Ripeto l’accenno già fatto succintamente del contenuto del Gruppo A) degli inediti di Rocco Scotellaro e lo completo.

     Il Gruppo A comprende carte manoscritte di Scotellaro e carte dattiloscritte presumibilmente da lui stesso. Per trascrivere i canti Scotellaro utilizzava il primo pezzo di carta a portata di mano: ricette mediche, ricevute di ristorante, buste da lettera, circolari, quarti e frammenti di foglio e altro. Anche per gli Appunti dell’«Uva puttanella» Levi rilevò, dal modo in cui li trovò trascritti, che Rocco aveva l’abitudine di mettere su carta (e spesso su foglietti microscopici, scatole di cerini, risvolti di buste, pagine di quaderni, pacchetti di sigarette) ogni cosa veduta, ogni immagine e sentimento ed espressione» (Carlo Levi «Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia», Einaudi, 1955).

     Le carte sono, per lo più, scritte su un solo verso e non sono numerate. L’edizione pubblicata dal prof. Bronzini occupa le pagine da 235 a 318, con 129 testi, e nonché essere ordinata ed avere numerato i testi, risulta enormemente accresciuta dai commenti e dai molteplici riferimenti ad analoghi canti popolari di altri paesi lucani o di paesi di altre regioni meridionali. Queste aggiunte, di notevole interesse e valore culturale, tuttavia non le riporterò nel blog, per intuitive ragioni di spazio.

     Secondo l’ordine dell’edizione: precedono le carte manoscritte e sotto i rispettivi testi dialettali seguono le versioni in lingua, che si trovano fra le carte dattiloscritte. Tutti i testi dattiloscritti sono contrassegnati con un asterisco, che sarà riportato anche nei post di questa categoria. Generalmente, infine, il testo della versione in lingua ha lo stesso numero del testo dialettale seguito dalla sigla VS (= versione Scotellaro).

     Nella parte finale dell’edizione sono aggiunti i distici e il motto proverbiale che si trovano già collocati da Scotellaro in testa alla raccolta di poesie «E’ fatto giorno» (quella pubblicata a cura di Franco Vitelli negli Oscar Mondadori del 1982), nonché il «canto di rampogna» da lui composto in dialetto per Antonio Santangelo (il prof. Bronzini scrive: un giovane contadino) che voleva emigrare; canto che fu trovato da Levi in un appunto di Scotellaro. Si tratta di sei testi particolari, che si distinguono dai precedenti 123 canti popolari, che sono pubblicati in questo blog e qui ripubblico tutti assieme in questo primo post della categoria degli inediti.

124

Oi come songo allere li banditi
oi quanne vanno dritte ‘e schiupputtate

     Traduzione: Oh come sono allegri i banditi oh quanto vanno dritte le schioppettate.

     Distico di canto di briganti, pronunziato da Brancaccio in carcere «volendo dire – commenta Scotellaro – «tutte le cose che noi uccelli frenetici non dicevamo ancora contro i fatti del giorno».

125

Oi t’aià nghiotte la anca ca ti tir
oi possa sce’ nt’America cu nu suspir.
Te possa venne la ‘amma chi bastone
nchianà na scala quanto lu calancone.

Traduzione: Oh! Che ti debba inghiottire l’anca che ti tiri, oh! Che tu possa andare nell’America con un sospiro. Ti possa tu vendere la gamba. Ti possa tu vendere la gamba col bastone, salire una scala quanto un burrone.

     E’ una quartina di endecasillabi a rima baciata che Scotellaro improvvisò su un modulo di canto popolare di rampogna per esprimere protesta e rabbia per chi (nel caso: Antonio Santangelo), attratto dal falso miraggio dell’America si apprestava a partire dal proprio paese. Il testo è tratto da un appunto del 25 novembre 1950, «dove» – come rilevò Levi – «nelle note per un giovane che vuole partire si sente la profondità poetica di un affetto, che è insieme un norma di vita, un severo giudizio».

     La traduzione è sbagliata. L’anca della traduzione è l’articolazione che tiene unito il femore al bacino (diificile, evidentemente, da tirare e inghiottire), ma “la anca”, che è tradotta, è il dente molare. Scotellaro ha concorso a determinare l’errore, giacché la parola in volgare equivalente a molare ha pronuncia gutturale attenuata (anga e non anca). e la scrittura richiede  il suono gutturale tenue “g”, anziché duro “c”: «la anga».

     “Lu calancone” è una strada di Tricarico in forte pendenza con lunga salita. Tradurre con “un burrone” rende bene il concetto espresso nella rampogna.

126

Svegliati bella mia che giorno è fatto,
sono volati gli uccelli dai nidi

E’ il distico in lingua di «canto contadino», come lo definisce lo stesso Scotellaro, apponendolo al titolo «E’ fatto giorno» della sua raccolta di poesie, a indicarne la fonte diretta d’ispirazione espressa nella raccolta scotellariana. Omesso da Levi nella prima edizione delle poesie del 1954, è stato ripristinato da Vitelli nella seconda edizione del 1981.

     L’originale dialettale lucano del canto popolare, da cui è tradotto il distico, non è (o non era) stato rintracciato, ma l’archetipo era considerato omologabile in canti di partenza, a cui afferisce il motivo simbolico, con funzione di similitudine, del volare degli uccelli dai loro nidi.

127

Mariarosa statti bona
Io te lascio e t’abbandono.

      Questo distico, ripreso «da un canto popolare» omesso nella prima edizione di «E’ fatto giorno», a cura di Carlo Levi, si ritrova nella seconda edizione del 1982 a cura di Vitelli. Qui è apposto con l’indicazione da u canto popolare, al titolo della prima sezione del poema, intitolata “Saluto”, che nella prima edizione leviana è intitolata “Invito”.

128

Io me ne voglio andare in fontanella
dove vanno le belle donne a lavare.

     Il distico è chiaramente estrapolato da un canto popolare in dialetto, il cui tipo è rappresentato da due versioni rispettivamente di Spinoso e di Genzano di Lucania. Nell’edizione del 1982 è apposto al titolo della Sezione “E’ calda così la malva”.

 129

Chi ebbe fuoco campò
chi ebbe pane morì

Apposto al titolo della terza sezione dell’edizione di «E’ fatto giorno» del 1982 intitolata Neve, con l’indicazione I Nonni. E’ un detto antico di tradizione favolistica. Noto in Basilicata, ha corrispondenze nelle culture mediterranee.

     La supremazia del fuoco come fonte di calore si è sviluppata come esperienza di vita nomade propria di popolazioni dedite alla pastorizia e ha conquistato una speciale mitologia presso le religioni mediterranee (G.B. Bronzini, «Cultura contadina e idea meridionalista», Dedalo, Bari, 1982, p. 101).

 

 

 

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