TRE ORE DI MATERA di Carlo LEVI
LA RIVOLTA DI MATERA DEL 21 SETTEMBRE 1943
IL CONTE TRAMONTANO
      Dentro il fianco del monte, sopra la Gravina, il torrentaccio maligno che sembra un fiume infernale, in faccia alla costiera brulla, grigia di pietra e di desolazione scavata di grotte preistoriche, si nascondono i sassi di Matera. Un mondo celato nella terra dal principio dei tempi, dove, negli antri scavati nel tufo vivono uomini, donne, bambini e animali dietro le finte facciate, tra le chiese rupestri incrostate di muffa verde, nel degradare di quegli imbuti naturali: o in fondo all’imbuto si leva una roccia coperta di croci; è la chiesa di Santa Maria di Idris.
     Questa è la capitale dei contadini, il cuore nascosto della loro antichissima civiltà. L’antica miseria e l’antico dolore pare guardino dai neri occhi delle porte e parlino con l’accento della semplice verità. Chiunque veda Matera non può non restare colpito tanto è direttamente espressiva e toccante la sua dolente bellezza. Non è la miseria, informe e suicida, dei sobborghi della città, ma la miseria nobile e civile dei contadini, filtrata attraverso l’eterno del tempo, continuata sotto tutti i soli e tutte le piogge, ripiegata su se stessa, chiusa nella terra, come una cosa preziosa di fronte a un mondo ostile. Quando la vidi, la prima volta (era il tempo del fascismo e la segregazione in cui vivevano ci apriva gli occhi sulla eterna segregazione contadina) ne fui affascinato e commosso, e scrissi, descrivendola, le pagine più appassionate e più nere del mio libro Cristo si è fermato a Eboli. Dopo di allora,  molti hanno descritto questa città misteriosa, molti si sono azzardati nelle sue stradette dirupate, si sono affacciati alle porte delle grotte e hanno descritto la povertà, le malattie, le condizioni inumane di vita.
     Non soltanto l’interesse dei giornalisti e dei letterati si è rivolta a questa città, ma quelle degli scienziati, dei sociologhi, degli igienisti, degli educatori, degli etnologi, e degli urbanisti. Gruppi di studio vi sono andati, vi hanno lavorato e hanno fatto statistiche e ricerche approfondite, come quello guidato dal professor Friedmann (e di cui fanno parte la dott. Aracco, il dott. Mazzarone e altri insigni studiosi), che sta terminando una relazione completa su tutti gli aspetti economici, sociali, sanitari, linguistici, culturali della città di Matera, di cui fu data notizia nel recente congresso di urbanistica di Venezia. Gli italiani sanno dunque, ormai, e possono facilmente sapere, che cosa è Matera, e quali sono i suoi problemi, quante delle sue grotte siano del tutto inabitabili e quanto possono essere adattate e conservate, quale sia il reddito di ogni sua famiglia e la sua composizione, quanti i nati, i morti, i , malati, i disoccupati; gli analfabeti, che cosa essi mangino e come dormano, a che distanza siano le terre che coltivano, e così via. È da sperare che la conoscenza porti all’azione e che quei duri problemi, malgrado le difficoltà e le ostilità, debbano essere risolti. Non parlerò qui, dei Sassi, delle grotte, della miseria, di questi problemi così importanti che tuttavia non possono essere realmente capiti e affrontati senza avere intuito la natura profonda di questa terra e della sua civiltà contadina.
     Per me, sia che io ci vada, sia che ci ritorni con il ricordo, o che qualche immagine me la rammenti, essa mi pare, più di ogni altra, un luogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo, tanta vi è l’evidenza delle parole, dei gesti, delle condizioni umane, la rivelatrice espressività della vita. Qui ritrovo la misura delle cose, la concretezza dei pensieri e delle immagini e, in quella brulla prigione di pietra, il senso della sempre nascente libertà. Forse Matera vuol dire materna, anche se si tratta di una madre antichissima, naturale e feroce, come la Madonna Nera, la Bruna, che vi si adora? La povertà contadina, la difficoltà di esprimersi dà verità alle cose. Le lotte e i contrasti di cui è segno evidente nelle due Matere sovrapposte, sono lotte vere, lotte per la vita, , non astratte velleità, e il pane che manca è un vero pane, la casa che manca è una vera casa, il dolore che nessuno intende, un vero dolore. Qui i Signori scrivono articoli per vantare, come cosa propria, Pitagora, Ocello e Parmenide, mentre, dal carcere, i contadini imprigionati per l’occupazione delle terre, firmano le loro lettere « detenuto , per sciopero di pane e lavoro» e Giappone vi scrive le sue poesie. Sotto il carcere, in una stradetta ripida, giocano tre bambini: posseggono in tre un solo paio di scarpe e se lo passano alternativamente. I due scalzi trascinano per le braccia, correndo, il calzato che scivola sulle pietre. La tensione interna di questo mondo è la ragione della sua verità: in esso storia o mitologia, attualità e eternità sono coincidenti.
