in contraddizione con certe crude asperità dei suoi versi socialmente più compromessi, di denuncia.      Del resto, a partire già dalle poesie più antiche, quel paesaggio era lavorato, come dentro un sogno d’arcade. Prendete una poesia come Lucania (1940): «M’accompagna lo zirlìo dei grilli / e il suono del campano al collo / d’un’inquieta capretta. / Il vento mi fascia / di sottilissimi nastri d’argento / e là, nell’ombra delle nubi sperduto, / giace in frantumi un paesetto lucano». Che era forse un preavvertimento, che problematizzava la fede nelle sorti magnifiche e progressive del socialismo: il sospetto che, insomma, la salvezza si trovasse forse nella Natura, non certo nella Storia.

 

 

 

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