Il 12 Ottobre in tutta Italia si ripete la III edizione della FAIMARATHON. Come lo scorso anno TRICARICO aderisce all’iniziativa con una passeggiata, culturale, guidata dai ragazzi delle scuole del territorio che faranno da “Ciceroni”.
     Un percorso, questa volta, insolito – come da informazione del Gruppo FAI Tricarico -. Non una chiesa, un castello, un palazzo, ma un’area aperta, antropizzata, di grande valore ambientale, a ridosso del centro abitato, ricchissima di spunti storico paesaggistici, che necessita di conoscenza e valorizzazione. Aggiungerei: di spunti letterari, alludendo a un sentimento di sofferta nostalgia di Rocco Scotellaro per questo stesso percorso.
     INVETTIVA ALLA SOLITUDINE è una poesia di Rocco Scotellaro datata Napoli, giugno 1947, già pubblicata su questo blog. Rocco era stato eletto sindaco di Tricarico il 29 ottobre dell’anno precedente e si può supporre che nel mese di giugno del 1947 si fosse recato a Napoli per sostenere esami universitari.
     La poesia è formata di due strofe. La prima strofa esprime sentimenti di nostalgia. Immagini di Napoli si confondono con ricordi di Tricarico. Lo sferragliare dei tram sulle rotaie al Rettifilo (il corso Umberto I, una delle arterie principali della città così chiamato per l’andamento rettilineo che congiunge piazza della Borsa a piazza Garibaldi, dove si affaccia la Ferrovia centrale) ricorda lo scroscio violento del torrente Milo di Tricarico, che scorre nel vallone (u uaddon, uno squarcio di incomparabile bellezza) ai piedi della Saracena e annacqua i bellissimi orti saraceni. Uno stuolo di torchiari, colombi assettati, dalla torre di Santa Chiara si recano a dissetarsi alle acque del torrente, e  a notte l’assiolo fa sentire il suo straziante lamento, che rompe il sonno dei frantoiani.
     Nella seconda strofa la nostalgia si fa invettiva, che si placa ritornando alle immagini del Milo bianco e del cieco di piazza Miraglia che suona/ al fresco di mattina ai marciapiedi /vederlo che ci appare un Cristo vivo /disceso nell’inferno/il giorno che Gli strappano i veli nelle chiese.
     Il “cieco di piazza Miraglia” – ne ho vivo ricordo – era un mendicante cieco e senza gambe, che si trascinava su una tavola di legno con quattro piccole ruote e suonava la fisarmonica con intensa partecipazione, il volto si segnava di profonde rughe, che mostravano sofferenza o orgasmica immedesimazione alle note che traeva dalla fisarmonica. Tutto il giorno la suonava negli stessi posti del decumano maggiore e del decumano inferiore, a Spaccanapoli, nei pressi della Chiesa del Gesù, a piazza Miraglia davanti al Policlinico e prima di via dei Tribunali. Si chiamava Felice e abitava in via Ecce Homo ai Banchi Nuovi, tra via Monteoliveto e via Mezzocannone, in fondo alla costa che da Spaccanapoli scende verso il Rettifilo e il mare. Era stato una mascotte dei rivoltosi delle Quattro Giornate di Napoli. Felice aveva colpito la sensibilità di Rocco, che lo ricorda in questa poesia e nella poesia Per Pasqua alla promessa sposa, dove Angelo gli ispira l’immagine degli angeli deturpati (e cantano la morte del Signore / solo gli angioli deturpati).
     Dei versi finali di Invettiva alla solitudine si apprezza la suggestione poetica. Secondo la fede cristiana, invero, il giorno che nelle chiese strappano il velo al Crocifisso, il corpo di Cristo giace nel sepolcro e agli inferi (o all’inferno) scende la sua anima. La discesa di Gesù agli inferi è verità di fede proclamata nel 5° articolo del Credo secondo il Simbolo degli Apostoli (discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò dai morti). Significa che Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri.

INVETTIVA ALLA SOLITUDINE                                          

Questo tuono di ferraglie sul Rettifilo
come ripete il verso costante, lo stesso
del vallone squarciato del paese,
dove ai piedi delle case il Milo,
torrente dell’inverno e dell’estate,
annacqua gli orti pingui sulle pietre.
Lì vola oggigiorno lo stuolo di torchiari
(che cercavano assetati
disdetti dalla torre normanna,
colombi del ritiro sulla rupe?)
e di notte il lamento dell’assiolo
strazia davanti le porte
il sonno dei frantoiani.

 

Quale smania ti prende, amico dell’uomo,
di scendere al tuono sul Rettifilo!
Lungo tutte le rotaie della terra
sigarettaie come queste di Napoli
ed anime difformi da noi
abbattute alla maceria della strada?
Nemmeno il sole più ci scuote,
il sole che viene dal mare.
O il disastro e la furia e la morte,
la morte che già vive in mezzo a noi.
E pittori e cantanti e poeti,
animali da serraglio.
Ma l’assiolo che strazia e il Milo bianco.
E il cieco di piazza Miraglia che suona
al fresco di mattina ai marciapiedi
vederlo che ci appare un Cristo vivo
disceso nell’inferno
il giorno che Gli strapparono i veli nelle chiese.

 (Napoli, giugno 1947)          

     A MATERA la FAIMARATHON sarà incentrata sulla storia del conte Giovan Carlo Tramontano e del suo incompiuto castello – a 500 anni dalla morte del suo costruttore, trucidato da una congiura di nobili alimentata dal malcontento popolare a causa delle forti e continue tassazioni.
     Anche il percorso materano richiama spunti letterari, ignorati, ma che danno carne e sangue alla storia del conte Tramontano. Di questa si possono leggere alcune storie – più o meno fedeli, non dissimili – su Internet. Ma la storia che richiamo – non una storia ma un favola con la forza delle verità della poesia – è quella di Carlo Levi. Vi sono tre versioni pubblicate nel volume postumo «Le Mille Patrie » a cura di Gigliola De Donato per l’Editore Donzelli, 2000: le prime due intitolate, rispettivamente, Il conte Tramontano I e il conte Tramontano II (in cui il senso della storia è rimesso a una poesia di Rocco Scotellaro), e la terza incastonata nella « breve, semplice storia dell’insurrezione di Matera, che gli italiani non conoscono. Prima delle quattro giornate di Napoli, prima di ogni altro episodio della Resistenza, Matera si ribellò e corse alle armi, senza preparazione, senza organizzazione, spontaneamente », intitolata «Tre ore di Matera ».
     Mi riservo di pubblicare tra qualche giorno l’unico racconto delle due storie della rivolata di Matera e del conte Tramontano, questa raccontata a Carlo Levi una sera, in una pizzeria di New York, da un oriundo materano.

 

 

 

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