     Un giorno, a New York, entrai per cenare in una pizzeria della seconda Avenue, all’angolo della sessantesima strada, in faccia alla grande costruzione di ferro del ponte di Queens e al fumo azzurro dell’Est River. Sulla Seconda Avenue, verso gli imbocchi del ponte, passava il flusso ininterrotto delle automobili, dei taxi-cab gialli, dei camions, come un sangue circolante senza soste. Nel cielo oscuro della sera le ombre dei giocattoli erano come una città d’aria nera, e lontano sfavillava, come un termometro gigantesco, la cima dell’Empire.
Il padrone della pizzeria si accorse subito che io ero italiano. Anche lui, cittadino americano, era nato in Italia: a Matera. Non ci era tornato da trent’anni e mi chiese subito notizie della città e di questo e quello dei suoi parenti ed amici di un tempo. Questo aveva il negozio sulla piazza vicino alla fontana, you know ? o quell’altro abitava nella zona alta vicino al castello. Poichè parlavamo del castello, un’antica rocca feudale, il padrone (mi ero seduto al tavolo da non più di tre minuti) mi raccontò subito la storia del conte Tramontano.
     «Il castello era abitato da un conte, il conte Tramontano, che aveva il nome del vento, del vento del Nord. Questo conte era malvagio: trattava i contadini come schiavi, li faceva bastonare dai suoi sgherri, contendeva a loro il necessario boccone di pane. Il suo principale divertimento era quello di mettersi alla finestra, sulla torre del castello e di rovesciare addosso ai contadini che passavano di lì, sul sentiero, delle pentole d’olio bollente. I contadini sono rassegnati e pazienti, ma un giorno la loro ira scoppiò, e impugnate le asce sfondarono la porta del castello. Il conte Tramontano si nascose nella scuderia fra i suoi splendidi cavalli, sotto un mucchio di fieno. Lì lo scovarono i contadini inferociti, lo attaccarono, braccia e gambe, ai quattro cavalli più feroci e lo trascinarono fino alla piazza, dove arrivò semi-squartato. Lo appoggiarono al bordo della fontana, you know?, e lì morì. A Matera per dieci giorni allora, c’è stata la cafonità.
     La cafonità, il potere contadino, era durato dieci giorni. Poi naturalmente tutto era tornato come prima, con qualche altro conte Tramontano.
     « Quando è accaduta questa storia?» chiesi.
     «Settantacinque anni fa», mi rispose con sicurezza il padrone.
     Settantacinque anni: in quel mondo mitologico vogliono dire cento, cinquecento, mille, chissà quando.
     «È storia vera. C’è anche un libro sul conte Tramontano. Lo puoi trovare certamente alla 42a strada. Là ci sono tutti i libri del mondo».
     L’aria antica, senza tempo, abitata dagli dèi feudali era presente nella pizzeria della Seconda Avenue. Il padrone continuava, parlandomi di un prete, che aveva ucciso un altro prete per gelosia di studi teologici nella Cattedrale di Matera, e di cento altre storie, di contadini e di spiriti.
Egli era ormai un ottimo, un vero americano, un bravo uomo di affari, un degno cittadino di una democrazia moderna, ma sotto il primo strato della sua persona, sotto quelle quattro parole di inglese, l’antico patrimonio di quell’altra civiltà, della civiltà originaria contadina, era rimasto intatto. Ed io ero tornato, parlando con lui, mentre il , grammofono suonava una ninnananna negra del South Carolina, davanti alle solitarie argille desolate della Lucania.
     Il 21 settembre 1943 in mezzo a quelle argille desolate correvano i camion delle truppe tedesche in ritirata e dalla costa avanzavano lentissime e prudenti le avanguardie alleate. A Matera i tedeschi stavano da padroni da una decina di giorni. Avevano istallato il loro comando nella casa del comando della milizia, in via Cappuccini facevano saltare i carri ferroviari della Calabrolucana, avevano dato alle fiamme un deposito delle ferrovie, giravano per le strade rubando ai passanti gli orologi da polso, gli occhiali, entravano nei negozi per rubare, fermavano gli uomini e li rastrellavano per arruolarli a forza. Un giorno, mentre i tedeschi passavano per via Lucana, una ragazzina uscì improvvisa da una porta per buttare, com’è uso, una catinella di acqua sporca in mezzo alla strada. I tedeschi credettero a un affronto: uno di essi scese dal camion con la pistola in pugno. La ragazzina corse in casa atterrita e si nascose, con gli altri bambini che erano nella stanza, sotto il letto.
     Il tedesco entrò e sparò l’intero caricatore senza colpirli. Gli allievi avieri, del battaglione di stanza a Matera dovettero fuggire per non farsi [prendere]. Scesero sui Sassi, furono ospitati, vestiti, nutriti, celati dai contadini delle grotte, con la solidarietà gentile e spontanea di chi è avvezzo all'[parola incomprensibile] comune, quotidiano dolore.
     Matera era piena di gente nascosta, di soldati sbandati, di gente di passaggio che all’approssimarsi della guerra cercava di raggiungere le proprie case. Ancora una volta gli incomprensibili avvenimenti della storia toccavano, come la tempesta, la grandine e la siccità, quel mondo, chiuso e innocente. Stranieri feroci erano qui, all’ombra del castello del conte Tramontano, portati da chissà quale vento di sventura, padroni , anch’essi, armati e ostili ancor più degli antichi padroni feudali e di quelli di oggi.
     Il pomeriggio del 21 settembre il sole, alto in cielo, batteva sulle pendici brulle della Gravina e tutti erano in una attesa che pareva calma. Ma la guerra riempiva l’aria, si sentiva lontano il cannone, da Montescaglioso, alto sul colle nudo, già occupato dagli alleati. Ma gli alleati non avanzavano, erano fermi, verso le cinque del pomeriggio, alla masseria Passarelli, a mezza strada tra Montescaglioso e Matera, e chiedevano latte al massaro.
     In quella stessa ora due soldati tedeschi, armati di tutto punto, scesi da una motocarrozzetta, entrarono nella oreficeria Caione Colella, a San Biagio. La padrona si spaventò nel vederli e temette che le svaligiassero il negozio con la violenza. Si affrettò perciò a offrire ad essi gli oggetti d’oro per ammansirli. Forse i tedeschi non volevano rubare. Pare che rifiutassero l’oro e dicessero «Ricordi, souvenir, pagare, pagare» (questa storia mi è stata raccontata da molta gente, a Matera, e su questo punto non tutti sono d’accordo). Forse erano anch’essi degli innocenti, portati lì dal caso, e volevano mandare, in mezzo a quella atroce confusione, qualche ninnolo, ricordo di conquista, in qualche sperduta campagna di Germania. In piazza San Biagio, vicino al monumento, c’era un capitano richiamato dei carabinieri, a pochi passi dal negozio. Un materano sconosciuto passò in quel momento davanti alla gioielleria, vide i tedeschi armati e la padrona spaventata, pensò che stessero rapinandola, si rivolse al capitano, gli indicò il negozio e gli gridò:
     «Voi che cosa state a fare qui, vigliacco?».
     Il capitano trasalì a quella frase come a una staffilata e, senza prendere tempo a riflettere, chiamò una guardia di finanza che passava e con lui entrò nel negozio e sparò sui tedeschi. Uno dei due tedeschi cadde morto, l’altro riuscì a scappare dalla porta, inforcò il sidecar che avevano lasciato fuori dell’uscio e fuggì al comando tedesco per dare l’allarme. Nel negozio rimase il morto. Il capitano e la donna lo presero e attraverso la finestra del retrobottega che dà sul precipizio lo buttarono nel Sasso. I contadini del Sasso, asserragliati nelle case, uscirono e coprirono il corpo del tedesco di fascine. Il capitano corse anch’egli nel Sasso, buttò la divisa, si vestì in borghese e si nascose in una delle grotte dei contadini.
     Mentre il capitano sparava sul tedesco nella bottega, passava davanti alla porta Manicone, l’esattore della società elettrica. Era un uomo di 40 anni, aveva moglie, era un uomo mite e tranquillo, conosciuto da tutti. Era un buon lavoratore, paziente e equilibrato, e non si era mai attivamente occupato di politica. Che cosa passò nella sua mente nel vedere il tedesco ucciso? Forse gli parve che il mondo fosse improvvisamente cambiato, che fosse venuto il tempo della giustizia, la fine della pazienza secolare. Improvvisamente egli, l’innocuo Manicone, l’esattore della luce elettrica, divenne un altro uomo, l’eroe della rivolta di Matera. Corse sulla piazza centrale, entrò nella bottega del barbiere Petrino. Aveva un pugnale. Seduto sulla poltrona, con la faccia insaponata, un tenente tedesco si stava facendo fare la barba. Manicone lo pugnalò. (Il tenente non morì, venne curato all’ospedale, e guarito, fu consegnato agli inglesi.) Manicone uscì in piazza brandendo alto il pugnale intriso di sangue e gridando a gran voce: «Materani, uscite dalle case! Armatevi! Che cosa aspettate? Materani, all’armi».
     Il pomeriggio assolato incombeva sulla città, il cannone tuonava lontano e Manicone, solo con il suo pugnale, chiamava i cittadini di Matera all’insurrezione. Nulla era preparato, non c’era alcuna organizzazione politica, il grido di Manicone correva per la città, si spargeva per i vicoli, entrava, riportato da mille bocche e mille sussuri, nelle grotte sotterranee, e tutti si armavano come potevano. Intanto, Manicone, con il suo pugnale, era giunto davanti alla caserma delle guardie di finanza, in via Cappelluti, dalla parte della stazione, e qui gridava ai finanzieri: «Quando vi armate? Che cosa aspettate». I finanzieri si armarono. (Oltre i fucili da caccia, e alle altre armi dei privati, furono presi allora i fucili della ex GIL, le bombe a mano e le armi dei soldati sbandati nascosti nelle case.) Dalla caserma tedesca uscivano le pattuglie armate per tenere le strade della città. Una di esse, composta, di due soldati in motocicletta, scese dalla stazione, voltò all’angolo di via Cappelluti, per andare in via Lucana. In questo tratto della strada c’è la caserma della finanza e poi, separata da essa da un vicolo chiuso che è diventato ora la via Torraca, la casa della famiglia Passarelli e del farmacista Beneventi[1] che dà, a sua volta, su un mulino posto sull’angolo di via Cappelluti e via Lucana, in faccia alla via Ascanio Persio che porta, pochi passi più in là, alla piazza Vittorio Veneto dove vi è la bottega del barbiere Petrino, la farmacia Passarelli, la chiesa Mater Domini dei Cavalieri di Malta. Un contadino, col suo fucile da caccia, era salito in cima al campanile della chiesa Mater Domini e di lassù tirava sui tedeschi.
     Quando i due tedeschi della pattuglia di via Cappelluti furono giunti davanti alla chiesa di via Passarelli le guardie di finanza, dalla loro caserma, aprirono il fuoco. Uno dei tedeschi fu leggermente ferito. Si affrettarono a scendere dalla motocarrozzetta che abbandonarono lì in mezzo alla strada e si rifugiarono dentro il mulino. I finanzieri, usciti dalla caserma, presero dalla motocarrozzetta le munizioni che i tedeschi vi avevano abbandonato: ma i tedeschi, da dentro il mulino, sparavano con il mitra. Un finanziere venne ferito gravemente e cadde in mezzo alla strada. Passava intanto Manicone col suo pugnale e la sua voce incitatrice, e qui una palla dei mitra tedeschi lo colse e lo fulminò. Il finanziere ferito gemeva, proprio sotto il balcone di casa Passarelli.
Il farmacista, Raffaele Beneventi, si sporse al balcone e buttò giù una sedia perché vi si facesse sedere il ferito mentre sua moglie, la giovane signora Passarelli, scendeva in strada con ovatta e con bende. Mentre le palle fischiavano, il ferito fu medicato alla svelta e portato, con la.sedia, dai suoi compagni della guardia di finanza, più lontano, sotto il portone della casa dell’Incis dove abita il giudice Ripoli e dove più tardi fu ferito a un piede il dottor Sebastiani. Qui, sotto il portone, il finanziere morì. Beneventi intanto aveva lasciato il balcone ed era corso nella sua camera da letto che dava sul mulino e sull’incrocio di via Lucana, e dietro le persiane, credendosi non visto, si appostò con la sua pistola in vedetta per proteggere di lassù i finanzieri che trasportavano il ferito. Vide allora i due tedeschi che erano nascosti nel mulino, proprio sotto la sua finestra, e sparò su di essi un colpo della sua pistola. Ma uno dei due tedeschi lo aveva visto e nello stesso momento che egli premeva il grilletto aveva tirato col mitra. 1 due scoppi fecero un solo rumore e sua moglie, che era con lui e gli diceva: «vieni via Raffaele», cercando di farlo scostare dalla finestra, non si accorse che i tedeschi avessero tirato. Beneventi si chinò e anche sua moglie si chinò. Beneventi si accasciò in terra: la pallottola lo aveva colpito alla tempia. La moglie atterrita fuggì per la casa chiamando la madre.
     Nella casa c’ era la vecchia madre, una sorella giovinetta e i tre bambini di Beneventi: si affacciarono tutti al balcone, verso il vicolo, gridando al soccorso che qualcuno venisse ad aiutare il farmacista. Intanto i tedeschi erano scesi in forza per via Cappelluti con un cannoncino anticarro. Lo piazzarono in fretta davanti al mulino, sull’angolo di via Lucana e aprirono il fuoco sulla casa Passarelli. Forse l’avevano scambiata con la caserma della finanza, pochi passi più in là.
     I bambini gridavano; i muri di tufo crollavano in nubi di polvere e di fumo, le grida di aiuto delle donne si perdevano del frastuono. Le donne non sapevano se Beneventi era morto o soltanto ferito, bisognava toglierlo di là, davanti alla bocca del cannone. Fu allora che la vecchia, la suocera, con il suo vestito nero e i lunghi capelli sciolti, corse nella stanza dove Beneventi, morto, giaceva bocconi. Non c’ era più la parete della casa, che il cannone aveva sbriciolato. Attraverso la breccia, si vedeva la vecchia chinarsi sul morto e agitare le braccia tra le pallottole che fischiavano. La vecchia guardava sulla strada attraverso il muro caduto senza capire che cosa succedesse. Anche i tedeschi la videro, le gridarono di togliersi di lì, le fecero cenno con le mani. Forse capirono che quella non era la caserma e voltarono il cannone dall’altra parte.
     In via Lucana, nella direzione di Miglionico, c’era, poco più in là, oltre l’ufficio dei telefoni la sede della società Lucana di Elettricità. I tedeschi vi corsero. Forse volevano far saltare la cabina elettrica, forse venivano per commettere rappresaglie perché avevano saputo che Manicone era impiegato alla società, forse volevano tagliare la linea privata telefonica della società che era rimasta l’unico mezzo di comunicazione dopo il taglio delle linee telefoniche e telegrafiche con i comuni della provincia (e se ne erano serviti dei materani nei giorni precedenti per tenere le comunicazioni coi paesi) forse erano spinti da tutte queste ragioni insieme. I tedeschi giunsero alla Società Lucana di Elettricità e sfondarono la porta. Dentro vi si erano asserragliati cercando di organizzare la resistenza gli operai, gli impiegati, gli ingegneri. Erano quasi senza armi ma ben decisi a difendersi e a impedire di far saltare la cabina. I tedeschi entrarono con i mitra, uccisero un ragazzo, Michele Francione, studente di medicina che era accorso alla società elettrica poco prima per aiutare il padre, impiegato, nella difesa; ferirono mortalmente il padre Francione: che morì poi all’ ospedale, uccisero l’ingegner Papini, ferirono ad un orecchio l’ingegnere direttore della Società e spararono anche contro sua moglie senza colpirla. La donna si gettò a terra, fra i morti e i feriti e rimase immobile. Un tedesco, per accertarsi se era morta, le sferrò un calcio: ma la donna non si mosse e così si salvò.
Si sparava qua e là per le strade, i contadini del Sasso, avevano sbarrato le strade con carri e masserizie, e, armati, aspettavano i tedeschi nell’intrico delle grotte, ma essi non si azzardarono a scendere in quel labirinto. Le pattuglie correvano per le strade sparando e rastrellando ostaggi che, insieme ai soldati sbandati rastrellati nei giorni precedenti, venivano portati alla caserma della milizia.
     Arrivava, in quell’ora, dalla strada di Altamura un soldato materano che veniva da Bologna per tornare a casa. Era il figlio di un fruttivendolo detto, per la sua origine, il Siciliano. Dal camion su cui lo avevano fatto salire, poté fare un cenno, passando per la piazza, al padre che stava sull’uscio della bottega. Il Siciliano si vestì con l’abito della festa, si mise in tasca tutti i suoi risparmi, ventiduemila lire, baciò la moglie e i figli e corse al comando tedesco per cercare di comprare la libertà di suo figlio. La moglie del Siciliano, corse dal maggiore comandante dei carabinieri, e gli si buttò ai piedi implorandolo di intervenire presso i suoi amici tedeschi per liberare suo figlio. Ma il maggiore non intervenne. (Questo maggiore, che aveva al suo comando una ottantina di carabinieri, aveva sempre parteggiato, nei giorni precedenti, per proposito e per prudenza, coi tedeschi, non era intervenuto a tenere l’ordine e durante l’insurrezione consegnò in caserma tutti i carabinieri e soltanto due di essi che erano fuori di pattuglia decisero spontaneamente di non obbedire, di non rientrare in caserma, e parteciparono, coi cittadini, alla lotta.)
     Il maggiore non intervenne per il figlio del Siciliano, né per altri, riuscì soltanto a far liberare un agente di pubblica sicurezza che era stato preso fra gli ostaggi. Il Siciliano fu trattenuto con gli altri. C’erano anche tre tarantini, un avvocato, con il suo cliente, e un ufficiale giudiziario che veniva in macchina da Taranto per una questione legale. Furono presi dai tedeschi, all’ingresso di Matera e chiusi con gli altri ostaggi.
     Veniva la sera, uno di quei lunghi tramonti di Lucania col cielo viola e verde sui monti. Si continuava a sparare per le strade: in via Firrao un gruppo di cittadini tirava sui tedeschi che passavano lungo la ferrovia. I tedeschi col mitra e il cannone potevano tenere la piazza ma, sotto la spinta della rivolta, decisero di ritirarsi. Razzi salirono alti nel cielo dalla parte del castello, altri razzi ripresero lontani dal presidio tedesco di Altamura. Erano le otto di sera, i tedeschi raggruppati attorno al loro cannone percorsero la città sparando: colpirono molte case, fra cui quella dell’avvocato Latronico e soprattutto, da Sant’ Agostino tirarono verso il Duomo, sulle case che sono sul ciglio del Sasso: poi si mossero per lasciare la città. Fu allora che una grande esplosione squarciò l’aria della sera: i tedeschi avevano minato la caserma della milizia e l’avevano fatta saltare al momento della partenza con tutti gli ostaggi che essi vi avevano rinchiuso. Tutti morirono. Il Siciliano, suo figlio, i tarantini e gli altri: 24 persone. Due soli erano riusciti prima a salvarsi saltando da una finestra. Uno si ruppe una gamba. 1 tedeschi si ritirarono nella notte e Matera rimase nel silenzio con i suoi morti. Gli alleati non arrivarono: i tedeschi avrebbero potuto tornare e compiere maggiori vendette. La notte, dopo quelle tre ore di tensione e di coraggio popolare, passò nell’ansia, le orecchie tese ai rumori lontani dalle distese desolate dei monti. Molti si rifugiarono nelle grotte antichissime della Gravina, quelle dove avevano vissuto coi loro strumenti di selce gli abitatori preistorici, e deve ora si annidano, a stormi, i pipistrelli. La gente del Piano, di Matera alta, dormì, per una volta tanto, per la prima volta nella vita quella notte, nelle grotte dei contadini, accanto agli animali, agli asini e alle capre.
Fu mandata nella notte, una ambasceria verso Montescaglioso a chiamare gli alleati, guidata dall’avvocato De Ruggiero.
     Pare che nel dubbio ci fosse ancora qualche tedesco a Matera gli Alleati avessero deciso di bombardare all’indomani la città e di raderla al suolo. L’avvocato De Ruggiero dovette garantire che i tedeschi erano stati cacciati, ma solo nel tardi pomeriggio del giorno seguente arrivarono le prime avanguardie: due autoblinde americane dei canadesi e dei nordafricani del reparto del «Gatto nero». De Ruggiero abbracciò il primo soldato che mise piede sul suolo di Matera (era di pelle nera: e questo non gli fu perdonato dai fascisti che ne fecero argomento contro di lui nella recente campagna elettorale).
     Questa è la breve, semplice storia dell’insurrezione di Matera, che gli italiani non conoscono. Prima delle quattro giornate di Napoli, prima di ogni altro episodio della Resistenza, Matera si ribellò e corse alle armi, senza preparazione, senza organizzazione, spontaneamente: gli uomini che si batterono e morirono. Manicone e gli altri erano degli uomini semplici, non seguivano un piano né una ideologia ma un moto profondissimo del cuore. «Perché lo hanno fattoo . » ho chiesto a un vecchio contadino del Sasso. «Non gli andava più» mi rispose. Per quanto nel grande frastuono di una guerra questo episodio, che durò in tutto tre ore, possa sembrare piccolo e passare inavvertito e sia rimasto, in effetti, sconosciuto ai più, a me pare che il fatto che la prima battaglia della resistenza italiana sia avvenuta proprio a Matera, nella chiusa capitale contadina, abbia un senso reale. Da queste grotte sotterranee, dal profondo della terra, partono le lunghe marce. Non ci fu, il 21 settembre, come al tempo mitologico del conte Tramontano, la cafonità. Era scoppiata, ancora una volta, nell’anima degli uomini qualche cosa che vi stava compresso e inespresso, ma prese una forma nuova, forse perché, per la prima volta, chi si rivoltava non era mosso dalla sola disperazione, ma dalla speranza. Forse nell’anima di Manicone e degli altri in luogo del senso dell’impossibilità di mutare un mondo nemico se non con la morte, c’era, per la prima volta, improvviso il senso confuso di qualche cosa che si stava creando, di una solidarietà nuova, di una costruzione possibile e propria. Il chiuso orizzonte feudale pareva aprirsi, si potevano creare se ci si batteva per questo dei nuovi rapporti umani. Questo è il valore profondo di quella grande rivoluzione che fu la Resistenza Italiana, più vera per aver trovato qui, tra le argille e i tufi della terra contadina, il suo primo episodio.
     Molte cose sono avvenute poi che sembrano aver cancellato anche dal ricordo quell’inizio spontaneo di libertà. Ma nulla di quello che avviene su quella terra spoglia si perde mai anche se sembra uscito dalla coscienza. È nato il movimento contadino che nella lotta di ogni giorno, fatta di cose minime e pur dure, contro la struttura feudale, non vorrebbe tornare all’ira disperata di un tempo, alla feroce cafonità. Gli studi, le ricerche, la riforma agraria, le costruzioni di case alla Martella e negli altri futuri villaggi agricoli sono cose ottime purché non vengano elargite paternalisticamente da uno stato estraneo per quanto illuminato a dei sudditi estranei. Non erano estranei il 21 settembre quando, per un momento, essi erano lo Stato e Manicone moriva.
     Non c’è soltanto la miseria e il bisogno in questo mondo sotterraneo: quello che, lentissimo, vi nasce, vi nasce per sempre.
Da:
Carlo LEVI
LE MILLE PATRIE
Uomini, fatti, paesi d’Italia
DONZELLI, Roma, 2000, pp 193 – 203
Già pubblicato su «L’Illustrazione Italiana», dicembre 1952

[1] Il farmacista Raffaele Beneventi era il fratello della madre di mia moglie, Giuditta Beneventi De Maria

 

One Response to La cafonità: a proposito della FaiMarathon 2014 di Matera

  1. Quo Vadis Network ha detto:

    Matera. Città da scoprire continuamente.
    Non una, non due ma più e più volte.
    Io ci vivo. Vivo i Sassi, sia il Caveoso che il Barisano e ogni volta che giro per le strade degli antichi rioni scopro cose nuove. Particolari che non avevo mai notato.
    http://www.quovadisnetwork.com/#!matera/c1bu1

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